Adil Bellafqih: un estratto da “Il grande vuoto”

Adil Bellafqih con “Il grande vuoto” ha ricevuto una menzione speciale della giuria

nella XXXI edizione del Premio Calvino

La motivazione della giuriaUna menzione speciale va a Il Grande Vuoto di Adil Bellafqihper l’originale capacità di mescolare tra loro generi diversi come il noir e la distopia, con un suggestivo uso di cliché e di citazioni provenienti da un immaginario visivo squisitamente contemporaneo. E, in modo obliquo, il romanzo e il suo giovane autore gettano sull’oggi un perturbante e pungente sguardo radicale.

dal numero di giugno 2018

Realtà reale e realtà aumentata

Mi alzo e per poco do una zuccata contro il tettuccio basso della Lux. La mia auto. La mia auto è la mia stanza, il mio rifugio, così come lo studio subacqueo di Eckhart è il suo. La mia auto è anche la mia casa. Avere una dimora fissa di questi tempi è stupido visto il lavoro dei Demolitori. Ogni cinque anni i quartieri di tutte le megalopoli vengono rasi al suolo e ricostruiti da zero, un sistema che ricorda molto la rotazione dei campi nell’agricoltura pre-Crollo. È un modo per rinnovare la città, dare lavoro e stare al passo coi tempi. Eckhart è convinto ci sia di più, crede sia uno dei tanti modi che il governo ha per eliminare la memoria storica dalla testa delle persone. I luoghi rimangono, raccontano storie, sono testimonianze del passato, ricordi viventi, fibre mnestiche del tessuto connettivo dell’Alveare, ma ora che è tutto registrato nella cronologia globale non ha senso mantenere anche i ruderi. Così si rinnova. Si rinnova il volto della città. Si rinnova lo spirito collettivo.
Siamo tutti collegati, giusto Eckhart?
Giusto.
Mi isso sul seggiolino e abbasso il finestrino per far entrare un po’ d’aria. Nell’abitacolo si cuoce. Una zaffata di polvere mi investe la faccia sudaticcia. Ecco uno degli inconvenienti di vivere in un’auto: niente doccia né servizi. Mi arrangio come posso e comunque nessuno si preoccupa della puzza di un barbone.
Controllo lo specchietto retrovisore e vedo riflesso il volto di Eckhart che mi fissa coi suoi occhi di ghiaccio. Quanto è comoda una maschera? Alzarsi ogni mattina e vedere la propria vera faccia che ti scruta inquieta deve essere una delle esperienze peggiori. Per fortuna nessuno è costretto a subirla. Tranne me.
Esco dall’auto per sgranchirmi le ossa. All’ombra del ponte scorgo il luccichio della città sulla sponda opposta. Nella tenebra scintillano i manifesti scorrevoli delle pubblicità come code di tante comete, una pioggia, una tempesta di comete. Tracciano archi lunghi chilometri come arcobaleni composti di facce e sorrisi e musica e colori.
Scorgo i filari di condomini impreziositi dai manifesti virtuali, dalle forme e dalle immagini sovrapposte alle dure colate di cemento, una festa per gli occhi e le orecchie. Una hit nuova all’ora sostituisce subito quella vecchia e così non c’è mai silenzio, perfino qui nel mio ritiro sotto il ponte sento il riverbero della musica nell’etere. Vive e attraversa il cemento come una corrente sotterranea, ti pompa dritta le cervello; isolarle e abbassare il volume di ciascuna è un lavoro lungo e duro, per fortuna c’è Molly a occuparsene.
Ora alzo una mano e mi copro l’occhio destro col palmo. Metà mondo scompare. Con esso spariscono le luci, la musica e tutto il resto. Resta solo l’immagine di una Roma stritolata dal cemento e da una sottile pioggia di polvere grigia sotto un cielo troppo simile all’inchiostro.
È la mia unicità. Sono dentro e fuori dall’alveare. A differenza degli altri, solo il mio occhio destro funziona. Se lo copro, ecco dispiegarsi la realtà dietro la realtà. Eckhart la chiama realtà reale.
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L’unico limite buono è il limite superato.