Chiara Sabatini – Le mie radici

Chiara Sabatini

LE MIE RADICI

Sono nata da un varco, inciso tra due delle spesse radici che un tempo nutrivano mia madre, con la faccia sporca di terra e le ciglia aggrovigliate dalla rugiada in luccicanti ciuffi d’erba. Mio padre mi aveva fasciata nel panno ricavato da un cavolo: da lui avevo ereditato solo la testa, appiccicosa per la resina che mi colava addosso, un paio di orecchie al posto delle spalle, e i piedi, verdi per la clorofilla che mi scorre nelle vene.

Questo me lo ha raccontato lui, prima che smisurate fronde, sbucandogli fuori dalla bocca, lo costringessero al silenzio. La lingua umana l’ha comunque dimenticata da tempo, parlare non gli serve più per comunicare. Io gli ho insegnato a interpretare le urla degli assioli e a leggere le scie brillanti che le lumache, come stelle comete inseguite dalla propria coda, abbandonano dietro di sé.

I pappagalli gialli che mi solleticano la pelle, da quando ascoltano la sua voce risuonare con un fruscio fra le foglie piegate dal vento, ripetono a vuoto la nostra storia.

Quando il suo corpo era ancora avvolto da vestiti, mio padre era solito sedersi su una sedia in cucina a leggere il giornale. Un mattino un articolo sulla pagina catturò la sua attenzione:

“Parlare alle piante le fa crescere più felici e rigogliose.”

Alzò il volto verso il vaso che adornava il centro del tavolo: un’orchidea scavava la terra per rivolgere i pistilli al cielo. Le recitò il paragrafo del giornale.

Da quel momento lui non smise mai di parlarle, e lei di crescere.

Con il tempo la pianta allungò in maniera spropositata le proprie radici. Loro fuoriuscendo dal vaso si arrotolarono alle gambe del tavolo e delle sedie, formarono un tappeto irregolare sul quale mio padre inciampava imbrattandosi di lividi. I germogli, tramutati in fusti robusti, frantumarono i vetri della finestra: le colombe beccavano la corteccia dell’albero e lo tenevano pulito dai parassiti.

L’orchidea ascoltò le parole di mio padre fino a quando un giorno, aprendo uno spiraglio nella giuntura che separava due rami, anche lei gli rispose. Lui rimase sbalordito solo per un attimo, poi le insegnò la lingua degli uomini.

Lei divenne tanto abile a esprimersi in suoni di vocali e consonanti, da scordare il linguaggio con cui comunicava con gli uccelli e le erbacce. Mio padre spesso usciva di casa e la pianta, come un tubero secco dimenticato nel buio della terra, aspettava nel silenzio angosciante il suo ritorno.

Quando mio padre andava in bagno lasciava sempre la porta aperta. Lei, grata di poter condividere con lui quel momento d’intimità, lo ascoltava radersi la barba e cantare sotto la doccia. Un giorno lo sentì gemere. L’orchidea, contagiata dalla gelosia fulminea che accende maschi e femmine, si sentì appassire. Lui a cosa pensava mentre si toccava? A un flaccido seno umano o ai suoi fusti longilinei?

L’istinto animale che spinge gli uomini a spogliarsi della propria pelle e a concedere la propria carne, lei ora lo sentiva bruciare nei prolungamenti delle proprie ardenti radici. Piegò le sue frasche e incastrò i ramoscelli, in modo da delineare con le proprie membra fibrose la forma di una donna.

Mio padre subito indietreggiò di fronte a quel manichino di rami contorti, ma la pianta lo strinse tra le proprie foglie e posò i pistilli sulle sue labbra calde. Lui non poté fare a meno di affondarle il volto nella corolla e di lasciarsi avvolgere dal suo profumo zuccherino. Districò con le dita le lunghe trecce di steli annodati che toccavano il pavimento, si strofinò contro la sua pelle ruvida, ansimò con un sussurro fra i suoi petali. Mostrò a mia madre, sempre meno fiore e più donna, come si amano gli uomini.

La mattina seguente mio padre, accarezzando i tralci dell’orchidea, invece che un germoglio toccò un dito. Sollevò il capo: su alcuni rametti fiorivano boccioli di unghie, su altri petali di pelle umana.

