Filippo Rossi – Memento fiori

Filippo Rossi

MEMENTO FIORI

Nonno Beppe impazzì con la prima gelata novembrina, quando nell’orto la brina luccicava sulle verze. Mi aveva insegnato lui che la ghiacciata le rendeva più gustose: Brósa sue verze, metele in técia – quando la brina le ricopre, diceva controllando la rincalzatura ai piedi delle crucifere, mettile in pentola.

Chiamò dalla finestra che avevo appena reciso un gambo, – erano pronte: le foglie esterne bollose e violacee, la testa centrale turgida – strinsi l’ortaggio in un abbraccio e mi affrettai verso casa.

La sua urgenza inconsueta mi preoccupò. Nonno era un uomo calmo: attendeva le stagioni senza fretta, misurava il tempo osservando l’altezza del nocciolo in giardino; la sua ostinata pazienza, l’unico conforto durante i miei soggiorni – dentro e fuori dalla comunità.

Nonno, dissi appoggiando la verza sul tavolo, non è magnifica? Non ci fece caso. Mi guardò coi suoi occhi meridiani ed esclamò in italiano, la lingua con cui si faceva serio: Sto fiorendo!

Mi chiese di fargli un bagno, doveva mostrarmi una cosa. Acconsentii, forse una spugnatura gli avrebbe fatto bene. Lo adagiai nella vasca e, al solito, lo insaponai. Poveraccio, non ritornò in sé nemmeno immerso nell’acqua calda. Assecondai il suo farneticare e lui, insofferente alla mia incredulità, si contorse in una posizione circense e mi mostrò il fondoschiena.

Non ci potevo credere, aveva ragione!

Un bocciolo di calicanto gli usciva dalle natiche o, per dirla con il nonno, gli era sbocciato il buso del cul.

Feci un respiro profondo. Non poteva essere un’allucinazione: era da un pezzo che non calavo acidi – mia antica passione ossessiva – e anche se alle volte le micropunte riemergevano aprendomi vecchi sentieri nella testa, erano perlopiù sogni leggeri.

Forse il nonno era uscito di testa a tal punto da infilarsi petali di calicanto nel didietro e inventarsi una balla.

Presi coraggio, scostai gentilmente il gluteo e tirai il bocciolo. Il fusto uscì lasciando intravedere un solido apparato radicale, un cono a fittone che si inerpicava dentro il sedere. Per di più le radici sparivano come vene sottopelle, smentendo l’ipotesi che nonno, quel fiore, se lo fosse ficcato di proposito.

Lo aiutai a uscire dalla vasca e asciugandolo ispezionai in cerca di altre stranezze. Una sottile pellicola di muschio gli ricopriva la schiena e ora tra le dita dei piedi spuntavano ciuffi di gramigna.

Restai calmo, volevo registrare tutte le anomalie e dopo, a mente fredda, chiamare un dottore e declinare i sintomi. Forse, pensai dubbioso componendo il numero delle emergenze, andrebbe meglio un giardiniere, un addetto al verde; o chissà, magari un perito agrario.

Aspettai il primo squillo ma riagganciai. Cosa avrei potuto dire? Buongiorno, ho un problema: mi sta germinando nonno Beppe… insomma, era una follia. Avrebbero pensato a una mia ricaduta e ricacciato in comunità; o peggio, preso per pazzo e sbattuto in direttissima a fare un TSO.

Ero così assorto nei pensieri da non accorgermi che intanto nonno era sparito in cucina. Aveva sciacquato la splendida verza sotto acqua corrente, tolto la costa centrale, e ora, nudo e come se niente fosse, tagliava l’ortaggio a listarelle: aveva fame, voleva una zuppa.

Restai a guardarlo. Ogni movimento svelava la sua natura mite, ma potentissima. Aveva affinato il suo carattere in mezzo ai campi, con le mani masticate dai geloni, scrostando le zolle dal piede della vanga; o immerso nella nebbia del nordest, fitta come mollica, con la schiena spaccata a sarchiare o rifinire la pacciamatura dell’orto. Il cuore sincronizzato al battito della campagna, regolato da bufere, siccità, dalle invasioni di cocciniglie. Era lì, dove la fatica diventava pena, che il nonno perfezionava la sua tenacia e, se pur bestemmiando contro una vita agra, si impegnava a fare con essa la cosa più semplice, viverla.

