Andrea Manenti – Orfeo2025

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Orfeo ed Euridice, mito pre-omerico, autore sconosciuto

ELEMENTO SCELTO PER IL RETELLING: personaggio – Orfeo

Andrea Manenti
Orfeo2025

Euri s’è data.

A me, al bagliore di finestre socchiuse, mille volte, sempre nuova, al Gianicolo e nei giardini degli aranci e delle rose. Sapeva di salvia. Lo stesso bic fluo che schiudeva Peroni, incendiava erba sativa e, sotto i suoi occhi, accendeva galassie di efelidi che il cielo – lascia stare – non aveva mai regalato. Nei suoi fianchi risuonavano sismi da fondali di oceani nascosti da sempre. Le cantavo le mie linee.

«Scrivine una per me, Orfè. Scrivine un’altra» diceva.

Senza basi, perché ero senza rete. Senza fari, senza mete. Volavamo via, io e lei.

Sabati pomeriggio nell’azzurro di lenzuola integre, nei refoli della brezza del Circeo che suonava aghi di pino. Nella villa dei suoi come superstar, baci al Franciacorta. Nelle fughe di notte a Santa Severa a guardarci il fondo degli occhi. Sempre incollati. Clandestini. Le sue mani erano calde, le mie idee bollenti. Prima o poi, lo sentivo, questa rima perfetta qualcuno ce l’avrebbe strappata. Questa rima spezzata. Questa metrica ostinata. I genitori, la Maturità… qualcuno si sarebbe opposto. Non farti illusioni, Orfè. Gli artisti nascono e muoiono tristi. I trapper: maledetti.

Euri invece, benedetta dagli astri, è nata figlia di avvocati, un frigo di champagne. Sebbene io non ne sentissi le spinte profonde, covava il progetto di scappare, la ninfa, dal suo bosco di driadi troppo ebbre, troppo belle e troppo puttane per resistere all’abisso.

Doveva calpestare una serpe la mia bitch. Ed è così che è andata.

Euri si è data.

Ai fumi gialli delle stagnole, nelle spire ruvide della condanna di un altro. Aveva un nome a sonagli, il serpente: JackLaSerpe Srls. Casa discografica, studio in casa. Penna stilografica. Firma dorata.

Euri segnata.

Fosse rimasta con me non avrebbe mai fatto quel salto sul crack che fa crick e poi bum e poi silenzio. Sarebbe bastato il soffio salino di un fumo leggero a portarci in giro. Lui invece la voleva come una figlia carina, del tipo: più che pronta a dimostrarsi una sporca. La incoraggiava, la voleva mutante, la sfidava a squarciarsi la pelle magica e sbarazzarsi del profumo.

Disperato? Avevo lame nello stomaco e arpioni di ruggine. Sgorgavo funerali di sincopi al sapore di anice che bruciavano pagine. E poi pagine, ancora. Nere di tormento, avvilite dal vento ossessivo e snervante che assilla di sabbia gli occhi dei malinconici. E la ferita si riapriva in tempesta, fuoco opaco e tanto fervido che mi sarei annegato perché, a dirla bene, la colpa era mia.

Gliel’avevo servita quando cercavo attenzioni, gravido di entusiasmo per fargli sentire il mixtape. Allo Smash. LaSerpe era troppo importante, era lui che creava i Rex Rolly, i Fume, i Drexx. Se ne stava su un pianeta diverso, fatto di top ten, di contratti Universal, platino che colava su dischi stampati per sfavillare come ostentati gingilli nella cintura di Orione. Ti produceva e spiccavi il volo. Tocco segreto, connessioni impazzite… su Spotify schizzavano pezzi italiani che United States of What? Levati proprio, ci restavano male a vedere Fume sopra Lady Classifica Gaga. Drexx sopra Bruno Divinità Agguerrita Mars. Trastevere in playlist Top 50, Testaccio come Atlanta, azzardo, sfacciataggine, riusciva a fare tutto. Sempre più gente addosso, modelle svampite e sgherri, youtuber e photopportunisti, solo avvicinarsi e allungargli una demo: eri uno tra milleuno con la stessa originale trovata. Ma quando ha visto Euri, la serpe si è ghiacciata. Serpente freezato, rapito in un nanosecondo. Ci ha fatti avvicinare con un dito e ci siamo staccati dallo sfondo. Così gli ho dato il mix e grazie grazie, andiamo andiamo, mi allontanavo che ancora ci fissava come un killer colombiano. Temevo ci lanciasse dei coltelli, a dire il vero. Più restava immobile e più incuteva terrore.

