Emanuela Cocco – Nel verde

Emanuela Cocco (1979) – Nel verde

 

Non lasciarglielo fare, dicono le fronde. Non avere paura, dicono. Lei ascolta, mossa di qua, di là, senza riguardo, spalle che lui strattona, testa che sbatte contro il muro; ciondolerà tra poco, se non la smette.  Gli abeti e i pini, le querce ischeletrite, il fogliame davanti alla grande casa intonacata dicono di no, non sono d’accordo. Lui la tiene ferma, lei pensa: non glielo lascerò fare, hanno ragione i rami e i faggi, il mirto selvatico e le querce. I salici annuiscono, muovono la testa su e giù: non ancora, non è oggi il giorno in cui morirai. Non lasciarglielo fare. E lei è d’accordo. Lui la stringe, le fronde scosse oltre la radura le urlano qualcosa. Le stringe la gola. Le fronde fremono. La solleva da terra, la getta contro il muro e da lì la rimuove. Lei, volatile, precipitando, ascolta i consigli del verde sbigottito.  Cade a terra, pulviscolo di ossa e riccioli, lui la solleva, frusciare di capelli impolverati, ronzare tra gli steli sotto i suoi piedi, nell’erba. Lei si piega, cade. Lui la scuote, di qua di là, ma resisti, dicono le fronde, senza che lei riesca a farlo smettere, anche invocando pietà con i suoi rantoli, trasalimenti di clavicole, tremolii di giunture. No, promette lei, ma si lascia andare. Le fronde contrariate, deluse, le chiedono un ultimo sforzo. Lei ci prova. Mi spezza il collo, pensa, ma le fronde le assicurano di no, dicono: aspetta e vedrai.

La ragazza trovata nel bosco, la ragazza sdraiata nell’erba, come morta. Che le hanno fatto? La ragazza quasi strangolata, a mani nude. La ragazza, com’è che si chiama? Segni profondi, è quasi riuscito a ucciderla, il porco. La ragazza, chi ti dice che è stato un uomo a farlo? La ragazza, fino al limite ultimo che separa la vita e la morte, la ragazza che era una ragazza semplice. Cosa vuol dire? La ragazza, sono solo chiacchiere, chiacchiere e foto. La ragazza era sola, e il porco? La ragazza abbandonata, lui che fine ha fatto?  La ragazza, hanno trovato solo la ragazza, indistinta dal verde. La ragazza occhi chiusi e bluastri, la ragazza viso gonfio, inabissata nel verde. La ragazza con gli arti spezzati, precipitata nel verde. La ragazza strozzata, mezza sepolta dalle foglie e dagli steli. La ragazza nel feretro verde, che però respira. La ragazza è ancora viva, che sorpresa.

