Germano Antonucci – Il mare arcobaleno dei bambini corallo

Germano Antonucci

IL MARE ARCOBALENO DEI BAMBINI CORALLO

A lungo ci eravamo detti che non avevamo nulla da temere, che capitava solo a due bambini su cento, che non ce lo meritavamo, ma quel giorno, quando Diego tornò con i risultati delle analisi, sentii nelle carni il morso dei miei cattivi presagi.

«Lui dov’è?»

«Fuori. Sta giocando».

Diego mi mostrò la busta del referto: era sigillata. L’avremmo aperta insieme, anche se non ero così sicura di farcela. Non ancora. Dal momento in cui ci avevano comunicato che Simone sarebbe stato sottoposto al controllo, le giornate s’erano riempite di pensieri cupi. Alcune settimane prima, avevo partecipato a un paio di incontri al Centro di Supporto Genitoriale e lì avevo ascoltato i racconti di quelle povere madri sgomente: supplicai Dio di avere pietà di noi. Però se incrociavo un bambino per strada cercavo nel suo corpo i segni della mutazione, quasi sperando che toccasse a lui: un osso deforme, le sottili lesioni sul collo, lembi di pelle iridescente.

C’era una frase che avevo letto su un forum dedicato alla Divergenza: nell’attimo in cui viene al mondo, ogni bambino è il punto in cui l’intera storia dell’umanità trova il suo compimento, e ricomincia daccapo. Milioni di anni per un miracolo del genere, e adesso, d’improvviso, questo salto nell’inaudito. Doveva succedere a noi? A me?

Per un po’, io e Diego ci guardammo in silenzio. Poi lui disse che, qualunque cosa, l’avremmo affrontata. Qualunque cosa, sì. Anche un figlio che aveva scritto nel sangue il destino dei coralli.

*

Rientrò poco prima del tramonto, mentre il cielo si colorava di ruggine per le disinfestazioni del venerdì. Aveva i capelli arruffati, le ginocchia sporche, gli occhi pieni di mondo. Gli baciai la fronte, come facevo sempre.

«Che vuoi per cena?»

«Non ho fame».

«Sicuro?»

Rivolsi lo sguardo altrove, la mano sulla bocca. Un filo d’acqua colava giù dal rubinetto, torbida e densa. Era così da mesi, avevamo smesso di berla. Simone si sedette di fronte a suo padre. Fece un movimento innaturale: piegò il busto, di lato, cercando di toccare con le dita un punto irraggiungibile della schiena.

«Mi pizzica» disse.

«Dove?»

«Qui».

Lentamente, gli sollevai la maglietta. Diego impallidì. Sfiorai con delicatezza la pelle candida e immacolata.

«È solo un graffio» dissi.

Diego si alzò dal tavolo, uscì in giardino, come se d’un tratto gli mancasse l’aria, mentre io tentavo di ricacciare indietro le lacrime.

*

«Non potete esserne sicuri».

«Abbiamo il referto».

«A volte ci sono falsi positivi».

Avevo telefonato a mia sorella, in preda all’angoscia, e le avevo raccontato tutto. Sonia era stata sposata dieci anni con un biologo, poi si erano separati, ma avevano mantenuto buoni rapporti. Per uno scherzo del destino, Riccardo aveva partecipato a uno dei gruppi di ricerca che si erano occupati di studiare il fenomeno. All’inizio, molti pensavano che fosse una storia troppo assurda per essere vera, che se l’erano inventata per metterci paura. Un giorno, avevamo visto le immagini: il momento in cui li tiravano fuori dalle acque, quei giovani corpi fusi tra loro, gocciolanti e irrigiditi dalla calcite.

«Lui come sta?»

«Bene. Anche se… ha capito».

«E Diego?»

«È dura».

«Lo so, dovete farvi forza».

«E come?»

«Sta succedendo a milioni di famiglie. Non siete soli».

Era una consolazione? Bambini di tutto il mondo che abbandonavano le proprie case e che, come obbedendo a un richiamo, andavano a inabissarsi sui fondali dei mari e degli oceani. Non era mai esistito un orrore simile. Mai.

*

I primi sintomi si manifestarono nel giro di poche settimane. Un giorno, trovai Simone rannicchiato nella cabina della doccia, sotto un getto d’acqua fredda, nudo e tremante, gli occhi sbarrati. Gli avvolsi un asciugamano caldo attorno al corpo e lo strinsi a me.

Un’altra volta, al supermercato, sparì tra gli scaffali. Fu un inserviente a mostrarmi dov’era finito: se ne stava con la faccia affondata nel ghiaccio del banco pescheria. Sentiva gli odori.

