Ernesto Bertolino – Rigenerazione

Ernesto Bertolino

RIGENERAZIONE

Mamadou è appoggiato alla pensilina del bus 27 per Nichelino, sono le 7.20 del mattino, si scorgono appena i fari delle auto che passano. La nebbia che invade tutta la piazza gli ricorda i gas lacrimogeni sparati dalla polizia in Libia per disperdere i migranti. Non l’aveva mai vista, la nebbia, viveva a Bamako in Mali e si sente straniero ed estraneo ai rumori della città e alle persone che camminano veloci.

Il 27 procede lungo la provinciale, guarda fuori dal finestrino Mamadou, immagina di essere su un aeroplano che attraversa le nuvole, la grande insegna luminosa e verde della farmacia gli ricorda che deve scendere. Entra in laboratorio, Mansur è in ginocchio, come in preghiera, davanti a una lavatrice smontata. Ha un cacciavite in mano e la testa dentro all’oblò. Iulian e Nicola la testa ce l’hanno dentro un forno rotto.

Arrivano lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e forni dalla discarica di None. Tutto qui è stato scartato, buttato perché rotto, vecchio. Ogni apparecchio ha avuto una vita, in mezzo alla vita di una coppia, uno studente, una famiglia. Mamadou smonta e predispone ogni rifiuto per essere riparato, rigenerato e di nuovo funzionante. Pensa a quando era bambino, capitava di tutto a casa: moto, bicilette, frullatori e suo padre Seydou li riparava e diceva: “ogni oggetto porta con sé l’anima di chi l’ha creato e la scia della vita di chi lo ha usato. Adorando Lebe, Dio della Terra, io lo riparo e gli do una nuova vita”. Adesso tocca a lui, a Mamadou.

A Bamako, prima che sorga il sole i ragazzi di strada sono già radunati e aspettano di essere chiamati per la giornata. Negli ultimi tre anni, Mamadou ha mendicato, anche quello è un lavoro, ha trasportato merce da un magazzino all’altro, caricato sacchi di grano sulle spalle, fatto il manovale. Già in primavera il sole asciuga la pelle e spacca le labbra, poi da giugno le piogge del monsone entrano nelle orecchie e macerano i piedi. Lavora fino a quattordici ore al giorno, rientra a casa con il buio e aiuta suo padre. Riparare è ridare vita agli oggetti sfiniti, dati per persi. Una donna del quartiere porta una macchina da cucire rotta, la porge a Seydou tutta fasciata nei sacchetti di plastica, come se gli stesse affidando un familiare ammalato.

Con lo sguardo attento, Mamadou segue il padre mentre mette in fila un’operazione dopo l’altra. È molto lento a muovere le mani, ogni tanto chiude gli occhi, assorto e concentrato. Il suo banco di lavoro è un grande tavolo con il pianale di ferro e gambe di legno larghe e forti. Mamadou sta in piedi, con una mano gli tiene alta la lampada e con l’altra gli passa gli attrezzi. Le biciclette sono sempre le prime, posizionate a testa in giù, su un cavalletto, le ruote sollevate da terra, hanno la priorità perché spesso sono l’unico mezzo di trasporto di una madre, di un padre, di una famiglia intera.

Mamadou percorre a piedi le strade sterrate di Bamako e guarda la povertà, la desolazione sempre più spessa, i bambini che ci corrono in mezzo, spostandosi veloci da un posto all’altro in cerca di cibo e di spiccioli. La polvere della strada si mescola ai gas di scarico delle auto e delle moto, l’aria è diventata irrespirabile.

Oggi dalla discarica sono arrivati dieci forni, impilati uno sull’altro come massi erratici e si capisce subito che nessuno li ha usati da molto tempo. Alcuni hanno il vetro crepato e lunghe strisce di ruggine che si sono seccate lungo le fiancate. Mamadou ne abbraccia uno, lo solleva e lo deposita sul banco di lavoro, lo pulisce con un panno umido e il getto d’aria compressa, si infila i guanti e tira fuori le teglie incastrate all’interno, con le tracce di unto e di briciole, i rimasugli di una torta o di una focaccia vecchissima. La luce del forno è accesa, il termostato segna 180 gradi, il campanello del timer segnala la fine del ciclo di prova. Mamadou apre lo sportello, una folata d’aria calda gli arriva in pieno viso, socchiude gli occhi, ed è di nuovo in quel deserto sterminato, un mare di sabbia davanti, la superficie increspata da tante, tantissime piccole onde rosse e marroni che a guardarle troppo danno vertigine e spavento. Il Toyota scassato salta, sobbalza, procede veloce lungo la tratta verso nord, verso l’Algeria. Non si riesce a dormire, la luce del sole brucia anche i pensieri e il vento ruvido punge la pelle.

