Francesco Borrasso – Sott’acqua

di Eduardo Savarese

Francesco Borrasso
Sott’acqua
pp. 146, € 16
Giulio Perrone, Roma 2023

«Ormai sono un pesce, pensa. Sente il moto delle onde che lo scuote, lo culla. Ha fame, il suo stomaco è una pulsazione continua, come se dentro ci fosse finito il cuore e stesse battendo forte». È apparentemente semplice e lineare Sott’acqua, ultimo romanzo di Francesco Borrasso (Giulio Perrone). Il protagonista è un bambino che si chiama Luca. Subito, dopo le prime righe d’avvio, siamo messi di fronte al trauma fondamentale e al motore narrativo della storia: la morte improvvisa della madre di Luca. Il bambino (cosa che, tra i bambini, non accade affatto di rado) ha una sua paura quasi ossessiva, originaria intorno alla morte e soprattutto intorno alla morte sua e dei genitori. Ne conosce, a un livello ancestrale preconscio, la terrificante indicibilità, se volessimo ricorrere alla categoria così esattamente delineata da Vladimir Jankélévitch nei suoi scritti sulla morte. Luca ne è inorridito al punto da aver guadagnato dalla madre una promessa fondamentale: che lei non sarebbe morta, mai e poi mai. Il mancato mantenimento di questa promessa e la comunicazione impossibile col padre spingono Luca alla fuga da casa, per vivere una serie di esperienze in una pelle diversa, in un ambiente modificato: si sente trasformato in pesce e circondato dall’acqua. Infatti, per la maggior parte del romanzo Luca non parlerà più, esprimendosi attraverso le parole scritte su un’agenda che porterà con sé di avventura in avventura, di cimento in cimento.

Una storia, dunque, dalla struttura e dallo stile diretti, asciutti, in cui il sentimento – e il rischio, così elevato in storie simili, dell’eccesso melodrammatico o della retorica pietistica – si tempra nella dimensione fisica del percepirsi come un pesce sott’acqua. Ed è questa prospettiva a segnare la peculiarità del punto di vista, costruito con una credibilità quasi ossessiva che spesso ci rende insopportabile lo stesso protagonista, la sua infantile elaborazione del lutto, la sua fatica di accettare la morte. È quindi il punto di vista così accentuatamente “corporale”, quasi una metamorfosi ovidiana contemporanea (talvolta troppo insistita), a far conseguire una forma sicura alla storia.

La fuga di Luca, che non crede alla morte della mamma ed è diretto al Borgo, dove è certo di poterla rincontrare, è la storia della sua trasformazione, e questa storia gli consente, rinnegando la morte della madre per l’amore che le porta, di accogliere, alla fine, quel mistero terribile, prima riprendendo la voce, poi praticando la scrittura (di una lettera): «Luca prova ad assaporare questa nuova parola, la passa sopra la lingua e la ripete a mente così tante volte che le lettere assumono vita propria e la parola perde di significato e lui pensa che forse è così che bisognerebbe fare con la morte, parlarne fino a farle perdere forza, potere, parlarne fino a farla diventare qualcosa di comune».

Borrasso, in questo percorso subacqueo dove si apprendono le lezioni sulla sofferenza più pura, più rarefatta, riesce quindi a proporci una forma coincidente col punto di vista del bambino-pesce, modellata dall’urgenza – la stessa di Luca che, sporco e affamato, bussa alle porte sconosciute del Borgo – di raccontare un tema drammaticamente contemporaneo e, nonostante le vane sirene contrarie, ineludibile: la fuga (fisica e psicologica) che pratichiamo con inconsapevolezza forsennata, noi sopravvissuti alla morte delle persone, soprattutto a quella delle persone più amate, più importanti, nell’illusione di evitare il pensiero sulla nostra propria morte.