Poco tempo dopo, gli apparvero le prime vesciche sul palmo della mano. Ebbi un tonfo al cuore, sapevo cosa significava, però non lasciai che se ne accorgesse. Gli dissi soltanto che da piccola avrei dato chissà cosa per avere delle mani come le sue, mani con i poteri speciali. Lui cercò di sorridermi, capì che stavo mentendo.

Quella notte sognai di trovarmi su una spiaggia deserta. Ero sola, e gridavo con tutte le forze contro il vasto e gelido mare.

*

La donna raggiunse il palco e ci guardò. Era minuta, gli occhi fieri. Io me ne stavo in fondo alla sala, un po’ in disparte. Ero tornata al Centro di Supporto sperando che mi aiutassero a capire.

«Per secoli e secoli, di fronte alla nostra solitudine di madri, ci siamo consolate pensando che quella solitudine ci accomunasse: eravamo parte di un’unica grande storia. Ne eravamo le artefici» disse la donna. «Oggi è come se quella storia fosse giunta alla fine, e per questo ci sentiamo perdute, oltre che sole. Ma se la natura ha smesso di essere benevola, è per punirci come uomini e come donne, non certo come madri. Perciò: non sentitevi responsabili. Non permettete a nessuno di dirvi che i vostri figli non lo saranno più. Perché non è vero. Noi siamo le madri di un nuovo inizio».

Tornai a casa turbata. Madri di un nuovo inizio: cosa voleva dire? Avrei voluto parlarne con qualcuno, ma mia sorella non rispondeva più al telefono e Diego si era asserragliato in un guscio di silenzio impenetrabile. Passava intere notti in Rete frugando tra i documenti sulla Divergenza. Scoprì che laddove si erano formate, le prime barriere umano-coralline – ecco una definizione che ci era diventata familiare – stavano contribuendo a riequilibrare l’ecosistema dei nostri mari avvelenati. Qualcuno sostenne che il respiro dei bambini fosse una forma di cura. L’unico modo che avevamo di salvarci. Poi Diego scoprì che l’anomalia si sviluppava a partire dal sesto mese. Nel grembo materno. Non perse tempo e venne a dirmelo.

«Che cosa vuoi insinuare?»

«Niente».

«Che cosa vuoi insinuare?»

*

Gli caddero i capelli, a ciocche. Perse la forza delle braccia, l’elasticità della spina dorsale, i suoi piccoli istinti quotidiani. Lo vedevo allontanarsi da me, tramutarsi pezzo dopo pezzo, e non potevo fare nulla per impedirlo. Avrei preferito la malattia, una brutta malattia. La vaga speranza di una guarigione.

«Lo sai che vivrò mille anni?» mi disse, una sera.

«Davvero?»

«I coralli sono quasi immortali».

«Oh. E che altro?»

«Saremo tanti, e saremo una cosa sola. Così grande che nemmeno te l’immagini».

Finsi che mi stesse raccontando una di quelle storie fantastiche che, un tempo, m’inventavo per farlo addormentare. Gli chiesi di andare avanti. La sua serenità mi confortava.

«Avremo mille colori».

«E poi?»

«Vivremo con le alghe, con i granchi e con i pesci».

«E poi?»

«Ci vedranno dalla luna. Perché brilleremo fortissimo».

E poi?

*

«Alcuni bambini ce l’hanno fatta».

«Che significa?»

«Sono guariti. Sono tornati indietro».

Non ci parlavamo da giorni, e adesso stavamo litigando. Sprofondata nel mio gorgo di pena e risentimento, non sopportavo di vedere Diego posseduto da quella specie di cieca frenesia. L’avevo sorpreso a posare il filo spinato sul recinto. Montare i sensori di movimento ai lati del cancello. Procurarsi sacchi di sabbia e rovesciarla in ogni stanza, come se questo potesse bastare a farlo sentire per sempre a casa. Una domenica mattina, trovai le corde da pesca nascoste nel garage, in mezzo alle scatole con le razioni mensili e ai filtri per l’aria contaminata.

«Che cosa pensi di fare?»

«Quello che serve».

«Vuoi imprigionarlo? Legarlo?»

«Te l’ho detto. Quello che serve».

Stava perdendo la ragione, come tutti. Gli ultimi dati erano spaventosi: cinque bambini su cento. Alcuni sospettavano che la situazione fosse peggiore di quello che ci raccontavano. Che la Divergenza avesse ormai preso il sopravvento.

«Non è solo di nostro figlio che si tratta. Lo capisci?»

«E cambia qualcosa?»

«Certo che sì».

«Abbassa la voce».

«Hai paura che mi senta?»

«Smettila».