L’altro ieri, Nicola ha portato vasetti di passata di pomodoro fatta in casa da sua madre in Puglia, uno per ogni collega. Mamadou ha ringraziato, poi è dovuto uscire nel cortile del laboratorio, in cerca di aria, per provare a non sentire il ricordo dei pomodori nei campi di San Severo, le notti in una capanna di lamiere, la schiena curva, le urla dei caporali, i compagni che svengono sotto il sole cocente, le mani appiccicose e rosse per il succo acido, la sete mitigata da morsi di pomodori scartati.

Per tutta quella settimana Mamadou aveva messo le mani nella calce e nel cemento a tirare su muri e allineare piastrelle nelle case dei libici ricchi. Poi era arrivato il giorno di pausa, il tempo per stare con suo fratello Drissa al solito Zahar Café nella Old City di Tripoli. Drissa gli dice che vuole tornare in Mali, ha proprio deciso, da due anni respira fumi tossici nella fabbrica dei sacchi neri per l’immondizia, i suoi compagni della linea di produzione sono scappati la settimana prima, i rivoltosi stanno armando migranti per scatenare la guerra civile. Mamadou non vuole tornare indietro, abbraccia il fratello e pensa ad andare ancora più a nord, continuando il suo viaggio, il viaggio e la diaspora della famiglia Keita, piccole somme che fanno grande la migrazione.

La lavatrice è pronta per il collaudo finale, Mamadou ha sostituito ogni pezzo usurato, ogni particella guasta. Come suo padre è risalito indietro, ha rimontato la vita di quella cosa. È autonomo, Iulian si avvicina e gli sorride, ormai non ha più bisogno delle sue istruzioni. Insieme raggiungono gli altri per il pranzo, ridono perché qualcuno racconta di Mansur che si è nascosto dentro un congelatore spento e quando Nicola lo ha aperto si è spaventato tantissimo e ha imprecato in pugliese. Una partita a calciobalilla, una sigaretta in cortile, uno sguardo ai messaggi sul cellulare e poi torna in laboratorio. Mamadou guarda l’oblò e ascolta il rumore ripetitivo dell’acqua, lo sciabordio delle onde, scruta le increspature del mare, ecco un guizzo, le pinne spuntano sulla superficie, si dispongono in formazione a V davanti alla prua, delfini come uccelli fendono la corrente e accompagnano il peschereccio verso la costa, l’Africa alle spalle. Pensare come un delfino.

Il sole avvolto dalle nuvole e dalla nebbia emana una luce che sfuma di bianco e grigio la campagna del Saluzzese. I filari delle vigne disegnano forme geometriche regolari sulle colline, pezze che sembrano grandi squame sui corpi addormentati di animali preistorici, fermi da milioni di anni. La neve ricopre i campi, Mamadou qui ha raccolto pesche e kiwi, issando migliaia di casse sui rimorchi dei trattori. Osserva questo scenario invernale dal finestrino del treno che lo porta a Torino. Smania di iniziare il corso da saldatore, ha voglia di riportare le mani su oggetti duri dopo giornate intere attaccate alla polpa molle della frutta.

