Manlio Garofalo – Lo Zoo delle Professioni Perdute

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Bartleby lo scrivano, Herman Melville, 1853 (edizione consultata: Feltrinelli 1994)

ELEMENTO SCELTO: personaggio – Bartleby

Manlio Garofalo
Lo Zoo delle Professioni Perdute

Le ampie vetrate dello zoo umano riflettevano i bagliori arancioni e rossastri del tramonto artificiale di luce al neon mentre Bartleby, accennando un sorriso malinconico, si sedeva alla scrivania di mogano per dedicarsi alle mansioni serali.

Come stabilito dal contratto collettivo di lavoro post-umano, Bartleby interpretava il mestiere dello scrivano nello Zoo delle Professioni Perdute. Metteva in scena ogni giorno una sofisticata replica teatrale: copiava documenti finti, ma anche divorzi e testamenti reali, che aggiungevano un tocco di credibilità alla recita. Testamenti di uomini che avevano fin troppo, o quasi più nulla, da lasciare. Testamenti di amministratori delegati di aziende informatiche e di multimiliardari arricchiti grazie a investimenti nel settore dell’intelligenza artificiale e della robotica, oppure le ultime volontà di poveri da tempo disoccupati dopo che il lavoro era stato loro sottratto dai robot senzienti. E l’utopia del reddito universale si era presto dissolta, come un miraggio in un deserto di silicio.

Trascriveva poi sentenze di divorzio di androidi, che si erano mandati lettere piene d’ardore una più banale dell’altra. Le loro separazioni erano spesso causate da una modifica hardware non gradita o da un aggiornamento software che li aveva resi incompatibili. Nemmeno la terapia di coppia quantistica e i nuovi driver erano serviti a qualcosa.

Mentre stava copiando, con i fogli illuminati da quel finto tramonto, Bartleby si distrasse solo un istante.

Quanto tempo era passato dalla sera in cui aveva guardato il sole scomparire dietro l’orizzonte senza rendersi conto che sarebbe stata l’ultima volta? Non lo ricordava più. Ripensò al prima, che pareva lontanissimo, e alla vecchia vita su cui adesso poteva solo fantasticare. Ai ricordi non più così vividi, che si scolorivano giorno dopo giorno e quasi sembravano uno di quei sogni sfuggenti che si fanno appena prima del risveglio, troppo assurdi per essere reali e troppo offuscati per poterli ricordare. Ma ecco, sì, una cosa la ricordava fin troppo bene: la sera in cui l’azienda AI Inc. aveva presentato in diretta streaming MagiC, l’ultima novità nel settore dell’informatica. La prima intelligenza artificiale generale, ovvero paragonabile a una mente umana. Milioni di spettatori avevano seguito l’annuncio rivoluzionario, chini sullo schermo del cellulare o ricurvi verso quello del computer, come bambini con la faccia attaccata alla vetrina dove è esposto il giocattolo che hanno sempre desiderato, ma che i genitori non vogliono comprare. E, alla fine, MagiC l’avevano acquistato tutti, attratti dalla luce accecante e messianica della coscienza digitale, da quel seducente, inesauribile segreto.

 

Una suadente voce femminile annunciò ai visitatori che lo Zoo stava per chiudere, una voce artificiale che ormai era indistinguibile da quella umana, ma della quale Bartleby percepiva tutta l’asetticità. Mancava di quell’infinitesima incertezza tra una parola e l’altra, di quella minima pausa per riprendere fiato, di quell’impercettibile tremore che rende imperfetti, forse, ma così perfettamente umani.

Erano le 19:00 e Bartleby ripose delicatamente la penna nel calamaio, si alzò e varcò la porticina che collegava la sua gabbia di vetro a una piccola stanza che era la sua casa. Era venerdì, il che voleva dire che avrebbe mangiato pizza, o meglio una pillola con il gusto e i nutrienti della pizza. Il pensiero lo rattristò, ma non aveva alternative migliori se non il digiuno. Aprì il blister e ingoiò la pillola: cibo sintetico di un mondo sintetico dove tutto ciò che rimaneva dell’umano erano solo le parole.

