Cristina Gregorin – L’ultima testimone

Un cold case nella Trieste del dopoguerra

di Gabriella Leone

Cristina Gregorin
L’ultima testimone
pp. 320, € 17,
Garzanti Milano 2020,

Tempi terribili sono stati quelli della Seconda guerra mondiale, per tutti i paesi; ma terribili in modo se possibile più angoscioso per certe zone di confine, in cui si sono saldati i conti tra vincitori e vinti in successive riprese. Il confine orientale dell’Italia è stato una di quelle zone in cui si è passati da un’occupazione all’altra, da una perdita di identità a un’altra, nel parossistico alternarsi di poteri e nazionalità che ha caratterizzato il XX secolo e la conclusione della Seconda guerra mondiale in particolare. È una storia che è stata tenuta a lungo sottotraccia nell’Italia del dopoguerra, legata a passioni politiche e interessi diplomatici contrastanti. Una storia che è stata indagata a fondo dagli storici triestini e che non per niente è alla base del bel libro di Cristina Gregorin, triestina di nascita. Gregorin ha ambientato il suo libro a Trieste e dintorni, disegnando sapidi scorci della città e dei suoi microcosmi, siano essi le strade, le piazze cariche di storia, i caffè che richiamano la Mitteleuropa, il mare che occhieggia in ogni prospettiva. Ha scelto un genere letterario che nella letteratura contemporanea – italiana e non solo – è spesso servito a proporre temi complessi attraverso testi avvincenti e coinvolgenti: il giallo. Ecco, L’ultima testimone è costruito come un giallo – e questo costituisce una prima fonte di attrazione per il lettore – e segue i codici del genere: c’è un’indagine, ci sono gli investigatori (uno di essi è anche un vero e proprio poliziotto), c’è un delitto, anzi un suicidio difficilmente spiegabile, commesso molti anni prima, nel 1976 (un cold case, dunque), ci sono i testimoni, anzi c’è la testimone, riluttante, la cui riluttanza è poco decifrabile e quindi intrigante per il lettore. La testimone è Francesca Molin, una donna solitaria e chiusa in se stessa, che viene stanata dal suo appartato lavoro di ginecologa a Milano e trascinata a forza nell’inchiesta per proteggere la nonna ultranovantenne da un possibile inopportuno coinvolgimento. È lei l’ultima testimone chiamata in ballo da un vecchio, Bruno, che era stato partigiano, negli ultimi giorni della sua vita, l’unica che può far luce sul suicidio di Vasko Cekic, amico fraterno di Bruno, anche lui ex partigiano.

Dicevamo dell’uso dei codici del genere: ebbene l’indagine si dipana lentamente, aggiungendo tassello a tassello, ricostruendo poco per volta l’atmosfera degli anni di guerra, dell’Istria dilaniata dallo scontro tra fascisti e slavi, tra partigiani e occupanti, tra fazioni partigiane in lotta tra di loro, tra tedeschi e titini. “Mentre le città italiane insorgevano uno dopo l’altra [nel 1945], noi restavamo al palo … Invece di scendere uniti per le strade, i triestini si perdevano nei distinguo. Si dividevano tra slavi e italiani, tra comunisti filoslavi e filocomunisti italiani, tra partigiani bianchi e partigiani rossi, fascisti, ex fascisti e antifascisti non comunisti, e qui lasciamo fuori dal conto i filotedeschi che si erano defilati per paura di rappresaglie, ma c’erano anche loro” (p. 219). Un groviglio inestricabile in cui viene trascinato un gruppo di giovani, appena usciti dall’adolescenza, animati dal bisogno di giustizia e dall’odio per i soprusi spaventosi subiti dalla popolazione civile, da contadini, pescatori, gente semplice; giovani animati dall’odio per coloro che per interesse personale hanno tradito e denunciato. È il bisogno di giustizia che anima il gruppetto nel dopoguerra, che lo porta a costruire “un dossier sui collaborazionisti tra Trieste e Istria durante l’occupazione nazista. E probabilmente anche i nomi dei delatori che hanno denunciato gli italiani quando sono arrivati i partigiani di Tito” (p. 164).

Anche se ricostruisce con precisione le vicende topiche della storia di Trieste e del confine orientale a cavallo della Seconda guerra mondiale, il libro non abbraccia una posizione tra le interpretazioni contrapposte, pur ponendosi chiaramente sul versante antifascista; cerca piuttosto di assumere il punto di vista dei contadini, dei ceti popolari istriani, stretti tra fascismo, guerra, nazisti, partigiani: “A casa mia si diceva: la legge ha sempre ragione, ma l’uomo ha spesso torto. I fascisti non erano obbligati per legge a perseguitare i contadini istriani. Lei non sa quel che facevano. Non mi potevo mettere contro gente come questa … venivo da una famiglia contadina” (p. 124). Anche la lotta che i protagonisti continuano dopo la guerra non assume soltanto connotazioni di parte, ma piuttosto forti connotazioni etiche, come osserva uno dei testimoni: “[Bruno] era pieno di vita, ma schiacciato dal senso del dovere. Se vuole, era come se un filo del vecchio mondo asburgico gli fosse rimasto impigliato da qualche parte nella testa” (p. 216). I protagonisti sono mossi dal senso del dovere, della giustizia, dal giudizio morale, dai valori radicati nell’educazione ricevuta, nella cultura tradizionale dei ceti popolari istriani, per i quali è scomparso un mondo ordinato qual era quello gestito dal vecchio impero austro-ungarico (“… il serbidiòla? … C’era solo una candela accesa. Qualcuno intonò il Serbi Iddio l’Austriaco Regno e noi tutti continuammo sottovoce. Capisce? Cantavamo ancora l’inno dell’Austria”, p. 183; “Nel racconto di quella cena del 1953 si è aperta una fessura attraverso la quale si intravvedono uomini che vogliono ostinatamente restare in un altro luogo e in un altro tempo saltando a piè pari trentacinque anni e due guerre mondiali…Fantasmi”, p. 185). Non si cada però in un equivoco che il testo assolutamente non giustifica: non si tratta di un’inclinazione per posizioni antistoriche o rivolte al passato: “Ho voluto – dichiara l’autrice nella postfazione del suo libro – rendere omaggio alle persone semplici che hanno sofferto e sono state dimenticate” (p. 316). Ne esce un testo intrigante che ci guida nei meandri di un tempo storico terribilmente complesso e nei meandri di una coscienza che non sa scendere a patti con l’umana debolezza.