Euri sedata, già, così era quando appariva. Buttata come un soprabito su un divano d’autore, dimenticata sui sedili di un’auto sportiva: una morta in vetrina. Sempre dietro a lui, via via più trasparente. Qualunque cosa andasse cercando, per ora sembrava trovare sempre il suo stesso volto, vacuo, appena dimenticato, riflesso tra le strisce sui tavoli trasparenti, nell’acqua turchese ai bordi di vasche riscaldate, luminescenti. Inspirava vapori di zolfo dall’oltretomba. Prendeva cristalli, Fentanyl, vai a fare la lista, non fa differenza. Fantasma appeso a fili deboli ormai, offerti alle forbici di una Nemesi che desse un taglio a quella tragedia annunciata. Il tempo cominciava a scorrere in modo perverso. LaSerpe impassibile, Euri sfuocata. Ai limiti del quadro, li studiavo attraverso muri di pioggia e di rammarico, uscire da una portiera ad ala di gabbiano, infilarsi nella porta girevole di un cinque stelle, attraversare red carpet immaginari srotolati su sanpietrini neri e bagnati. Li invidiavo, forse. O nelle tasche non trovavo altre chiavi di lettura se non quelle dell’amarezza. Poi, una sera, mi ha fatto avvicinare da uno dei suoi: LaSerpe mi voleva parlare.

La palestra era specchi e neon, legno e vetro. Alla panca, da solo, muoveva tiranti con gli anelli neri scritti sulle dita. Le molle dell’attrezzo suonavano requiem siderurgici. Era soverchiante anche da sdraiato. Al posto dell’oro che lo copriva di solito, il serpente inciso sul collo vibrava scaglie giapponesi a ogni sussulto di arteria. Cosa ci facevo lì? Non c’era stato il tempo di capirlo.

«Scrivimi una linea, Orfè!».

Quella frase, riemersa da una fonte inquinata, suonava come un brutto scherzo, come un film d’autore su un canale postsovietico in cui tutti parlano con la stessa voce.

«Hai talento, bimbo, dico davvero».

Albume privo di anima negli occhi che fissavano il vuoto. Non ero là per questioni di musica. L’aveva avvelenata. Questo era stato il tema portante del mio film, quando ero entrato. L’aveva vestita di abiti cinici per disamorarsi degli ingenui come me. Si è alzato. La parete-finestra lo invitava sul nulla cosmico di quella notte svuotata di senso.

«Voglio uscire con un disco mio. Solo mio».

Non a me, l’aveva detto al suo riflesso mentre cercava di vedersi nel vetro come un gigante sovrapposto agli edifici.

«Sono stufo di stare dietro al mixer. È venuto il mio momento».

Disomogenea, senza i contorni al loro posto, l’ombra era un feticcio bombardato dal meteo.

«Tu vuoi Euridice. Io voglio che mi scrivi un disco».

Ora, quel tempo che aveva iniziato a battere invitava a danzare una musica che non era la mia. Eppure desistevo. Incapace di fare un passo indietro e dire: dimenticami.

«Scrivi il disco, lo firmo io. Tu sparisci».

Aiutarlo nel sogno degli artisti senza talento. Oppure abiurare, puntare dritto alla porta.

«In cambio la scarico. Le dico che sono stufo. Che poi è vero. Se ti dice bene, magari torna da te».

Ho guardato anche io alla finestra. E le luci di Roma erano cambiate, retrocesse a pallido souvenir di memorie vandalizzate. LaSerpe aveva sporcato anche quelle.

Euri si è data. Alla fuga. Sparita. La cercavo nei fondi dei tombini, nelle panchine delle metro, sui marciapiedi, nelle lattine ammaccate ai lati delle strade. Nei cimiteri. Sarei andato negli inferi a reclamarla, avessi saputo la strada. Nulla. Vagavo rasente i graffiti, solcavo vicoli brulicanti di bipedi, di promesse di sconti irrinunciabili, di turisti intontiti e implacabili, di polvere urbana che sapeva di tutto tranne che di lei.

LaSerpe era stato di parola. Lei era svanita nel nulla. Lui invece era ovunque. Nei manifesti, negli schermi dei telefoni e dei negozi di tv. Le sue consonanti inascoltabili uscivano a ripetizione da ogni speaker della città. E cominciavano a sembrare passabili. Voleva un disco top? Era accontentato. Sipario chiuso. Solo, dietro ai muri spessi e alle scale antincendio dei camerini, senza ninfa e senza rime, non restava che staccare le luci di servizio di uno spettacolo in cui ero l’ultimo degli inservienti. Disilluso. Dedicato ai pavimenti. Specialista di lamenti. Odiatore di serpenti.

