Refusi

di Filippo Tuena

La letteratura è esercizio di libertà. Ho spesso pensato che trovandomi costretto a letto o in poltrona per qualche malanno che m’impedisse di muovermi, la possibilità di immergermi in un libro potesse farmi tollerare l’immobilità e concedermi l’illusione di una certa libertà. Lo stesso potrei dire della scrittura: riesco a evadere scrivendo. Per questo faccio fatica a considerare la letteratura, che la si legga o la si produca, un’attività legata a schemi, a regole. È libertà. Di qui l’argomento di questa seconda puntata dei miei Refusi.

Leggo con una certa frequenza discussioni o diatribe o semplicemente conversazioni riguardo alla prevalenza della narrativa d’invenzione rispetto all’autofiction, o viceversa. Si sa cosa i fautori della narrativa di genere imputano allo sguardo ombelicale del memorialista e si sa, altrettanto, cosa quest’ultimo rimprovera ai favolisti. Per quanto mi riguarda ho frequentato entrambi i generi e, paradossalmente, ne ho alla fine privilegiato un terzo: raccontare storie vere che non mi riguardano direttamente ma di cui sono curioso, nel senso poundiano del termine, ovvero facendo mio il suo adagio “bad writers are without curiosity” poiché, mi pare ovvio, nessuno vuole riconoscersi come scrittore mediocre. Dunque nello svolgimento di queste storie, scrivendo dell’indagine che le materializza, a volte inciampo nell’autobiografia o mi lascio ugualmente sedurre dall’invenzione. A volte, peggio ancora, contrabbando l’invenzione in un menzognero autobiografismo.

Se potessi formulare consigli e non esprimere questi pensieri che riguardano essenzialmente il mio lavoro sulla scrittura, mi sono convinto che l’autofiction non regge le dimensioni di un volume corposo o, perlomeno, non sono mai stato capace di stendere la memoria come l’impasto pressato da un mattarello su un ragguardevole numero di pagine. La mia memoria, se è intensa, si esaurisce in pochi tratti, in poche situazioni, con pochi protagonisti. Sento l’obbligo di operare scelte, di escludere, di dimenticare volontariamente. A volte lo faccio per non coinvolgere altre persone, a volte semplicemente perché non serve o perché non ne sono capace.

Del resto se è piacevole posare lo sguardo su una vecchia istantanea che spunta inaspettata dalle pagine di un libro che stiamo sfogliando, l’insistita rassegna delle immagini conservate in un album di fotografie è intollerabile. La malinconia che emanano questi lacerti incompleti del passato è devastante. La vista e l’animo non possono tollerarla. Subito subentra un sapore dolciastro che avvelena quanto di buono andavamo cercando in quella ricognizione. Altrettanto ferale sarebbe dover scrivere di tutto quel che riemerge dal passato. Così avviene questa sorta di tradimento o, più semplicemente, di selezione di quel che va scritto e conservato e di quel che va taciuto o cancellato.

Ecco, mi accorgo adesso, che ho contraddetto quanto enunciato nelle prime righe: la letteratura, in realtà, non è esercizio di libertà. È rispetto delle proprie convinzioni e della ricerca di una simmetria naturale che le rende condivisibili. Ma anche questa formula, mi accorgo, semplifica la questione e la circoscrive. Tautologicamente potrei concludere proprio come ho cominciato: la letteratura è libertà. Ciascuno si sceglie la propria, e risponde solo a essa, ampliando o circoscrivendo il campo d’azione, inventando o analizzando il passato proprio e altrui o inventando storie con il massimo dell’attenzione e del rispetto. Anche se, in fondo, l’unico rispetto che si deve è alle parole, al loro posizionamento sulla pagina, al rapporto che si crea tra loro, perché alla fine il vero argomento dei libri è la semplice e complessa e mirabile giustapposizione di una parola dopo l’altra.

Ne parleremo sovente nei prossimi arzigogoli di cui sono composti questi Refusi.