Irene Lonigro – Come bramito di cerve

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, Olga Tokarczuk, 2009 (edizione consultata: Bompiani, 2024, trad. di Silvano De Fanti)

ELEMENTO SCELTO: personaggio – le Cerve

Irene Lonigro
Come bramito di cerve

I.

L’aria porta un odore acre, di sangue. Avanziamo sedotte da quell’odore fino ai margini del bosco, i nostri dorsi rossi aprono ustioni nel paesaggio. Procediamo così fino allo scendere del buio. Sostiamo al margine del bosco. Non possiamo spingerci oltre. L’odore è ora così vicino che non è più possibile distinguerlo dall’odore della nostra paura.

Più lontano, un volto, appena visibile, ci osserva. Una compagna? Si, una compagna muta. Perché così vicina alle case? È diversa da noi, più simile a una maschera che a una Cerva. La testa gravita su un corpo invisibile. Fissiamo tremanti quegli occhi che non tentano di parlarci. Poi, capiamo. Loro, gli Assassini, hanno reso un corpo vivo una maschera vuota, una testa spezzata. Cerchiamo il corpo nella neve fangosa. Ma la neve ha perso la sua luce, come si fosse spenta dall’interno. E le raffiche di vento spezzano già gli odori. Crollando sul fondo innevato, sentiamo il battito riversarsi nel terreno, la terra pulsare come un cuore gonfio.  Vediamo una donna avvicinarsi e prendere la testa tra le mani, con dolcezza, come si maneggia la fragile testa di un neonato. La cerva si fa prendere e la sua docilità non è la rassegnazione passiva della morte, ma una fiducia più simile alla vita. Chi è questa donna, che sa trovare vita nella morte? A quale specie appartiene, se non agli Assassini né agli Animali? Ricordiamo, forse, il suo odore, i suoi passi, la sua presenza silenziosa. Da dove viene questa sua estranea delicatezza?

II.

Ho sentito delle mani fredde su di me e non ho avuto paura. Erano delle mani grosse, da lavoro, ruvide per il freddo. Ho sentito qualcosa di nuovo. Essere toccata così. Non lo avrei permesso, prima, ma ora non potevo fuggire. Il mio corpo mi era estraneo e non potevo governarlo. Ho sentito le grosse mani ruvide coprirmi gli occhi. Quel tocco, quelle mani, avevano un’estranea delicatezza che non capivo. Non mi stavano ferendo e non volevano ferirmi. Cercavano qualcosa di simile, forse, a un’intimità. Tentavo di orientarmi in quel buio. Cercavo voi e non riuscivo a sentirvi. Non era soltanto il buio della notte, ma il buio gettato da quelle mani su di me, a spaventarmi. La notte non è mai veramente vuota. È più simile a una timidezza o al riposo. I suoni e le forme si nascondono, ma esistono. Ma il buio che emanava da quelle mani era vuoto, senza volume, e non conteneva niente.

Quando il peso delle mani si è alleggerito, i miei occhi sono tornati liberi. Ho visto di nuovo la notte e le sue forme schive e mi sembrava di navigare in un buio leggero. Ho visto voi, compagne, più lontano, nel bosco. Vi ho chiamato, ma la mia voce non si espandeva. Non sapevo chi mi avesse allontanata da voi, ma non potevo credere che voi aveste deciso di lasciarmi. Non avevo mai vissuto così distante da voi, in inverno. Non ero mai stata così vicina alle case. Se ero stata io ad allontanarmi da voi, perché lo avevo fatto? Non ricordavo cosa mi avesse portata qui.

Dei rumori provenivano dalla casa. Guardai all’interno. E vidi. All’interno della casa pendeva una sagoma scura. Era un corpo annodato e carico di sangue. Ciondolava pesante, senza pelliccia, senza testa. Sentivo una comunione con quel corpo. Cercavo in quel corpo memoria di quello che era accaduto, ma non ricordavo cosa mi legasse a lui.

III.

Di nuovo, le mani sono tornate su di me. Le ho sentite afferrarmi, travolgermi, portarmi via. Qualcuno mi portava. Non vedevo il volto, ma le mani erano le stesse. Correva. Non sapevo dove volesse portarmi. Le immagini mi arrivavano scomposte. Sentivo il profumo del bosco misto all’odore pungente del sudore umano. Ho ricordato quando anche io e le compagne correvamo. Le mani mi tenevano forte e quasi istintivamente mi lasciai andare. Mi fidai di quella presa. Quando ormai mi stavo abbandonando alla corsa, il movimento si arrestò. Eravamo ferme ora, ma chi mi portava ansimava ancora. Il bosco ci circondava. Il nostro bosco, di nuovo il nostro bosco. Ho avuto nostalgia di quell’umidità dolce, che lo riveste. Chi mi portava ha iniziato a scavare, con forza, la terra ghiacciata. Scavando, scopriva le radici tenere degli alberi. Ricordavo il gusto di quelle radici quando, oltrepassato il freddo e la durezza, si aprivano sotto il terreno come ali delicate. E il gusto ci dava piacere.