Dopo due anni passati in questo modo stupido, arriviamo a ieri sera.

Andavo a sbattere sui passanti e i suoni del Lungotevere mi arrivavano distorti come strani incidenti. Con una bocca da randagio lugubre, aggrappato a un cestino rigido, grigio come il mio iride stupefatto, ero davanti a un cartello di teatro e leggevo le scritte. Spegnevo cicche. Cantavo i nomi per noia, cercavo le rime tra i macchinisti e gli attori, trovavo endecasillabi tra i compositori, settenari di coreografi dai nomi biblici, tecnici luci con appellativi atzechi. Stava per piovere di nuovo, ma non mi andava di tornare a casa. Tra i nomi scritti in piccolo c’era forse una specie di malinteso che mi faceva tornare sempre alla stessa riga. Una beffa tragica, o forse era solo un’omonimia? No. Una specie di epifania cardiaca mi sequestrava il diaframma. Una speranza al fosforo lampeggiava tremula. È così che solo un poco più tardi, in mezzo a un corteo di abiti da sera, dall’altro lato della strada la ninfa era trasformata.

La mia Euri sognata.

Parlava a un vecchio in francese: «César, donne-moi une seconde, j’ai un ami que je n’ai pas vu depuis une éternité».

Qui. La aspetto su ponte Milvio ed è mezzanotte. Così ha detto prima di entrare in teatro: che sarebbe arrivata più o meno a quest’ora. Guardo il Tevere che si arriccia e districo matasse di pensieri troppo irrigiditi per piegarsi alla realtà. Troppo curvi e inanellati uno all’altro per separarli. È tornata, certo, ma sembrava ben distante stasera, dall’immagine lasciata indietro.

«Orfeo»

«Euri» volevo dire. Ma la voce si è rotta per strada.

Ci abbracciamo in un sospiro morbidissimo.

Sa di resina, di vestiti in ordine. Di venerdì sera e di inserto cultura.

«Ti ho cercata per… Dove eri finita?»

Ha un viso diverso, un taglio più corto, quasi niente lentiggini. Sembra una specie di donna.

«Fuggita», rettifica. Da noi e da tutti. Da me, anche.

«In una comunità a riprendere fiato», dice. E i capelli si muovono sulla fronte. E nemmeno le labbra tremano più come prima. In Francia ha sentito alla radio le mie rime, conferma di quello che aveva già intuito: usata come una moneta.

«Non sono mai stata la tua ninfa Orfè. Nemmeno la tua splendida bitch» dice. «Mai stata.» ripete.

Puntavo su un lieto fine, non avevo capito troppo bene.

«È stato bello con te. Ma anche con lui. È stato utile anche quel passo falso, per capire cosa cercavo».

«E cos’è che cercavi?».

«Non lo so dire. Ora sto con César. Regista argentino. Mi ha aiutata, l’ho conosciuto a un workshop. Ma non sono di nessuno, Orfè. Mi salvo da sola».

I miei occhi sono fango nero. Cerco le sue mani e non trovo nemmeno le mie. Quei riccioli di Tevere che si ribaltano mi dicono ansia.

«Sei tu che ti devi salvare, Orfeo. Trova il modo. Hai fatto due anni a ripensarci? Jack l’avevo già lasciato quando ti ha proposto lo scambio. Ti ha fregato».

La voce di Euridice mi rimbalza ancora in testa come un’eco amarissima e ammaliante che non voglio spegnere. Una hit a rotazione. Veridica come un canto. Cammino incessantemente. Mi fermo solo ogni tanto e indugio. Mi sento il residuo inutile di una confezione Amazon.

«Smetti di guardarti indietro, Orfè. Non so dirti altro se non questo.»

Il ponte dietro di me. E lei che se ne va dalla parte sbagliata. Emozioni perdute. Le mie rime svendute.

Gli stessi riccioli juventini di fiume che sembrano agenti immobili, che sono simili se non identici di stagione in stagione, che sto guardando ripetersi da ore, che vorticano all’infinito in un ciclo incolore. Non sono davvero nulla. Un lampo di vita di un litro di fiume che sta solo scappando verso il mare.

«Non voltarti, adesso».

E tra i pini, mi dico, quella che sta nascendo sarebbe la prima alba di una nuova vita? Un diciannovenne che si sente antico come un sample strausato, già sentito.

Imparerò mai a coniugare questi ricordi al passato remoto? Ad archiviarli in un barattolo. Sottovuoto. Trasformarli in un mito inscalfibile.

Muto come un affresco sacro.