Silvia Cassioli – Il capro

Un fantasma collettivo

di Beatrice Manetti

Silvia Cassioli
Il capro

pp. 398, € 19,
il Saggiatore, Milano 2022

Se Verga, anziché la storia dei Malavoglia, avesse raccontato quella di Pinocchio, forse avrebbe scritto questo libro. Con la fiaba di Collodi, Il capro condivide la conoscenza profonda e la messa in scena senza abbellimenti della Toscana rurale e sottoproletaria, il fantasma perturbante del marchio internazionale “culla del Rinascimento” che dal burattino di legno arriva fino al Cioni Mario di Benigni: un mondo in cui si intrecciano edonismo e miseria, ferocia e spirito fantastico, complessi di inferiorità e ribalderia affabulatoria. Del capolavoro verghiano, richiama l’invenzione più originale, quel narratore popolare e anonimo accomunato ai propri personaggi dalla stessa cultura e dallo stesso linguaggio – in questo caso un vernacolo fiorentino finalmente sottratto al bozzetto o allo sketch e restituito alla sua creatività funambolica che lo rende disponibile tanto all’aneddoto quanto all’affresco di costume.

Silvia Cassioli aveva già sperimentato una commistione analoga di italiano e dialetto senese nel suo romanzo precedente, Il figliolo della Terrora (Exòrma, 2019), dove sfilava mezzo secolo di storia italiana, dall’attentato a Togliatti alla fine del berlusconismo, narrato in tre quadri e attraverso le tre donne del protagonista Omero Bastreghi. In quest’ultimo libro il suo virtuosismo linguistico di narratrice, poetessa e performer è sostenuto da un intreccio forse meno ambizioso ma certo più coeso, perché è messo al servizio di una vicenda che dal fatto di cronaca è transitata nei territori prima dell’ossessione collettiva, poi del mistero senza soluzione e infine del complottismo paranoide: la storia del mostro di Firenze, che dal 1968 al 1985 ha lasciato nei boschi tra Vicchio e San Casciano sedici coppie assassinate, nel corso degli anni novanta è stata al centro di una serie di processi tanto accidentati quanto controversi e ha alimentato fino a oggi una lunga teoria, e una altrettanto lunga bibliografia, di ricostruzioni alternative.

Il romanzo di Silvia Cassioli, però, non è l’ennesimo contributo alla “mostrologia applicata”. Alla sua autrice il piano dei fatti interessa soprattutto come materia e innesco di ciò che lo ha accompagnato e in qualche modo sommerso: il rumore di fondo dei resoconti giornalistici, delle illazioni, delle allusioni, delle diffamazioni, tra chiacchiere in piazza e telefonate anonime in questura; la voce corale di una comunità che il narratore si incarica di rispecchiare, accogliendo nella propria voce quelle degli investigatori, dei sospettati, degli imputati, delle vittime e dei parenti delle vittime, della moltitudine anonima traumatizzata non solo dall’irruzione del male nella favola bella della Toscana Felix, ma anche e forse soprattutto dalla scoperta che il male, dentro la favola, c’era già, c’era sempre stato.

Il capro che dà il titolo al libro, allora, non è (o non è soltanto) Pietro Pacciani, e neppure i “compagni di merende” Mario Vanni e Giancarlo Lotti, ma il mostro stesso, inteso come fantasma collettivo in cui si incarna e si sfoga un’antropologia della provincia curiosamente trasversale alle classi sociali: dove il maschio alfa e il maschio beta, il pastore sardo e il farmacista del paese, il contadino e il professore universitario, lo scemo del villaggio e il sensitivo si rivelano omogenei e funzionali l’uno all’altro, in un groviglio di omofobia e omofilia, sessuofobia e sessuomania, la cui radice profonda è meno il sesso che il sessismo. Perché “Firenze nelle sue campagne è godereccia” e “l’òmini nel giorno del Signore son cacciatori e trombatori (…) Se non fosse che l’è attaccata, s’impaglierebbero anche qualche fiha, di modo che unne scappi”. Così, senza tanti giri di parole.

Di questo, in definitiva, racconta Il capro. Dell’atavica paura maschile, e della conseguente volontà di annientamento, della donna. La storia del mostro di Firenze, per come la racconta e la interpreta Cassioli, è una micidiale macchina verbale che ha triturato, insieme alle sedici vittime accertate, le mogli, le amanti e le figlie dei presunti mostri, casalinghe di lusso e prostitute da due soldi, messe a tacere le une a forza di psicofarmaci, le altre a colpi di coltello. Spetta a loro l’ultima (o meglio, la penultima) parola, in un epilogo che sposta in una sala degli Uffizi l’ambientazione messicana della Parte dei delitti di 2066 di Bolaño: dopo le pagine dedicate agli omicidi del mostro, travolgenti per ritmo narrativo e varietà di registri, e quelle più lente e faticose sui processi, Il capro si chiude sul coro delle vittime collaterali, uscite tutte da un quadro del Bronzino, di Raffaello o di Sofonisba Anguissola per finire ammazzate in un alberghetto dietro la stazione “nella culla dell’Uomo, dell’Umanesimo ecc.”.

E allora probabilmente no, né Verga né Collodi avrebbero potuto scrivere questo libro. Solo una donna, una scrittrice autentica piena di sensibilità e talento, una poliedrica artista toscana nata nel 1971, e quindi segnata nella memoria e nell’immaginario dalla mostruosità di cui il mostro non è che la figurazione simbolica, poteva coglierne e ricrearne narrativamente il tragico, il patetico, il comico e il grottesco, inseparabili l’uno dall’altro e condensati nell’ultima frase del libro, che arriva come un lampo e che qui non si dirà, per non rivelare il nome dei veri colpevoli.

beatrice.manetti@unito.it

B. Manetti insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino