Anna De Rosa – Sull’origine del plurimillenario codice Dunbar

Seppure fosse giorno, me ne accorgerei a stento. 

Nel bunker, dove sono stesa su un prato di carta dal sapore di rugiada secca, i terrapieni alle pareti sono sopraffatti da asfodeli che decapitano l’orizzonte e il soffitto talpa ha solo un monocolo cieco da dieci watt.

Chiudo gli occhi e guardo intorno. 

Quando mi sono sotterrata, ero preparata alle meravigliose abbuffate che l’amigdala comanda. Come sempre, vedo i luccichii delle vetrine nelle pasticcerie, come quelle della Horakawa di Okinawa, e da ogni anfratto mi corrono incontro mochi rosa e dorayaki panciuti. Nel posto che ho confezionato, banconi tempestati di cristalli di freddo custodiscono chili di pagine di carne per lo shabu shabu, cataste di tranci di salmone, tofu e matcha cremoso. Piroettando con lentezza, al centro di questo rotondo, sfioro fornelli, dispense fitte di uova e cibo in scatola, ordinato secondo i colori dell’arcobaleno; il tatami e i pc di un’hacker alle prime armi.

Da qui proverò a cambiare il mondo, quello che ha varato una legge che può costringermi a sottopormi a un controllo del girovita e a pagare pegno, perché il mio corpo è obeso. Colpa. 

Ma c’è un problema: il mio corpo non ci sta ad essere sorvegliato. Perciò sono fuggita e ora lavorerò per modificare i circuiti di elaborazione del pensiero di massa. Li spolperò arrivando fino all’osso e, con forchetta e coltello, con eleganza, lo spezzerò e lo masticherò.

Io sono obesa, per scelta.

Era il giorno della gita alla cascata di Nachi, quando diventai una combattente. 

Nei mesi precedenti, dispacci silicati mi avevano messa al corrente della recente costruzione di un chip neuromorfico, una cosuccia che simulava un miliardo di sinapsi tra appena un milione di neuroni, con un consumo energetico da megalomani. Il team che ne era responsabile se ne vantava con orgoglio tronfio, senza accennare al fatto che la tacita meccanica evolutiva terrestre, quasi di nascosto, quasi senza sforzo, aveva costruito nel cranio umano un connettoma che coinvolgeva ben ottantacinque miliardi di neuroni e centomila miliardi di sinapsi mutevoli, per di più a bassissimo costo; numeri da capogiro. 

Ci pensavo a colazione, mentre avevo davanti il Tamago kake gohan che la vecchia Yui aveva cucinato: miliardi di cellule dal nucleo tondo e denso come il tuorlo d’uovo e dal citoplasma trasparente come il suo albume, in quel momento, erano attive dentro di me. Sentendone l’aroma come provenire dalla tavola, fui presa da una danza, in cui un guscio d’uovo mi avvolgeva e sosteneva a mezz’aria e moltitudini di tuorli in festa con i loro citoplasmi mi sfioravano le gambe e le braccia, in una melodia armoniosa che mi faceva fluttuare in pose coreografiche. Si fece tardi, mi sistemai in fretta il seifuku blu profumato di primavera e mi precipitai fuori di casa. 

Sull’autobus, ripensai a quel che si diceva, che gli sforzi di quelle opache e boriose menti di laboratori di neuroscienze erano mirati alla replica di un cervello, vero, in salute. Salute: un dato di fatto statico; non un’opinione, non una sensazione. I colonizzatori delle esperienze individuali lo rimarcavano: sano non è obeso; chi è obeso non è felice; salute è felicità; la felicità è un obiettivo valoroso. Quando quelle parole diventarono voci nella mia testa, mi venne improvvisa una terribile orticaria, la consueta reazione della mia pelle lattea alle bugie, la stessa che da piccola, se tata Yui dopo un incubo mi urlava che i sogni non erano realtà, il mio corpo metteva in campo: un’improvvisa fioritura di fiorellini di salvia scarlatta nei giardini di Gunma.

