Matteo Fachechi – Il disturbatore di mosche

Matteo Fachechi

IL DISTURBATORE DI MOSCHE

Avevo ventitré anni, nessun titolo di studio e l’aria di uno che sa stare zitto: mi dissero che ero perfetto per il lavoro.

I membri del circolo si riunivano ogni venerdì sera nella biblioteca della facoltà per discorrere di “notevoli questioni giuridiche”. Io avrei dovuto occuparmi delle mosche. Arrivavano da chissà dove, le mosche, e distraevano i soci a metà delle loro preziosissime arringhe.

Le istruzioni me le diede il presidente in persona. Non avrei potuto servirmi di libri, fazzoletti, fogli o ventagli, e soprattutto mai avrei dovuto utilizzare panni in acrilico. Le mosche, mi spiegò il presidente, possiedono quattro ali di finissima membrana, due per volare e due per bilanciarsi: lacerarne anche solo una avrebbe compromesso la vita dell’insetto. E l’insetto – questo il cuore di tutta la faccenda – andava solo allontanato. Non ucciso.

A detta del presidente, bastava un movimento di polso ben calibrato, eseguito a palmo aperto da una distanza di dieci o quindici centimetri rispetto alla mosca. Così a distoglierla dal tavolo della riunione sarebbe stato lo spostamento d’aria, che pure, tuttavia, doveva “essere morbido come soffio e mai tracimare in folata”. Il presidente mi mostrò quel movimento, e allora gli chiesi perché non ci pensassero direttamente i soci, a scacciare gli insetti. “Noi falliremmo nel ponderare il gesto”, rispose, “Troppa poca, la nostra premura in assemblea”.

Mi disse di cominciare subito, e prima di stringermi la mano si infilò un guanto di seta.

All’epoca me la passavo piuttosto male. Dopo ripetute bocciature ero finalmente riuscito a convincere i miei genitori che il liceo scientifico non faceva per me. Rimaneva il presentimento di essere troppo cresciuto per rilanciarmi sul fronte umanistico, e bruciava lo sconforto di stare un passo indietro alla mia generazione. Per questo, immagino, risposi all’annuncio del circolo. Forse cercavo ancora un legame col mondo accademico, oppure mi eccitava l’idea di conoscere gli istitutori di cui parlavano i miei coetanei in odore di laurea.

I cinque soci del circolo erano diversi da qualsiasi insegnante avessi incontrato – la qualità della stoffa, il lessico ficcante, le voci poderose come tocco di tamburo. Li ammiravo, non ricambiato: da che ricordo – finché rimasi loro collaboratore – nessuno sostenne il mio sguardo per più di qualche secondo. Ma quando mi fecero firmare certe scartoffie sulla riservatezza in assemblea, mi diede una bella sensazione vedere il mio nome che – pur di sghimbescio e in grafia precipitosa – si univa ai loro in fondo al foglio.

Di riunione in riunione, i soci si scambiavano responsabilità e ruoli. L’unico incarico a non ruotare era il mio, che il presidente descriveva come “perno di fissaggio di tutto il marchingegno”. Perché sulle mosche i soci avevano ragione: nella biblioteca ce n’erano a decine.

Alcune – le più innocue – parevano avere come un’indole esplorativa. Volavano in cerchio attorno ai busti romani, zampettavano sulle nervature dei libri e spesso si radunavano sul mappamondo, in un punto tra l’Hampshire e il Surrey. La maggior parte, però, preferiva ficcare la proboscide nelle venature dei tavoli, dov’erano incuneati minuzzoli di pane e frutta guasta, e ronzavano sfrontate, le mosche di questo ceppo. Temevo che, se mi fossi avvicinato al tavolo dei soci per allontanarle, avrei finito per diventare io la principale causa di disturbo. Ma presto realizzai che, mentre a quelle bastava brusire per catalizzare l’attenzione, il mio sventolio di mano sembrava che i soci non lo vedessero nemmeno.