Così anche con me e il mio carattere velenoso, incostante: con i miei innumerevoli tentativi – gli andirivieni dalla comunità – avevo deluso chiunque, me compreso se è per questo, e fatto terra bruciata. Ma dal nonno potevo sempre tornare.

Intravedeva il mio profilo quando ero ancora distante, si sbracciava agitando il basco, urlava il mio nome, mi raggiungeva; faceva le feste a un eroe di ritorno, senza giudicare le mie mostruosità, i continui vuoti di senso che riempivo con qualche pasticca, bucandomi o spesso, in assenza di meglio, bevendo.

Soprattutto, nonno non faceva i pistolotti che mi sorbivo in comunità, ne avevo fin sopra i capelli di gente che mi spiegava la vita riducendola a un ricettario.

Nonno, lo chiamai, e indicando il bocciolo che pendolava da una culatta all’altra: Ti fa male? Rispose di no, che anzi, gli pareva di avere le susine in giostra.

Feci una faccia interrogativa, pensai a una rotella fuori posto. Lui allora si girò e indicando due foglie intente ad avviluppargli i genitali, specificò: Le balotte, ostrega!

Versò la zuppa e mi spinse la ciotola fumante sotto il naso. Mangiammo in silenzio, lui sorseggiando due dita di vino e io prolungando la mia sobrietà con acqua minerale.

Dopo pranzo si sdraiò sul divano, fiorire lo aveva fiaccato.

Presi una coperta. Nonno era ancora tutto nudo e la sua pancia pareva quella di un’odalisca: una gemma faceva capolino dall’ombelico e i capezzoli, bordati da corolle, mandavano un profumo nettarino.

Lo coprii lasciando i piedi esposti, la gramigna aveva infestato l’arco plantare e si attorcigliava ai malleoli. Corsi nel ripostiglio dove tenevamo l’attrezzatura e tornai con un catino e un flacone di diserbante fogliare. Preparai un pediluvio e gli infilai dentro un piede. Lui si svegliò e lo ritrasse di scatto, mi sorrise.

Ti prego, disse accarezzandomi una guancia, lasciami fiorire in pace.

Fu allora che crollai. Mi travolse un senso di perdita da far venire voglia di piangere. Afferrai la fiaschetta dal tavolo e ingollai un sorso: come respirare dopo aver trattenuto il fiato troppo a lungo.

Col vino il mio pensiero si arrotondava e l’articolata struttura delle mie preoccupazioni franava come un castello di carte; rimaneva solo la mia appiccicosa malinconia che per niente indebolita, imbevuta d’alcol diventava più pura. Tutto inutile, conoscevo bene quella sensazione e la profondità del vuoto che mi scavava nella pancia era davvero incolmabile.

Nascosi il viso tra le mani, ero disperato: non volevo che nonno fiorisse!

Mi lisciò i capelli per consolarmi, poi ridendo tirò le coperte, si scoprì le gambe e fece segno di guardare: una colonia di afidi gli aveva infestato i polpacci.

Temevo quegli insetti da quando nonno mi insegnò a badare all’orto. Piccoli cancri neri che rivestono di melata tutte le piante, soffocandole. Dovevo correre subito in un vivaio e comprare l’olio di Neem.

Avvolsi nonno nella coperta e lo adagiai dentro una carriola (non potevo lasciarlo fiorire da solo e nel piccolo abitacolo della mia utilitaria non c’era spazio per le voluminose fronde che ora gli uscivano dalle orecchie).

Arrivammo in un baleno, braccati da un gruppo di cani randagi che seguendo il profumo di boscaglia del nonno, ci tallonava con la zampa alzata per marcare il territorio. Li scacciai bestemmiando e tirando calci all’aria.

Il vivaista era un cinquantino tondo, una faccia colorata e gioviale come un ritratto di Arcimboldo.

Senza perdere tempo spiegai che avevo bisogno di qualcosa di forte per sterminare gli afidi. Guardò in direzione di nonno – le cui orecchie nel frattempo erano ramificate – e mi chiese luttuoso, Sta fiorendo?

