Aquiles José Martínez Pérez – Equilibristi

La mia nascita è materia per giuristi, medici e preti. È sempre stato così, da vent’anni. Ma io credo che competa soltanto a me e mio padre, se non altro per una questione di vicinanza, di pelle e di cuore.

Noi non sappiamo quando sono nato. Ma una data l’abbiamo scelta. E a me poco importa se sarà diversa da quella che scriveranno su un pezzo di carta da archiviare all’anagrafe. Che scrivano quel che vogliono. Per quanto mi riguarda, continuerà a essere il 13 dicembre del 1999.

Quel giorno, alle 19.50, mio padre, che allora aveva quarant’anni, uscì traballante dal bar del suo paese su una strada desolata. Prima di avviarsi verso casa, si aggiustò la camicia dentro i pantaloni alzando lo sguardo al cielo. E in quel preciso istante vide per due secondi un corpo luminoso bianco-azzurro a forma di goccia attraversare il firmamento. 

Rimase a bocca aperta e, forse per effetto dell’alcol, si ricordò di esprimere un desiderio, come faceva da piccolo.

«Vorrei un figlio» sussurrò.

Diciannove giorni dopo, si alzò dal letto frastornato per i festeggiamenti di capodanno. Andò in bagno con mal di testa e prurito in un punto della schiena irraggiungibile alle sue mani. Si contorse davanti allo specchio e vide che, tra le scapole, gli erano spuntate sei verruche. Così le chiamò.

«Sembrano proprio verruche» gli disse mia madre.

Ma lui non ci fece tanto caso e andò a lavorare nella sua segheria. O meglio sarebbe dire che andò a ubriacarsi lì, perché i bar erano chiusi, e mia madre, che doveva essere stata una donnetta tanto bigotta quanto delicata, non lo lasciava bere a casa.

Due giorni dopo, si rese conto che le verruche si erano allungate. Proprio così. Non si erano estese sulla pelle, non si erano allargate. Si erano allungate! Per giunta, ne era comparsa una nuova, ancora più grande, che spartiva le altre sei in due gruppi da tre.

«Oh mio Dio!» dovette aver esclamato lei, inorridita. «Ti devi far vedere da un medico».

E lui andò in ospedale, dal dottor Clemente, un giovane dermatologo allampanato con piccoli denti aguzzi. Lo conosco anch’io, il dottor Clemente, ma adesso non è più così alto. Si è ingobbito, pure più di mio padre.

«Non so cosa siano, ma non sono verruche» disse, e recise la non-verruca più esterna, quella vicina alla spalla destra, per analizzarla. «Torni fra dieci giorni».

E lui tornò, ma cinque giorni prima del previsto e in Pronto Soccorso, con un forte dolore ai polmoni.

Gli fecero una radiografia e allora tutto fu evidente. 

Aveva ragione il dottor Clemente: quel che aveva rimosso non era una verruca, ma la punta del dito anulare sinistro di un feto. Il mio dito anulare sinistro, che tuttora non ho. La non-verruca più grossa era il mio naso. E quel che opprimeva il respiro a mio padre era tutto il resto del mio corpicino fetale, che riposava adagiato sulle costole deformate della sua schiena. 

Gli dissero che la “massa” andava rimossa, se non altro perché quel poco che c’era di vita in me era grazie al suo cuore; il mio non si era mai formato. Ma lui si rifiutò sin dall’inizio (questo mi ha sempre detto). Perché è un uomo di Dio, e se il Signore aveva voluto dargli un figlio in quel modo, chi era lui per rifiutarlo? Ma io credo che la sua decisione abbia avuto più a che fare con il suo desiderio di paternità e con la presunta sterilità di mia madre. Pensare che finalmente poteva diventare papà, anche se in un modo così strano, lo deve aver riempito di paura e di gioia.

Mia madre, invece, non fu così entusiasta. Altroché, era terrorizzata! Sosteneva che io fossi una punizione di Dio per l’alcolismo di mio padre. Un figlio di Satana o qualcosa del genere. Un giorno se ne andò, piangendo e pregando, prima ancora che io potessi aprire gli occhi. Di lei non rimase niente, nemmeno una foto. Mio padre distrusse tutto. Una volta gli chiesi di descrivermela, e lui borbottò che bastava che mi guardassi allo specchio. E io la immagino uguale a me, ma più bella: con boccoli dorati lucenti, grandi occhi azzurri ombrati e due fossette agli estremi di un sorriso malinconico. Niente a che fare con mio padre: tarchiato, con duri capelli rossi arruffati e naso a patata.