«Lui deve saperlo. Deve sapere che suo padre non lo lascerà diventare uno di quei…»

«Che cosa? Dillo. Che cosa?»

Diego chinò il capo, atterrito dai suoi stessi pensieri. Si abbandonò sulle ginocchia, pianse.

«Io voglio solo… salvarlo».

«Lo vorrei tanto anch’io».

«Solo questo: salvarlo».

Gli carezzai i capelli, dolcemente. Diego mi guardò, ebbi pietà di lui. Di noi. Bisogna perderlo, un figlio, per rendersi conto di aver sempre corso il rischio di perderlo.

*

Smise di mangiare cibi solidi. La pelle s’indurì. Sulle mani comparvero quelle esili pinnule, come una fioritura. Talvolta, bloccava il respiro da naso e bocca e lasciava che l’aria filtrasse attraverso le fessure che gli si erano aperte sulla nuca: le membrane che vibravano, quel rumore di risucchio che facevano. Io inumidivo un panno morbido e glielo passavo sul corpo, per evitare che si disidratasse. Non provavo orrore, per quel figlio irriconoscibile disteso sul letto, e non provavo pietà: era qualcosa a cui nessuno aveva dato nome. Un sordo dolore multiforme.

«Mamma». La sua voce ridotta a un sibilo. «Tu mi aiuterai?»

«Certo. Di cos’è che hai bisogno?»

«Quando verrà il momento».

«Sì?»

«Mi aiuterai ad andarmene?»

Fissai la foto sul comodino: c’eravamo noi tre, stretti in un abbraccio, davanti ai fuochi della centrale abbandonata. Era un’immagine felice che apparteneva a un altro tempo, un’altra era.

«Non hai paura?» gli chiesi.

«E perché dovrei?»

«Voglio dire: quando succederà…»

«Quando succederà non potrà accadermi niente di male. Perché sarò finalmente al sicuro».

Mi guardò con quegli occhi che erano diventati perle opache, e d’un tratto capii. Sollevai la testa, Diego ci osservava dalla soglia.

*

La donna del Centro di Supporto disse anche: «Non lasciatevi spaventare dall’ignoto, perché è da lì che viene ogni meraviglia».

*

Il viaggio durò due giorni e due notti. Dal cielo piovevano pezzi di cenere, Diego stringeva forte il volante cercando di orientarsi nell’aria offuscata. Simone se ne stava rannicchiato sul sedile di dietro, beveva da una vaschetta che gli avevo sistemato accanto. A volte, mi giravo di scatto, illudendomi di ritrovare il suo ciuffo biondo, le lunghe gambe ossute, il sorriso.

Il paesaggio della costa era una sequenza di ruderi scrostati e fabbriche in disuso. Quando arrivammo, eravamo esausti. Diego fermò il furgone nel vecchio parcheggio dei villeggianti, quelli che venivano lì quando si poteva ancora. Simone riconobbe il suono del mare, si mosse appena. Io mi addormentai di colpo. Fu così che giocammo per un’ultima volta. Ci rincorrevamo tra i flutti, nascondendoci tra colonie di gorgonie e madrepore, e poi ci ritrovavamo, ci ritrovavamo sempre. Lui mi sussurrò qualcosa all’orecchio, una promessa. Al mio risveglio, non c’era più.

Chiamai Diego, il cuore in gola, e quando uscimmo all’aria aperta ci rendemmo conto di non essere soli. Era quasi l’alba – era il tramonto dell’umanità. I bambini si tenevano per mano nell’ampia distesa di sabbia. Ce n’erano a migliaia, lungo il litorale: per chilometri e chilometri. Saremo tanti, e saremo una cosa sola. Il futuro del mondo si era radunato lì, in attesa che il mare venisse a riprenderselo. Che proteggesse i nostri figli dall’anomalia.

Gridai il nome di Simone, non arrivò risposta. Diego mi strinse a sé, tremammo insieme di fronte a quello spettacolo terrificante e magnifico. Avrei voluto piangere, ma era un addio che non sapevo piangere. Mi domandai cosa fosse allora quel dolore straziante e caldo che sentivo, da dove provenisse.

Se togli all’amore l’istinto, che resta? Se togli i ricordi, e uno stesso destino? Se togli i legami di sangue, i vincoli di specie? Se togli all’amore la salvezza: che resta? Resta qualcosa? Resta l’amore?

All’orizzonte apparve una linea di luce. Le acque si ritirarono in un lungo sospiro, ingrossandosi oltre gli scogli. I bambini non si mossero. Aspettarono l’arrivo dell’onda come si aspetta una madre.

Non lo vidi andarsene. Speravo solo che fosse felice, laggiù, da qualche parte nel grande mare arcobaleno.