Mia madre mi partorì quando la sua pelle era ancora un grumo di stratificazioni giallognole: solo poche schegge di legno, dopo essere cadute, avevano lasciato il posto a un tessuto roseo. Due stecche mobili più simili ad arti che a rami mi sorreggevano, e lunghi fuscelli lasciavano scivolare gocce di rugiada alle mie labbra se erano secche.

Dato che le sue gambe erano intrappolate in un arbusto inchiodato a terra, fu per lo più mio padre ad occuparsi di me. Cullava il mio tronco se non prendevo sonno e tagliava i licheni che mi crescevano sotto le piante dei piedi. Ricoprì l’intera stanza con terra morbida e fango quando, seguendo le impronte di un gatto fulvo, imparai a gattonare.

Divenni più grande e i semi che mi erano sbucati dalle gengive caddero senza tintinnare sul pavimento. L’appartamento era un enorme giardino, dove zolle di prato tappezzavano le piastrelle e colorate piante rampicanti tingevano le pareti. Robuste liane immobilizzavano spalancate le ante della terrazza: passeri e gazze, svolazzando nella stanza, seminavano arbusti che si alzavano fino al soffitto. Fra le pagine dei libri addossati in pile ai muri e attorno agli scaffali s’incastravano lunghi gambi di margherite bianche, agli angoli si ergevano massicce piante grasse e anche dai buchi delle prese elettriche sbucavano gigli. Dentro la tazza del gabinetto un corallo galleggiava nell’acqua.

Come gli uomini alternano i vestiti in base alle stagioni, gli alberi seguendo l’ordine dei mesi si agghindavano di frutti. Io e mio padre, stesi sui cespugli soffici che foderavano un grosso fungo, ci nutrivamo di vite, mele, gelso. Ormai il muschio fuoriusciva anche dalle sue unghie sporche, e le violette gli germogliavano impavide fra i capelli e sotto le ascelle. Lui mi leggeva le parole scritte nelle pagine dei libri. Anche se non vedevo le labbra muoversi sotto la fitta cascata d’erba, che come barba gli cadeva sul volto, ascoltavo avida di sapere le sue storie e crescevo, felice e rigogliosa.

Come una vipera che abbandona la propria pelle, con il tempo mia madre si riscoprì liscia e lucida sotto la dura corteccia che l’aveva protetta. Finalmente in grado di muovere le mani che le erano cresciute al posto delle foglie secche, per divaricare le proprie gambe iniziò a dilaniare i fili d’arbusto che come reti le tenevano unite. Con le dita strappava da terra le radici che le avevano dato la vita. Presto riuscì ad alzare un piede e barcollando si avvicinò a mio padre, che si era assopito con me fra le braccia sotto una coperta d’edera.

Lo scosse per svegliarlo:

“Guarda! Finalmente anche io posso camminare!”

Ma quando cercò di tirarlo su si rese conto che i suoi peli, ormai sottili capillari di radici, lo avvolgevano, per poi sprofondare nel terreno e fondersi al suolo.

Con la stessa tenacia con cui aveva appreso la lingua umana, mia madre imparò a mettere un piede davanti all’altro: squarciò i rovi che si increspavano sulla porta e uscì di casa.

La mattina perlustrava la città e la sera tornava per descrivercela: le automobili si rincorrevano veloci sulle strade come sardine nel mare, le industrie sbuffavano nuvole grigie, e le persone, simili ai polli quando hanno le faine alle calcagna, affrettavano il passo per recarsi a lavoro.

Mentre io e mio padre la ascoltavamo, i bruchi si annidavano tra i nostri germogli e fusti elastici di ogni genere sbucavano dal suolo e si avvinghiavano a noi. Non fui più in grado di distinguere i miei capelli dai cardi selvaggi né le mie gambe dalle betulle cosparse di lenticelle. Era il mio stesso sangue a scorrere nei papaveri, e a raggiungere persino le locuste.

Le api ci pizzicavano e, superate le cascate di glicine che contornavano la finestra, si disperdevano nel cielo. Il sole illuminava attorno a loro, affinché potessero orientarsi e seminare la nostra progenie.

Tessendo i fili di enormi ragnatele, i ragni legavano assieme i nostri rami, permettendoci di sentire battere l’uno il cuore dell’altra. Con colpi sordi quel palpito si propagava, così come risuona ancora ora, nel battito d’ali dei merli, nei salti martellanti dei rospi, nel folgorante bagliore delle stelle.