Nel mese successivo alla partenza di lei, mentre le mie mani e i miei piedi emergevano, lui abbandonò l’alcol, vendette tutto quel che aveva e comprò una casa in montagna, ai margini di un paese desolato sul quale domina, in cima a una collina, la chiesetta di Don Carmelo.

  Contro ogni previsione dei medici, il suo cuore riuscì a tenere entrambi in vita. E il mio corpo, forse intuendo la necessità di quell’organo, non si è mai completamente separato da lui. 

Noi siamo attaccati schiena contro schiena, come due siamesi.

Trascorsi la mia infanzia con i piedi in aria, in una casa ricoperta di specchi all’interno e di muschio all’esterno, circondata da un giardino di peonie velate di segatura. Mio padre passava le giornate a lavorare il legno. Creava i nostri mobili in abete, finemente decorati con intagli animaleschi: sedie senza schienale con piedini a zampa di elefante, tavoli duplicati con bordi marini, pedane ad altezza regolabile con colli di giraffe. Costruiva anche i miei giocattoli, che iniziava come animali normali e finivano sempre per diventare chimere.

Don Carmelo m’insegnò a leggere e scrivere. Portava sempre con sé una montagna di libri e vestiti che sarte devote alla sua parrocchia ci facevano su misura. Il legno e il cibo ce lo portava invece Fanelli, un vecchietto raggrinzito, sbevazzone e senza denti. Scendeva dal suo camioncino con una fiaschetta in mano e, mentre noi scaricavamo le cose, si metteva a parlare. Mio padre tagliava corto, perché “voleva stare alla larga dall’alcol”. Ma io sapevo che era perché Fanelli raccontava pettegolezzi. 

All’alba di un giorno d’inverno, quando ormai avevo sedici anni e i miei piedi appoggiavano per terra, Fanelli arrivò con un carico di legno. Noi avevamo dormito poco e male perché, durante la notte, eravamo stati svegliati da fuochi d’artificio che echeggiavano in lontananza.

«Vi ho portato anche del cibo, vi ho portato» disse Fanelli.

«Siamo già a posto» rispose mio padre, mentre scaricavamo il camioncino a quattro mani. Lui camminava in avanti, io all’indietro guardando Fanelli. 

«Questa però non ce l’avete, questa» disse, e tirò fuori da una busta di carta una nuvola rosa di zucchero filato. «Ieri è arrivato il circo a San Meglico, ieri. Ci sono gli elefanti e i leoni, ci sono. E anche i nani, e i giganti…»

Mio padre lo interruppe e si affrettò a scaricare. Ma Fanelli continuava a parlare. E io a sentire.

Quando fummo di nuovo soli, prima ancora che potessi chiederglielo, mio padre mi disse: «No». Ma io lo conoscevo già abbastanza bene per sapere che, se insistevo giorno e notte, potevo fargli cambiare idea. Così, cinque giorni dopo, Fanelli ci portò sul retro del suo camioncino a San Meglico. 

Siamo partiti col buio perché mio padre non voleva essere visto. Ma quei pochi spettatori che c’erano non ci guardarono con paura o ribrezzo. Erano piuttosto affascinati. Forse pensavano facessimo parte del circo. Tanto che, una volta dentro il tendone, si giravano di continuo verso l’ultima fila a guardarci, impazienti, come a dire: “beh, quando inizia il vostro numero?” 

E questo lo notò il Direttore, un uomo con lunghi capelli bianchi pettinati all’indietro, vestito di nero come un becchino.

«Venite con noi» disse a mio padre, mentre salivamo sul camioncino. Quasi lo pregò «vitto e alloggio sono inclusi… Conoscerete il mondo!»

Ma mio padre non volle sentire ragioni. 

A casa piansi. Prima piano, poi forte, con rabbia. Dissi cose orrende, ma lui restò in silenzio. Lo incolpai della mia sfortuna, di costringermi a una vita miserabile, ma lui mi accarezzava soltanto. Dissi di sapere le cose che ogni tanto si faceva mentre dormivo, cose che fingevo di non notare. Ma lui non disse una parola. E io mi addormentai piangendo.

Quando mi svegliai, mi accarezzava ancora. Poi parlò e capii, dal tono della voce, che pure lui aveva pianto. 