Mi asciugai gli occhi e annuii.

Sparì nel retrobottega e tornò con un flacone e un sacco da dieci litri di torba concimante.

Giovanotto, disse passandomi l’insetticida, spalmalo sulla parte infestata e questo, continuò dando una sonora pacca al terriccio, lo metti in un vaso capiente e ci trapianti nonno dalla parte dei piedi. Si assicurò che avessi capito la procedura e raccomandò di aggiungere una manciata di argilla espansa per farlo drenare, altrimenti le radici sarebbero marcite.

Caricai tutta la merce sulla carriola insieme a nonno che non smetteva di ridere: cercava di soffiarsi il naso, ma le gemme che gli uscivano dalle narici rendevano l’operazione complicata e, a giudicare dalle risate, la cosa gli pareva molto comica.

Scoppiai in lacrime. Difficile da spiegare, forse era solo la distorsione del vino, ma quel numero da teatro mi sembrò uno sforzo per strapparmi un sorriso; l’ultima gag prima di congedarsi dal mondo e sparire dietro il sipario. E infine fiorire.

Il vivaista si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla, Non devi disperare, cercò di confortarmi, fiorire fa parte della vita.

Disse che era capitato anche a suo padre un paio di anni prima. Il suo vecchio era diventato uno splendido abete: a Natale lo parcheggiavano di fronte al focolare e lo adornavano con premura. Il puntale, precisò sarcastico, pare la penna che indossava sul cappello, durante le adunate degli alpini.

Nonno lo interruppe con una strombazzata di naso. Aveva finalmente capito come infilare il fazzoletto tra i germogli e una nuvola di polline dorato gli uscì dalle narici.

Ringraziai il vivaista, ma in segreto lo mandai a prenderselo nel culo: detestavo le persone che superavano le tragedie senza lesioni, mentre io venivo dilaniato, tramortito.

Tornai a casa spingendo la carriola di fretta. I randagi ci seguirono ma a distanza, tutto quel bestemmiare li aveva impauriti.

Distesi nonno sul divano, massaggiai i polpacci con l’olio di Neem e gli piantai i piedi nel catino di torba e argilla espansa.

Aspettai che si addormentasse; poi presi la fiasca di vino, la tracannai, e sprofondai sfinito in un sonno incosciente.

Mi svegliai stordito, la testa pesante, la bocca allappata. Il nonno era sparito lasciando di sé solo le orme nella torba concimante.

Uscii nell’orto, il posto dove mi rifugiavo quando mi sentivo solo e non sapevo dove altro andare. Una bruma fumosa si alzava dalla terra e mi inghiottiva.

La testa era un macigno e avevo voglia di vomitare. Mi distesi e chiusi gli occhi: sarebbe stato bello restare lì per sempre, con le gambe tra i tuberi di patata, le braccia in mezzo ai finocchi e la faccia accanto alle verze ghiacciate – spegnersi in silenzio tra gli ortaggi.

Quando riaprii gli occhi la foschia si era alzata e si intravedeva il cielo. Non sapevo quanto tempo fosse passato, forse mi ero addormentato. La schiena e le gambe erano gelate.

Mi misi seduto e stropicciai gli occhi. Un maestoso calicanto si alzava dal camminamento e ammirava l’orto come un guardiano. Nonno, esclamai, hai scelto davvero il posto migliore!

***

Ogni giorno esco nell’orto e lavoro con la pazienza che mi ha insegnato il nonno. Sradico le erbacce, rassodo il terreno, vango, rinforzo le rincalzature, concimo, semino; all’occorrenza riparo gli attrezzi e poi, quando cala il sole e la mia ombra si allunga, mi siedo vicino al calicanto con un sorso di vino. Intingo un polpastrello e lo succhio lentamente. Accarezzo la corteccia di nonno e gli verso il bicchiere sopra le radici.

Qualche tramonto però è più maledetto di altri e porta con sé il sapore della mancanza. Certe persone ti lasciano così, fioriscono e ti svuotano – diventano malinconie.

Quelle sere mi attacco alla bottiglia di vino e la trangugio con bestialità e disincanto.

Rimango impalato nel gocciolare delle ore e aspetto… Aspetto un conforto che un giorno, forse, arriverà.