Cristian Mannu – Maria di Ísili

Disubbidienze femminili

recensione di Fabio Stassi

dal numero di maggio 2016

Cristian Mannu
MARIA DI ÍSILI
pp. 153, € 14
Giunti, Firenze-Milano 2016

MannuMaria di Ísili – testo vincitore ex aequo della XXVIII edizione del Premio Calvino – si inserisce in una tradizione letteraria radicata e fortemente identitaria, come quella della Sardegna. Ma i rapporti con la tradizione, si sa, sono un terreno pericoloso e sdrucciolevole, e riassumono in sé una spinta doppia: la necessità di un ancoraggio e insieme un bisogno eversivo, un’urgenza di infrazione. Per fortuna, Cristian Mannu non sceglie di giocare in sicurezza. Evita la trappola di una rappresentazione di maniera dell’isola, le consuete insidie degli stereotipi e dei folclorismi, e ottiene in due modi un superamento del confine e dell’identità. Prima con uno spostamento semantico. Il paesaggio che affronta è un paesaggio brullo, isolato e spigoloso, ma tutto interiore. Si tratta di un reticolo di sentimenti e di risentimenti che ruota intorno a una famiglia. Una famiglia naturalmente immersa nella cultura sarda, eppure a suo modo universale nel dolore e nella trama che esprime. È questa famiglia a farsi isola, ad assumerne la forma, e così ad appartenere a tutte le isole del mondo. Poi, attraverso la rarefazione del tempo. L’azione si svolge intorno alla seconda metà del Novecento, ma gli anni sono come indefinibili. Perché la storia che ci viene raccontata è una tragedia fuori dal tempo, primitiva e futura, come tutte le tragedie.
Dieci voci diverse la ripetono. Come se fossero state chiamate a testimoniare in un impossibile processo. E sembrano raccontarla da un angolo che non appartiene più alla vita né alla morte. Al centro, c’è l’innocenza o la colpevolezza di una donna, fuggita insieme al marito di sua sorella: un tradimento del sangue (e quindi anche un tradimento dell’isola e della tradizione, la violazione di un divieto, una disubbidienza scandalosa). Ma nello stesso momento in cui Maria di Ísili trasgredisce la parte che le era stata riservata, si incolonna in una lunga fila di disubbidienti e disertrici, da Madame Bovary alla lupa di Giovanni Verga.

Qui la donna è una regina schiava

La novità è che questo avviene in Sardegna, con l’eccezione forse della sola Deledda, e per mano di uno scrittore. In uno dei capitoli iniziali del Giorno del giudizio, Salvatore Satta si chiedeva per quale motivo il delitto d’onore in Sardegna non esiste. La Sicilia ha fondato una sua epica e un intero immaginario collettivo su questo tema; la Sardegna non lo conosce. La spiegazione che Satta si dava era questa: “Non c’è delitto d’onore semplicemente perché in Sardegna la donna non esiste, come non esiste la gelosia. Qui la donna è una regina schiava”.

L’elemento di maggiore originalità di Maria di Ísili è nell’avere messo la disubbidienza di una donna al centro della narrazione. Una disubbidienza che la apparenta proprio alla ferinità della lupa verghiana, nella cupa vicenda di un tradimento all’interno della stessa famiglia, ma con una distanza di un secolo e mezzo. La donna affiora quasi come una scoperta. Ed è in questo passaggio che si riconosce il movimento della Storia, l’irrompere inevitabile di un mutamento sociale in tre generazioni, in cui si consuma uno strappo significativo. Prima attraverso il tradimento della madre di Maria, che la concepisce non con il marito ma con l’uomo che ha realmente amato, senza infrangere ancora l’istituzione del matrimonio. Poi con Maria che “aveva un vento più forte a spingerla dentro e non ha saputo calmarlo, quietarlo” e troverà il coraggio di fuggire con il marito di sua sorella. La nipote sarà l’ultimo anello di questa catena.

Un altro scrittore dell’isola, Giuseppe Dessì, parlava di “matriarcato clandestino” (nella letteratura siciliana, in Brancati, Pirandello, Sciascia, la madre è onnipresente; in Sardegna è nascosta) e descriveva le donne sarde come tante Penelopi senza Ulisse (gli uomini hanno paura del mare, diceva, e odiano l’alfabeto, che è un altro spazio, le donne no). Ed è in questo spazio recuperato, o meglio nella lotta per conquistare questo spazio, che le donne di Ísili trasgrediscono i loro patti clandestini di fedeltà e di solitudine.
Mannu ci racconta questo cambiamento, che, al suo primo manifestarsi, non può che essere tragico e scatenare sventure. E per farlo, per provare a restituire tutta la temerarietà femminile necessaria a questa insubordinazione, usa una lingua di coraggioso lirismo. A volte il giro della frase è quasi cantautoriale: in più punti assume un respiro metrico, ipnotico, e sin dall’epigrafe si riconoscono l’eco e l’atmosfera di certe ballate di Fabrizio De André. “Ho capelli folti e ricci e neri e lucidi, dicono, come di merlo che non trova riposo”. Oppure: “Avevo gente là dietro che mi cercava e carte segnate dentro la sacca e la testa che c’era e non c’era”.

Dieci chiavi per una sola partitura

Ma tutto l’impianto è polifonico: una partitura insieme chirurgica ed emotiva in dieci chiavi. Innanzitutto, la levatrice (Salvatorica Carboni): negli atti di nascita era sempre la prima a deporre e a riconoscere ocularmente i bambini; e poi Maria di Ísili, la madre (Rosaria Granata), il padre (Michele Piga), l’uomo (Antonio Lorrài di Silíus), l’amico (Giovannino Medda), l’amica (Teresina Spanu), il marito di Maria (Sergio Desogus), la sorella (Evelina Piga), la nipote (l’ultima Maria di Ísili). Come in Rashomon, il film di Kurosawa degli anni cinquanta, la verità, deposizione dopo deposizione, si fa sempre più ambigua. E alla fine è un’altra verità a emergere. Una storia di mancanze e di abbandoni, di letti sconsolati, di infelicità, tradimenti, suicidi.

Una scena di Rashomon (1950) di Akira Kurosawa

Una scena di Rashomon (1950) di Akira Kurosawa

Qui Cristian Mannu riprende l’eredità di uno scrittore sardo che, prima di Marcello Fois e di Michela Murgia, più di tutti aveva cercato di rivitalizzare la tradizione e di innestarla di variazioni: Sergio Atzeni. Anche lui in Il figlio di Bakunin aveva raccontato un uomo attraverso lo specchio di tante dicerie. Con la stessa mano ferma, Mannu lavora sul fiato, sugli accenti e sulla particolare cantilena di ogni singola voce e alla fine riesce a restituire al personaggio di romanzo di cui vuole raccontare la storia tutta la sua centralità.

F. Stassi è scrittore