Si sedette sul divano, bianco, e prese il lettore di ebook dal cassetto del comodino, bianco anch’esso, quel bianco futuristico e irreale che Bartleby odiava. Scosse la testa leggendo il titolo del romanzo che gli avrebbe tenuto compagnia nelle sere seguenti: Anna Karenina nel Paese delle Meraviglie. Avrebbe volentieri letto un libro scritto da un essere umano, ma non poteva, lo vietavano le regole per i dipendenti dello Zoo. Si ricordò di quando scrivere libri era considerata un’arte e di quando lavorava nell’editoria. Poco dopo l’uscita di MagiC sul mercato a quasi tutti gli editor delle case editrici ne venne fornita una licenza. La produttività raddoppiò, ma alcune figure professionali iniziarono a scomparire, a partire dai correttori di bozze e dai traduttori. Tanto faceva tutto l’IA, lo diceva già lo slogan: “Ci pensa MagiC”. Non ci volle molto prima che i dirigenti si accorgessero che non c’era neanche più bisogno degli editor e degli autori.

Nel giro di tre anni, in quasi tutti i settori, i lavoratori vennero sostituiti da una controparte digitale e virtuale, più economica e più efficiente. Il lavoro scarseggiava e le rivolte degli uomini imperversavano, piccole e ingenue sacche di resistenza contro i nuovi governi tecnocratici e robotici, che reprimevano ogni tentativo di ribellione. Ed ecco, la trovata geniale del sindaco di New York: creare uno zoo a Wall Street in cui mostrare ai visitatori i lavori ormai scomparsi, ora svolti dall’intelligenza artificiale o dai computer. Era un progetto ambizioso e internazionale, che prevedeva la creazione di uno zoo in ognuna delle principali città del mondo, così da dare lavoro ad alcuni fortunati, estratti a sorte con una lotteria per interpretare la propria professione, ma come animali in gabbia. La speranza della vincita del posto di lavoro, poi, servì in parte a placare i venti di rivolta. E Bartleby aveva vinto, se quella si poteva considerare una vittoria.

«Numero 4891, Bartleby Smith: scrivano.» Lo scrivano era un mestiere che già non esisteva da tempo, quindi poteva essere estratto chiunque.

Presto lo Zoo delle Professioni Perdute era diventato la più grande attrazione della città.

Bartleby posò il lettore di ebook, non aveva più voglia di leggere quel libro che era un’accozzaglia di libri già scritti, o forse non ne aveva mai avuta. «Basta, basta così» si disse, mentre si infilava sotto le coperte, rifugiandosi nei colori ingannevoli dei sogni, così diversi dal grigiore quotidiano del giorno che lo aspettava, e di quello dopo, e di quello dopo ancora. E fu mattina.

 

Il trillo assordante della sveglia squarciò il silenzio dell’alba riportando Bartleby, suo malgrado, alla monotona e mediocre realtà. Si preparò in fretta e uscì dalla stanzina per entrare nella gabbia di vetro. La messinscena stava per iniziare.

Come ogni giorno da ormai dieci anni, si mise alla scrivania a lavorare e attese l’arrivo dei visitatori. Mentre iniziava a copiare i documenti guardò il suo riflesso sulla vetrata e questo esitò per un attimo, non lo seguì subito nei movimenti, si attardò un secondo. Doveva essersi sbagliato, certo, non poteva essere reale, ma non era la prima volta che accadeva. Forse stava davvero diventando matto. O magari, chissà, quel riflesso univa il suo mondo a qualcos’altro, non avrebbe saputo dire a cosa. Gli piaceva fantasticare ogni tanto, bastava solo non illudersi che potesse esserci una vita diversa dalla sua, lontana e intangibile come i raggi differiti delle stelle.

Bartleby aprì il profondo scomparto dello scrittoio, tirò fuori una cartella piena di documenti e iniziò a disporli sul tavolo, con metodo. Quel giorno avrebbe copiato documenti falsi, fittizi, semplici oggetti di scena.

Quando arrivarono i primi visitatori della giornata stava controllando il primo foglio copiato, confrontandolo con l’originale. In fondo, pensò, anche la sua interpretazione altro non era che una copia, una riproduzione malriuscita del lavoro originale di scrivano.

Dietro il vetro comparvero due androidi baby-sitter che tenevano per mano un bambino umano, il tredicesimo dei figli di uno dei più importanti magnati dell’industria dell’intelligenza artificiale. Il bambino guardava Bartleby affascinato. Volle salire in braccio a un robot per vedere meglio.