«Va bene, andiamo» disse.

Con il circo non abbiamo girato il mondo, ma una buona parte del Paese sì. Ero contento di conoscere tutti quei posti, e penso che anche mio padre lo fosse. Da soli saremmo stati un brutto spettacolo da vedere in giro. In gruppo, invece, diventavamo trasparenti, come se la somma di quelle persone bizzarre finisse per cancellare le stranezze individuali.

Il nostro numero era facile. A differenza dei trapezisti o i domatori, il nostro talento risiedeva in noi stessi e non occorreva allenarlo. Si apriva il sipario e compariva mio padre con una faccia da brontolone. Io ero nascosto dietro di lui. Dopo qualche passo verso il pubblico ci giravamo e a quel punto ero io a guardarli, con faccia da buffone. Applaudivano stupefatti e iniziavamo a fare acrobazie semplici. Il Direttore raccontava nel frattempo una storia esagerata della nostra vita, secondo la quale cadevamo sempre a terra perché io volevo andare da una parte e mio padre da un’altra. Non era un gran numero, ma ai bambini piaceva molto.

Poi, un giorno d’estate, arrivammo in un paesino di pescatori così piccolo che le donne dovevano fare più di dieci chilometri per andare a messa. Il Direttore decise di non montare il tendone; uno spettacolo all’aperto sarebbe stato più che sufficiente per quei poveri disgraziati. 

Alla sera tutto fu pronto. La luna piena, il cielo stellato e lo sciabordio calmo del mare creavano una atmosfera commovente. Gli artisti, alla fine dei loro numeri, rientravano estasiati lasciandosi alle spalle gli applausi di un pubblico minuscolo ma appassionato.

Arrivò il nostro momento. Si aprì il sipario e iniziammo a camminare verso il pubblico. Mio padre davanti, io dietro, come sempre. Poi, dopo un paio di passi, lui si fermò di colpo e cadde a terra, prima del previsto, trascinandomi con sé. Ci fu un breve sussulto nel pubblico, seguito dal silenzio. Mi alzai a fatica reggendo il peso di entrambi. Sentii il legno del palco scricchiolare sotto i miei piedi. Alzai lo sguardo e, nel chiaro di luna, la vidi andare via: una donna ormai sfiorita, con boccoli dorati lucenti, grandi occhi azzurri ombrati e due fossette agli estremi di un sorriso malinconico. Un ragazzo con capelli rossi e arruffati la seguiva.

Forse non era mia madre. Non lo so ed è comunque poco rilevante. Quel che importa è che mio padre lo pensò. Ne sono certo, anche se non me l’ha mai detto. Da quel giorno iniziò ad ammalarsi e a bere. Passavamo le giornate ubriachi e io non avevo il coraggio di dirgli di smettere. Non avevo il coraggio di dirgli nulla. Nemmeno quando il Direttore ci mollò davanti a questo ospedale. 

Ormai è passato più di un anno, il suo cuore non ce la fa più a tenere entrambi in vita e mio padre peggiora. 

«Datelo a lui» sussurra.

E la signorina Claudia mi spiega che sarà un intervento difficile, ma ha fiducia nei medici. Comunque sia, occorrerà aspettare l’autorizzazione del giudice. Per la legge, mio padre esiste. Io, invece, non sono nemmeno nato.

Il giorno del mio ventesimo compleanno lei mi ha portato un piccola torta alla crema. Ha anche portato un articolo scientifico nel quale sono state raccolte foto e radiografie che ci hanno fatto in questi anni. L’articolo parla di “Corpo A” (mio padre) e “Corpo B” (io). In quelle foto, incorniciate da scale graduate, siamo sempre in piedi, nudi, di profilo, con gli occhi censurati da barre nere. Le didascalie dicono cose del tipo: “Corpo A regge il proprio peso e quello di Corpo B”. Poi, sotto una foto di sei anni fa: “Corpo A e Corpo B reggono equamente il peso complessivo”. E nell’ultima: “Corpo B regge il proprio peso e quello di Corpo A”. 

I medici concludono l’articolo con parole come “complicato” e “promettente”. Al di là di questo, credo che la signorina Claudia me l’abbia portato perché quelle immagini raccontano la mia vita. E io, che potrei trovarmi presto a vivere senza mio padre, penso che forse il suo cuore mi starà troppo grande.