Il citofono suona più volte, Mamadou si sveglia di soprassalto, guarda il cellulare, nessuna chiamata, si affaccia alla finestra. Thierno cammina avanti e indietro sul marciapiede, la luce rosa dell’alba sui palazzi di fronte, la città è ancora quasi tutta addormentata. Mattina di inizio agosto, il rumore fragoroso della serranda del bar che apre, le grida dei gabbiani che volano in tondo anche se non c’è il mare. Mamadou scende le scale di corsa, Thierno lo aspetta con addosso la felpa nera, lo guarda fisso con gli occhi rossi di chi non ha dormito. Nella notte hanno sgomberato il Moi, sono arrivati con le camionette e hanno fatto irruzione prima nella palazzina marrone e poi in quella blu. Pianti, urla, cicalio delle radio della polizia, motori dei bus fermi, voci di giornalisti che commentano in diretta, lampi intermittenti blu e rossi di ambulanze e volanti. Centinaia di donne, bambini e uomini si sono riversati su via Giordano Bruno con le grandi valigie, un ventilatore, le biciclette, le reti a doghe di letti. Amici di Mamadou come Thierno ora non sanno dove andare, come aggrapparsi e salvare il gruppo, come aiutarsi e restare comunità. Mamadou abbraccia Thierno e piange in silenzio, pensa al poco che può fare, sono stati per molti mesi compagni di stanza, hanno condiviso il cibo, i maglioni, le serate allegre, i discorsi lunghi della notte, inquietudini e paure, idee e fantasie sul futuro. Hanno parlato la loro lingua.

Mamadou pedala veloce sul terzo ponte di Bamako sul Niger, le macchine corrono, le moto sfrecciano rumorose, il carretto attaccato alla bici è quasi vuoto e leggero. I fumi della discarica di Faladiè si vedono da lontano, a chilometri di distanza. Mamadou ci andava da bambino con suo padre, ora è capace a scegliere da solo gli oggetti e i materiali utili e portarli a casa per la riparazione. Colline di plastica, di metallo e di carta, e le mucche magre che brucano l’erba che riesce a crescerci in mezzo, in mezzo ai roghi sparsi e ai fumi densi e acri che bruciano gli occhi. Mamadou sa dove trovare cosa gli serve, pedala verso la tenda del suo amico Salif. Gli ha portato un trituratore a manovella che funziona di nuovo e un abito da festa cucito da sua madre. Salif lo accompagna nella zona dove sono tenuti da parte i pezzi intatti, motorini di rame, guarnizioni di gomma, viti di acciaio, manopole, ripiani di vetro, oggi persino il compressore di un frigorifero e la puleggia di una lavatrice. Salif e la sua famiglia sono scappati dalla guerra a nord, nel territorio dell’Azawad, sono allevatori arrivati con il loro piccolo gregge e hanno deciso di restare a Faladiè, tra i rifiuti che fanno un odore cattivo e fanno male, ma meno male del terrore e del sangue che ricordano nelle notti degli agguati, i parenti morti e gli amici.

Mamadou è seduto alla sua postazione e aggiorna sul computer le schede tecniche degli elettrodomestici che ha riparato oggi, matricola e modello, codici dei pezzi di ricambio sostituiti e descrizione in dettaglio dei difetti. Oggi ha scovato e diagnosticato il guasto di una lavastoviglie, ha sostituito la resistenza e riparato la scheda elettronica, saldando due terminali interrotti. La lavastoviglie era arrivata sporca e bollata sui fianchi, così incrostata di calcare e piena di muffa e resti di riso, che quando Iulian ha aperto lo sportello lo ha subito richiuso per la puzza insopportabile. I colleghi hanno detto che un apparecchio in queste condizioni non può essere riparato, non vale la pena. Mamadou ha chiesto di poterci provare, lo ha smontato, analizzato con cura, seguendo a mente i gesti di suo padre nelle lunghe serate passate insieme. Ha inseguito la sua pazienza, l’ostinazione. Per tornare a funzionare, un elettrodomestico ha bisogno di azioni lente, di conoscenza e di tecnica, quella che, attraverso gli attrezzi e i pezzi di ricambio, passa dalle mani di Mamadou al display acceso, alla resistenza che scalda l’acqua, alla girante che irrora le stoviglie. Il suo italiano è pieno di parole come queste. Oggi Nicola ha chiesto a Mamadou di selezionare gli apparecchi da portare domani in aula didattica per la lezione di riparazione e rigenerazione ai ragazzi del secondo anno della scuola professionale. Questa volta sarà lui a insegnare come si ripara un elettrodomestico rotto. Insegnare. Rigenerare. Tocca a Mamadou.