La ragazza non ha raccontato a nessuno cosa è successo, riposa in un letto d’ospedale. Riposo ospedaliero, certo, incostante riposo bianco da tende tirate e poche visite, la madre, un’amica. Si addormenta di continuo, non sa più quando è giorno e quando è notte, c’è da capirla. Quando è sveglia fissa i piccoli steli che si sporgono da un vaso poggiato su un tavolino accanto alla finestra. Non parla. La madre le domanda se può far entrare suo padre, la sorella, la figlia di una sua amica che ci tiene a dirle che lei ha passato qualcosa di simile e poi, e poi, ma lei non risponde, volta la testa. Non vuole vedere nessuno. Ora è grata al verde. È rimasta sorpresa dall’afflizione delle foglie, che l’hanno protetta. Quando non è presa dal sonno si guarda intorno senza sapere dove fermare gli occhi. È grata al verde ma intimorita dai petali nel vaso, così chiude gli occhi e deraglia nel passato riformulabile. Prova a sistemarlo. Ondeggia come ha visto fare all’erba. I suoi pensieri somigliano alle foglie, ai rami, si piegano, la abbandonano, la ricoprono, intermittenti. Se li lascia andare ne rimane sepolta, se prova a trattenerli mostrano la loro inconsistenza. Alcuni, così aridi e scoloriti, si sgretolano al primo tocco della luce. Altri le si insinuano dentro, rigogliosi. Lascia che seguano la loro natura, lascia che fuggano, che la conquistino. Ritmo temporale di ramoscelli, ritmo plastico del tempo, fluidità dinamica di desideri defunti. Fantasticherie all’indietro che non servono a nulla. Non sa dove lui sia finito. Il verde l’ha catturato e lei è viva, come le era stato promesso. Se torna indietro, al tempo in cui hanno vissuto insieme, se torna indietro, se torna con lui al tempo in cui si sono amati, un futuro idealizzato, un passato derealizzato, un segmento visivo ampio, non selezionato, una lunga inquadratura fissa in cui tutto è a fuoco, il vicino e il lontano, un campo in piena luce, profondo, simultaneo, se torna indietro, allora capisce come devono sentirsi ora le foglie, come si sentono i rami e le fronde, come la desideri, ora, il verde, a cui appartiene. Questo è l’inizio della loro storia.  Nella camera, al riparo dal sole, i fiori di stagione mimetizzati nel verde, la osservano. Lei ricambia lo sguardo, si addormenta di nuovo. A volte il ricordo di quel lungo momento d’orrore, di mani e di occhi, la raggiunge. Da sveglia continua a setacciare il passato infestato dai ricordi, solleva cumuli di manufatti spaventosi, cose che le sono capitate, di cui si sente responsabile. Vorrebbe mettere ordine in quello che è accaduto, ma sa che queste reminiscenze di battaglie nel verde, rievocazioni suggestive, omissioni e contrazioni temporali, queste immagini di lui che abitano i suoi sogni, sono solo inquadrature di transizione, scenette separate le une dalle altre da effetti ottici banali, insignificanti invocazioni del pensiero rivolte al passato. Custodisce un’ultima immagine di lui, verdeggiare della sua figura sempre più distante, una parvenza di ascensione e di scambio, l’ultimo frame prima che l’uomo venga inghiottito dalle foglie e dai rami. L’immagine le resta dentro come un bisbiglio remoto e implacato. I petali le suggeriscono di tenere la bocca chiusa. Acconsente. Prima, pensa, anche con lui c’era stata questa stessa dolcezza di steli e corolle, un’offerta di petali, una promessa di felicità. Questa è una tregua, pensa, solo una tregua. Lo sa, ne è certa, perché sempre nella vita le è accaduto di finire, polvere finissima, nel bel mezzo di un diluvio. Sempre è stata costretta a vedere quello che all’inizio era lieve e impalpabile, cementificare. Sempre l’amore che la salva poi la sorveglia. Sarà diverso stavolta?

Si addormenta di nuovo. Quando riapre gli occhi il sole è nella stanza, batte sulle foglie che occhieggiano dal vaso accanto al suo letto. Fuori dalla stanza qualcuno armeggia con la maniglia, sta per entrare. Sente la sofferenza delle foglie, aspetta, dicono, non lasciarli entrare. Presto non saranno più soli, lei e il verde, qualcuno la tirerà dalla sua parte, qualcuno, la madre, la sorella, un’amica, pretenderà attenzione. Non ancora, dicono le fronde, accigliate. Sente la loro delusione. Resta qui con noi, dicono le fronde. Ma la porta si apre, la madre la raggiunge, resta, dicono le fronde, scontrose. Lei volta il capo, verso il fascio di fiori irritati. Si sente in colpa. Sente su di sé la responsabilità del desiderio del verde, qualcosa di asimmetrico e smisurato, incalcolabile come un errore. La madre le si avvicina, un’amica le manda dei fiori. La madre sistema il mazzo di rose, eucalipto e lentisco tra le sue braccia immobili. È inerme davanti alle carezze delle foglie, che la atterriscono. Tenerezza dei rami e degli steli, che la ingabbiano. Ora appartiene al verde. Le fronde la sorvegliano. Tu sei l’oggetto del nostro amore, dicono. Aspetta e vedrai.