Ma dato che sono in parte figlia dell’uomo, e seppur nascosti ne ho incisi i tratti, mia madre annunciò che avrei dovuto provare a vivere come la sua specie.

Pulì il pavimento e sradicò le piante, estirpando un arbusto dopo l’altro rase al suolo la selva a cui ormai appartenevo. Ricci e topi morirono sepolti nelle loro tane, e lucertole suicide si gettarono dalla terrazza nel vedere le loro uova ridotte a gusci rotti. Tinteggiò le pareti e serrò le finestre. Le bocche di leone che mi sfioravano la base del tronco avvizzirono per il dolore.

Potò le nostre frasche fino a ridurre le radici mie e di mio padre nella poca terra contenuta in due giare. Ripose la mia in un passeggino e lo spinse prima oltre la porta d’ingresso, poi lungo le strade della città.

Di umano mi rimase poco o niente. I petali si chiusero in boccioli attorno ai miei occhi per proteggerli dai fari abbaianti, e le mie orecchie, del tutto simili a prugne mature, frastornate dal rumore dei clacson caddero in terra come frutta marcia. Io, soffocata dall’alito denso sputato dalle automobili, dopo essere rientrata in casa, mi ancorai saldamente al pavimento freddo. Con mio padre irrobustimmo le nostre radici fino a tagliare in pezzi la ceramica che ci rinchiudeva. Mia madre si arrese e non mi portò mai più con sé.

Con uno strano oggetto sotto il braccio, tempo dopo lei rientrò a casa più tardi del solito. Vidi per l’ultima volta la luna rischiarire il suo volto. Adagiò sul comò un pesante vaso non incavato. Mio padre allora, dalla sommità della sua chioma, mi spiegò cosa fosse una televisione.

La sua superficie si illuminò e iniziò a parlare. Mia madre le si sedette davanti, sulla poltrona, e non si voltò più. Mio padre perse la voce a furia di chiamarla, ma lei, attratta dai personaggi colorati che si muovevano nel rettangolo scuro, non gli rispose mai. I fringuelli ruppero i vetri delle finestre e le strapparono i bottoni dalla camicia per ricordarle di nutrirsi, ma lei aveva dimenticato il loro idioma, e li scacciò gettando in aria le sue scarpe.

Le sue membra presero la forma di una carcassa e, prima che i nostri arti crescessero abbastanza da raggiungerla, i lombrichi la scavarono come fosse terriccio. Per me e mio padre fu inevitabile nutrirci della sua carne.

Nel rivolgerle un ultimo saluto i pettirossi si posarono impietositi sulla sua pelle, tingendola con macchie rosse da cui sbocciarono eleganti rose spinose. Neanche gli insetti le portarono rancore: una scia di formiche trascinò sul suo corpo bulbi tondi che la rivestirono di tulipani.

Ancora ora le rane pregano per lei, gracidando luttuose, e il sole a volte smette di scaldarci, e si nasconde a piangerla tra le nuvole.

Ieri mio padre ha perso anche le ultime unghie dei piedi, gli sono sgusciate via dalle dita in sassolini bianchi. Torreggia su di me nel corpo di un maestoso salice piangente: le lacrime salate dei merli, che scavano nidi nella sua barba, e delle serpi, che scivolano sulla sua schiena, gli bagnano il tronco. A volte, nel guardare la poltrona fiorita dove sedeva mia madre, anche a lui cadono dal viso foglie verdi, che diventano gialle prima di toccare terra.

Le nostre radici tastano ogni superfice della casa, pendono dal lampadario e sigillano la maniglia della porta. I miei rami hanno rotto lo schermo della televisione e ci hanno trovato dentro altre strane radici che, nonostante siano sode e colorate, rimangono prive di vita. Mio padre dice che appartengono al mondo tecnologico, e che non vale la pena conoscerlo.

Io mi sono innamorata di uno scoiattolo. Mi bacia ogni volta che morde le bacche blu che come nei mi sporcano la pelle.

Di umano ho ancora questa bocca, si estende in verticale su un lato del mio tronco. La userò per raccontare agli uomini le mie radici, se mai un giorno ne incontrerò uno. Anche se mio padre, mi sussurra facendo riecheggiare le fronde scompigliate, che le parole servono più alle piante, perché permettono di crescere solo se si è disposti ad ascoltarle.