Da sempre, le stelle avevano l’abitudine di venire a farmi visita da ogni galassia e mi consegnavano pezzi di universo, di cielo e sottosuolo, codici oscuri, segreti, lasciati sotto le ciglia e sopra le labbra. Ogni notte, io divoravo i loro racconti proteiformi. La materia era amica e fedele, mi si rivelava senza favole che pretendevano una declinazione universale. Dovevo accettare Babele, per onorare la carne: la misura dei circuiti integrati del sistema umano,  di questo CPU multi-core iperpotente, in fondo, era il limite.  

Presto avevo appreso che lungo il tragitto da ieri a oggi i popoli avevano avuto necessità di miti, utili storie che venivano censite a buon diritto nel recinto del sacro e del particolare, e quindi non destinate ad essere armi per una brutale egemonia mondiale.

Tuttavia, di recente, i meccanismi che infarcivano la torta del tempo sanguinavano perché feriti e triturati da avida lama di santoku, mossa da chi, impaurito dalla piega globalizzante che il discorso terrestre stava prendendo, alimentato a minacce e a dieta di mentori, aveva sentito un’indomabile fame di conformità culturale, condita da mostruosi standard monocromatici. Costoro avevano allora commesso un delitto. Avevano afferrato la scienza, una deliziosa lente su un pezzettino di mondo, e l’avevano mistificata facendone un mito, per di più offeso poiché non riconosciuto come tale e usato come propaganda di una laica verità assoluta; una stortura nel funzionamento dei congegni di un ancestrale wadokei costruito per essere eterno.

Prima di giungere al punto panoramico, guardando i lunghi gradini da salire, mi vennero in mente le scalinate variopinte che costruivo con tata Yui sovrapponendo bastoncini gialli al limone, marroni allo zenzero, verdi al tè, beige al sakè e, tra essi, i miei preferiti, i più pallidi, quelli al gusto sakura. Mentre avanzavo verso la cascata, mi figuravo le mie suole divenire, 

ad ogni passo, dello stesso colore degli scalini di cioccolato Kitkat, e questo mi riempiva di amore per la vecchia Yui e per la bambina che ero stata, e mi aiutava a non cedere all’amarezza per quello che alla giovane adulta che ero diventata sarebbe spettato di lì a qualche settimana: farsi dare dei numeri da una bilancia tonta che non sapeva più riconoscere gli equilibri, davanti al giudizio di un ispettore statale che avrebbe circondato la creatura incerta che ero con un metro incapace di abbracciare la vita.

Imbizzarrita, accelerai fino ad arrivare in cima, di fronte al frastuono della cascata di Nachi. 

L’umidità rendeva gli odori più intensi ed ero inebriata da quelle colate di acqua così compatte e fitte da sembrare candide masse di zucchero gettate a precipizio in un pentolone, che si facevano sciroppose e nebulose sul fondo, quindi risalivano per meraviglie della fisica in cumuli di granelli sospesi nell’aria. Ero in estasi, caduta in una caramella dalla carta vitrea che conteneva una comoda gelatina spaziale in cui mi cullavo, tra lune e pianeti, e trovavo conforto balsamico per i miei turbamenti. Mentre me ne stavo così beata, udendo ancora il rumore bianco della cascata, riconobbi le antenate del clan Uesugi che mi salutavano e parlavano in lingue di fata, avvolte da spirali di bende fatte da bucce rosse di mele succose. Non ebbi modo di rispondere alle loro frasi, perché la responsabile del gruppo mi tirò su, dicendo che ero svenuta. Non era vero, ero solo andata altrove per un po’, dove la natura mi aveva portata, a prendermi la missione che mi spettava. Mi sarebbe stato dato tutto quello che mi serviva: un luogo nascosto, cibo e un nuovo linguaggio di programmazione, poiché C++ e Basic non erano assolutamente all’altezza del compito; ci voleva il linguaggio Y, come yosei, il fatato.

Scesa nel bunker avevo già deciso. Nella carta canterina della caramella mi era stato svelato che avrei potuto osare; proprio io, con i miei miseri hardware e le mie amatoriali conoscenze informatiche. Avrei potuto cambiare me, i miei circuiti mentali che mettevano a tacere troppo spesso l’ipotalamo laterale, rendendo più validi i segnali dell’ipotalamo ventromediale e di quella mandorla accucciata che è l’amigdala, e spingendomi all’iperfagia; oppure avrei potuto stravolgere l’ambiente in cui mi trovavo e con esso l’influenza dei millantatori di benessere unificato sulle percezioni delle moltitudini. Scelsi di mantenere me stessa e di modificare il resto. 