«Che lavoro era questo?» domandò curioso ai suoi bambinai di acciaio, e uno di loro indicò il cartello affisso sul vetro, dove si poteva leggere: SCRIVANO. Gli spiegò che quello era, appunto, il mestiere dello scrivano, che stendeva o copiava atti e documenti, ma che con l’avvento delle macchine era diventato inutile. «Allora questo lavoro non c’era già da prima dell’arrivo dell’IA!» esclamò il bambino tronfio. «E scrive proprio come nei vecchi film!» concluse, mentre l’altro robot annuiva benevolo.

Bartleby sentì la familiare fitta di umiliazione da dietro il vetro dov’era intrappolato, prigioniero in una perfetta riproduzione dell’habitat lavorativo naturale di una professione che non esisteva più. Per il bambino lui non era Bartleby, non era neanche uno scrivano: era lo Scrivano. I visitatori speravano di incrociare il suo sguardo, come quello degli altri esseri umani nelle gabbie, ma non ci riuscivano, perché lo scrivano, anche se alzava gli occhi, guardava oltre. I visitatori erano obbligati a incontrare il loro stesso riflesso nel vetro prima di arrivare a vedere all’interno della gabbia, ma lo ignoravano, non erano in grado di guardarsi dentro. Non potevano, non volevano: erano loro ad aver marginalizzato gli umani, lavorativamente e fisicamente, li avevano sostituiti e rinchiusi nelle gabbie.

Ah, Bartleby! ah, umanità!

Il bambino e gli androidi proseguirono la visita allo zoo umano. Eccoli di fronte alla gabbia della bibliotecaria, Nippers, circondata da maestosi scaffali in legno pieni di libri finti e da tavoli da lettura con abat-jour dorate, e ai tavoli sedevano attori che interpretavano gli utenti. Nippers era intenta a cercare i libri che le venivano richiesti, o a catalogarli: un antico rituale ormai privo di significato, un ottuso cerimoniale del nulla. Poi il terzetto si fermò a contemplare Ginger Nut, lo scrittore, che batteva a macchina il suo nuovo romanzo, con le mani leggiadre sopra i tasti come quelle di un pianista. E certo, nello zoo c’era anche un pianista, Turkey, che suonava Clair de lune quando i visitatori si fermarono per ascoltarlo, inaspettatamente commossi.

Nel frattempo, Bartleby stava copiando una grande quantità di documenti, quando a un tratto si fermò, interrotto dall’impaziente bussare contro il suo vetro. Alzò lo sguardo e vide un uomo di mezza età e un adolescente.

«Mi scusi» disse, «sono venuto con mio figlio in visita e ho pagato il pacchetto Experience+. Vorrei che lei copiasse la donazione che voglio fare a mio figlio del 30% della mia azienda, AI Inc.» A sentire quel nome, Bartleby ebbe un sussulto, posò la penna. Rimase immobile, in silenzio.

La voce robotica femminile, con tono alterato, lo rimproverò: «Esemplare 4891, il suo livello di autenticità è sceso al 78%. È pregato di riprendere il suo lavoro.»

«Ma insomma, che modi sono questi?!» gli gridò l’uomo indispettito. «Adesso le passerò dall’apposita fessura il foglio con la donazione e lei lo copierà per me.»

Bartleby vide il suo riflesso ridere. O forse era lui che rideva, ormai non ne era più sicuro. Si alzò dalla scrivania e guardò dritto negli occhi il magnate. «Avrei preferenza di no» disse.

«Prego?» domandò perplesso il signore, e Bartleby ribadì quanto detto, serissimo: «Avrei preferenza di no.» Prese la penna e lo scrisse su un foglio, “Avrei preferenza di no”, e su un altro, e un altro ancora. L’inchiostro si trasformò in piccole farfalle, che raggiunsero gli altri habitat, e poi iniziò a formare una scala, fatta di lettere e punteggiatura, che conduceva verso l’alto, oltre il soffitto trasparente, verso uno strappo nel cielo di pixel. Ecco che Nippers, Turkey e Ginger Nut l’avevano raggiunto nella gabbia, seguiti dagli altri lavoratori dello Zoo. Come avevano fatto a liberarsi?

E mentre saliva la scala d’inchiostro, con la bibliotecaria, il pianista e lo scrittore che lo seguivano portando con sé le farfalle di parole, Bartleby si chiese se anche la ribellione fosse autentica o fosse solo un’altra attrazione programmata nello Zoo delle Professioni Perdute. Il suo riflesso, però, non se lo chiese. Il suo riflesso sapeva, e sorrideva.