Le mani mi hanno posata nella neve, ma il letto era scavato così profondamente che potevo già sentire il profumo della terra che si sarebbe rivelato in primavera. Lei mi guardava. Ora potevo vederla. Il suo volto aveva una violenta tristezza. Pronunciava parole che non capivo e guardava il cielo, guardava me e tremava: “Perdonami, fanciulla, se non posso seppellire il tuo corpo. Ho preso la parte più nobile di te”. E chinandosi su di me: “Il mio nome è Janina e non sono contro di te, Cerva. Ho dovuto portarti via da quella casa, perché non potessi vedere quello che ti hanno fatto. Che ci hanno fatto. Come te, sono stata ferita anche io. Anche io, come voi, sono vittima degli Assassini e – peggio – sono costretta a vivere un corpo che è come il loro. A vivere nel loro mondo. A dialogare con loro, anche se di fatto parliamo un’altra lingua. Sarei disposta a sacrificare la mia voce per parlare con voi. Rinuncerei a tutto ciò che c’è di grossolano in me per entrare in silenzio nel vostro mondo. Io non sono una loro simile, in niente, tranne che per questo corpo che mi dà solo dolori. I miei Disturbi sono così forti in questa stagione. È il mio corpo che rifiuta questa comunione con loro. Tu, Cerva, puoi avere ancora consolazione, ma non io. Il mio corpo non è stato cacciato, come è stato cacciato il tuo corpo. Ma non ha la vostra grazia né la vostra leggerezza. Non ha nessuno e non è simile a nessuno”.

Ti osservo, Janina, e provo a capire. Ma la tua solitudine – è vero – non è la mia solitudine. Il tuo corpo è fragile e forte, Janina. Come se la tua forza volesse fare violenza e vendicare la tua fragilità. Io forse sono stata fragile e sono stata forte quando ho amato, quando ho partorito, mentre allattavo, ma in un modo diverso da te. La mia forza, in quei momenti, non era contro la mia fragilità. Era, anzi, una difesa o un’espressione di lei.

IV.

Quella notte il bosco aveva un profumo dolce. Ho cercato e poi ho trovato la sorgente di quel profumo. Delle forme perfette, rotonde, appoggiate sul terreno. Una sottile pelle ghiacciata le rivestiva. Sarebbe stato piacevole succhiare quel ghiaccio, quasi come bere. Mi sono avvicinata – ora ricordo – mi sono avvicinata piano, distaccandomi un po’ dalle compagne.  Ho toccato una di quelle forme e ho sentito la lingua inumidirsi. Prima di arrivare ad assaggiarne il sapore ho sentito un rumore e il mio corpo crollare, spezzarsi, impazzire. Mi inondava un dolore nuovo, a cui non potevo arrendermi perché sapevo che non era un dolore come gli altri. Era un dolore che mi toglieva la libertà. Un dolore che non veniva dal mio corpo, ma che era estraneo al mio corpo, che il corpo non riconosceva. Più tardi, Janina mi avrebbe insegnato che questo è ciò che gli uomini chiamano ‘tradimento’. Avrei potuto sentire il sapore di quei frutti, e addormentarmi ricordandone la dolcezza, ma qualcosa me lo aveva negato. Nel dolore tentavo di immaginare come sarebbe stato mangiare quel frutto, che tipo di dolcezza aveva che non avevo ancora mai sentito. E in quest’immagine, il mio corpo si calmava.

Non ricordo un risveglio. Solo un sonno pesante in cui non c’era più nessun desiderio. Voi, compagne, mi chiamavate e io non vi sentivo. Non sentivo più niente. Ora so cos’è la morte: un ostacolo verso il piacere. E una lunga solitudine, sorda a ogni richiamo. Incontrando te, Janina, ho visto questa solitudine. Ho provato di nuovo desiderio e nostalgia di voi.

V.

Janina viene a trovarmi ogni giorno. Le racconto di voi e della vita con voi. Si siede su un tronco o, a volte, sulla neve e mi parla. Io sento il peso del suo corpo sul terreno, e la sua voce. Attraverso di lei torno a ricordare. Da sotto la neve, lo spazio si riempie. I germogli, le cortecce, il muschio, i vostri occhi ovali. Tutto questo non è solo mio, è anche vostro. Non ho bisogno di altro. Voglio solo ricordare e comunicare con voi. Creare una riserva di ricordi che mi nutrano. Ritorno a ricordare il suono del bramito. A Janina capitava di sentirlo, in autunno, quando camminava sull’altipiano, e le dava un senso di paura e oppressione. Mi disse che lo sentiva come un richiamo di disperazione. Un suono che veniva dalle profondità della gola e che non poteva incarnare la dolcezza dell’amore. Io non capivo questa differenza. Tutto ciò che è urgente ci dispera e l’amore è un’urgenza. Il bramito è anche una lotta, un lungo sforzo della voce. E, al termine della lotta, c’è l’unione.

A noi Cerve non viene insegnato a bramire. Ci viene insegnato ad ascoltare il bramito del maschio. È un suono che ci domina e a cui obbediamo come si obbedisce alla fame o alla sete. Il suono è una rete che si getta su di noi e ci comanda. Il maschio ci insegue, ma noi non scappiamo davvero, è solo un gioco. Fuggiamo e, fuggendo, chiamiamo il maschio a noi. La distanza si accorcia e il desiderio si espande.

Il bramito risuona in me, distintamente. È forse possibile ricreare quel suono dal ricordo? La mia voce, debole per il lungo silenzio, tenterebbe e tenterebbe ancora e poi troverebbe sbocco. Allora lancerei un bramito, da sotto la neve. Voi, compagne, seguireste quel suono come in un lungo sogno di cui non avete coscienza. Arrivereste qui, in questo punto del bosco, desideranti, attendendo di vedere la potente corona del maschio. E, trovando il bosco vuoto, vi fermereste e sentireste il mio odore. Allora mi trovereste e sapreste che anche una Cerva può bramire.