L’impresa sarebbe stata smisurata, ma potevo contare sull’aiuto di masse di particelle, da quelle organizzate in satelliti a quelle quantiche, passando per le innumerevoli strutturazioni intermedie, incluse onde gravitazionali e mummie antenate. 

Adesso ho un esercito dalla mia parte. 

Posso aggiustare le cose; per me, per le sagome accoglienti di tata Yui e di sua figlia Hotaru, per la silenziosa e paffuta Madoka, con cui camminavo verso scuola, e per la bellissima Aimi, che aveva scelto di morire pur di non patire il dolore di sentirsi sbagliata mentre gli occhi disapprovanti di troppi si incollavano sulle sue gambe morbide e ripiene come uno squisito manju sotto l’orlo del seifuku. 

Forse, come tutte le eroine che mi avevano preceduto, dovrò pagare un caro prezzo? Sono pronta al sacrificio. D’altronde mi è chiaro che la felicità, al cospetto della rettitudine e della giustizia, è solo un prodotto di scarto, come la lisca intera del salmone dopo la preparazione del sashimi; non ci si può rimanere attaccati saldamente, con il rischio di finirci ingabbiati, solo perché ricorda il profilo vitale originario da cui il nutrimento è giunto. 

Ho atteso a lungo che la paura se ne andasse, al calduccio sotto un materasso di tofu al profumo di salsa di soia. Ora non ho più scuse, ora è il momento di agire, ora è futuro. 

Il tempo di uno spuntino, di andare al fondo di questo grattacielo di pandispagna crema fragole e panna, e comincia la mia cavalcata. 

Nel linguaggio fatato di interpunzioni misteriose e riproduzioni simboliche di frequenze di infrarossi e ultrasuoni, al di là della percezione umana, codifico, colpo su colpo, una cancellazione di ogni produzione in serie, di ogni processo di normalizzazione, di ogni tentativo di medicalizzazione. Lavoro incessantemente, all’ascolto di vibrazioni ineffabili che la natura stessa, fattasi tecnologia, trasduce in informazioni. La principale, dopo la distruzione del vecchio, è il plurimillenario codice Dunbar: un algoritmo di socializzazione che prevede per ogni essere umano, di diritto, un numero minimo di legami stretti, di complici, di alleati e un numero massimo di contatti con cui influenzarsi vicendevolmente. Come i cerchi di una pietra nell’acqua, man mano che il grado di prossimità con il centro, cioè l’individuo, si riduce le maglie delle relazioni si allentano e si fa più grande la quota di individui che può rientrare in ogni strato progressivo; fino ad arrivare a un confine, a un limite. 

Non esistono impostazioni per orazioni di massa, niente popolazioni sconfinate all’ascolto di un’unica voce manipolante. Nascono nuove, contenute, tribù; ad ognuno ne spetta una, nessuno escluso. I criteri di appartenenza non sono geografici, né religiosi, né famigliari, né genetici; si risponde al richiamo del clan solo in virtù delle inclinazioni d’animo. Un sensore infallibile di riconoscimento, ottenuto grazie alla collaborazione di nuove organizzazioni cellulari in incognito, si costituisce come un’installazione sottopelle di konpeitō che rispondono al linguaggio Y del codice Dunbar. Tutte le tribù sono equivalenti e tutte biologicamente obbligate al rispetto reciproco. Miriadi di nugoli atomici si dispongono come bastioni di Pocky microscopici nei meandri del sistema limbico ad impedire lo scatenarsi di desideri di conflitti, giudizi e sopraffazione tra diversi; nessuno si sentirà più minacciato da ciò che elaborerà come insolito, perché questo nuovo codice impresso nell’inconscio collettivo infarcirà gli spazi intersinaptici con meccanismi quantici che come glassa lucida inebrieranno ogni individuo del sentimento di accettazione.  

Alla fine, completata la dettatura, dovrò solo schiacciare Enter. 

Sarà come sguainare una katana per squarciare un nero, forte, melone densuke e farne debordare la dolcissima polpa rossa con tutti i suoi semi, destinati a dare frutto per i millenni a venire.