Carmela Scotti – L’imperfetta

Dolori che nessuna erba dei campi può guarire

recensione di Luca Ruffinatto

dal numero di marzo 2017

Carmela Scotti
L’IMPERFETTA
pp. 194, € 14,90
Garzanti, Milano 2016

Carmela Scotti - L'imperfettaFinalista al Premio Calvino nel 2014, pubblicato da Garzanti nel 2016, L’imperfetta è, senza dubbio, un esordio notevole: un bel romanzo, denso, cupo, disperato e al contempo disperatamente vitalistico, che rivela una voce matura (non presentando alcuno dei vizi più tipici delle opere prime) e, soprattutto, una strabiliante padronanza della scrittura. La vicenda narra le avventure di Catena (Sicilia, fine Ottocento), giovinetta segnata da traumi e violenze precoci, costretta ad una vita selvaggia e, quasi suo malgrado, toccata da una sensibilità ereditaria per la potenza e il mistero della natura, cosa che le guadagnerà le stimmate della fattucchiera, tanto facilmente assegnate in quel tempo di religiosità soffocante e superstiziosa, di uomini e armenti sottomessi alla tirannia di una campagna avara, di donne sottomesse a uomini poco più che animali. Il libro poggia su una struttura a chiasma ma agile e quasi impercettibile (quasi si potesse leggere nei due sensi), e si sviluppa sul doppio binario della vicenda stretta e di una sorta di diario (ricapitolazione, delirio?), ovvero un conto alla rovescia verso il patibolo, che l’eroina tiene dal carcere della Vicarìa, in cui è ristretta dopo aver compiuto il proprio destino con una serie di delitti efferati quanto giusti, in una Palermo devastata dal colera e stilizzata con pochi, efficacissimi tratti (voci d’uomini e animali, sozzure alle cantonate), a comporre un affresco degno d’un Consolo.

L’imperfetta, nel suo incedere serrato, quasi metronomico, fiorisce ogni poco di situazioni e immagini icastiche e fascinosamente disturbanti: stupri, infanticidi, incesti ambientati in una Sicilia arcaica, poverissima, corsa dall’epidemia e da una morale oppressiva e profondamente aliena al concetto di giustizia, ma sa anche accendersi, d’improvviso e senza sentimentalismi, di tenerezze e di pietà sconfinata per creature che paiono schiacciate da un destino gramo, eppure tenacemente attaccate ad un vivere che non perde mai la sua magia primordiale; anche le azioni più esecrabili e i personaggi più crudeli (cioè più o meno tutti salvo i bambini e il padre di Catena), sembrano in fondo giustificati da una disperazione stolida, inconsapevole, non emendabile in vita. La protagonista attraversa la sua rapida e tragica vicenda sempre sospesa tra lucidità e delirio, contesa tra la violenza degli umani e la forza magica della Terra, alla disperata ricerca del padre amatissimo, morto troppo presto, ma ugualmente in tempo per trasmetterle l’amore dei – pochi – libri e la comprensione dei doni di natura e degli astri del cielo.

Tra i numerosi episodi narrati, ci piace ricordare quello dell’incontro col carabiniere, vicenda che, curiosamente, fa pensare ad una sorta di Mille e una notte a rovescio: il milite tiene in vita Catena solo per avere qualcuno che lo ascolti raccontare (e anche, ovviamente, per altro), poi però, quando ne scopre e distrugge il tesoro di libri da lei gelosamente custodito, finisce male lui pure, non prima d’averla resa madre d’un bambino nel quale, in qualche modo, il destino di Catena si riscatterà.

L’imperfetta è in sostanza un lungo monologo interiore, poetico e selvaggio, sostenuto da una prosa che è il vero punto forte del lavoro, e che testimonia di un approccio molto meditato alla scrittura da parte dell’autrice, con una ricerca sui valori ritmici e poetici che torna evidente dalla prima all’ultima frase. Una lingua di grande compattezza e molto sorvegliata ed evocativa del clima umano della vicenda e del pensiero magico della protagonista: un “parlato” solenne e performativo nella sua semplicità (come di un rituale pagano, o appunto una magarìa). “Facevo girare le parole in cerchio, come se pesassero chili, le rimestavo come il caglio che cuoce”; oppure, molto più avanti: “Ci sono dolori che nessuna erba dei campi può guarire. Io sono nata da una radice di dolore, la felicità non so com’è fatta, se ha faccia o bocca per parlare”. Col procedere della vicenda, cresce la consapevolezza del “potere” della protagonista ed il linguaggio in qualche modo vi si adegua. Fino ad arrivare alla chiusa bellissima, con Catena sul patibolo, perduta da un atto di giustizia e fatta strega dal dolore e dalla cattiveria umana, che parla ormai quasi per incantesimi: “Guardo il mio corpo bruciare, il fuoco alzarsi nel cielo, il fuoco che lecca e accarezza. Bruciata la carne, di me non rimane che vento. Bianche di latte, tra la cenere scura, ossa di strega, che bruci all’inferno”. Ma l’ultimissimo capitolo è dedicato a Giovanni, quel figlio che Catena ha fatto in tempo a dare alla luce ma non a crescere, quel figlio che della madre conserva vaga ma tenace memoria e con amore assoluto ne riscatta la bruciante, brevissima parabola terrena.

Insomma, un  romanzo che ha molto poco di consolatorio, e che a volte può sembrare forse eccessivamente cupo, ma che in realtà racconta il poderoso attaccamento alla vita (e alla terra) di una donna non comune, ossia di una donna.

lucaruffi@hotmail.com

L Ruffinatto è giornalista e lettore del Premio Calvino