Proprio non riuscivo a capire cosa ci trovassero nelle mosche, o perché preferissero pagarmi per allontanarle piuttosto che ricorrere a un pesticida e farla finita una volta per tutte. Immaginavo che dietro ci fosse una logica animalista, di storie del genere ne avevo sentite tante, ma questi erano uomini studiati, affidabili, e io, che già iniziavo a emulare il loro linguaggio, avrei voluto conformarmi anche ai loro principi. Quando provai a chiederne conto al presidente, però, mi disse di non farmi strane idee: il rispetto per le mosche glielo aveva inculcato la moglie, che era entomologa forense. Fu una risposta arida, tecnica, ma sulle prime mi parve pure genuina.

Tornai a dubitare un venerdì piovoso, quando un cortocircuito fece saltare la luce in tutto il campus. Accadde che il socio più giovane – un avvocato internazionalista dalla chioma mezza incanutita – ebbe l’idea di accendere uno dei lumi della biblioteca, e al presidente venne un colpo. Strappò la lampada dalle mani del consociato, soffiò sulla candela, poi tutti restammo in silenzio, al buio, per una decina di minuti. Appena la luce tornò vidi che il presidente si era dovuto sedere. La defezione dell’avvocato: se la lampada avesse attirato le mosche, il vetro caldo avrebbe rischiato di cauterizzarne le zampe, praticamente una condanna a morte, perché quegli arti sono recettori del gusto e dell’olfatto.

All’incontro successivo il socio non presenziò, e il venerdì dopo fu sostituito da un nuovo avvocato – sempre giovane, sempre brizzolato, sempre internazionalista.

Se dunque dall’incolumità delle mosche dipendeva l’adesione al circolo, la faccenda doveva essere più importante di quanto il presidente fosse stato disposto a rivelarmi. Nella speranza di carpire la verità, iniziai a prestare orecchio alle dissertazioni dei soci, a “entrare nel merito”, per così dire, delle assemblee. Talvolta si parlava di governo ed elezioni, qualcosa riuscivo a capirci, ma presto o tardi il dibattito virava sul filosofico, e allora i soci mischiavano italiano e latino, sul passato speculavano come fosse il futuro. Se c’era un concetto che si ripeteva più degli altri, comunque, era quello di “contratto sociale”: il patto, cioè, con cui per sopravvivere gli uomini si ripartiscono le incombenze, da semplice gruppo divenendo “consorzio”. La nozione mi restò impressa, perché potevo riscontrarne l’attendibilità nel modo stesso in cui operava il circolo, e presto mi feci l’idea che il motivo dietro l’importanza – la sacertà – delle mosche fosse che una sorta di “consorzio” esisteva pure tra di loro.

Erano trentaquattro, le mosche, e nonostante ciascuna tenesse una condotta apparentemente autonoma rispetto alle altre, con quelle doveva pur avere accordo, perché tutte rispettavano determinati territori, orari, abitudini persino. La mosca sul naso di Giustiniano era sempre la stessa, così pure quella sulla costa del “Pauli sententiae”, o quelle attorno al mappamondo. Una decina preferiva la solitudine; quanto alle altre, volavano spesso in gruppi da due o da tre, e sopra questi numeri si disponevano in moduli che presto fui capace di riconoscere e anticipare.

La scoperta mi folgorò: in quella biblioteca si radunavano dunque due circoli, quello degli uomini e quello dei ditteri, e da me, che dei primi ero amico e dei secondi riguardoso disturbatore, dipendeva l’efficienza di entrambe le adunate.

Per mesi mi recai al lavoro impettito, raccontavo ai miei genitori che finalmente avevo qualcosa in ballo, frequentavo la gente giusta. Mi sentivo risolto, e di superbia alla fine peccai, perché una sera di aprile – colpa dello stordimento stagionale, sì, dell’inverno che mi era rimasto nel polso – una sera di aprile, dicevo, sbagliai a calibrare il movimento prescrittomi e presi al fianco una delle creature. Morì sul colpo. Il corpicino stramazzò in mezzo alle cartelle dei soci, ci furono gemiti, qualcuno tirò il fiato, al presidente tremò il doppio mento. Poi silenzio. La riunione fu dismessa.

Avevo tradito entrambi i consorzi, ed ero convinto che il presidente mi avrebbe cacciato, come era accaduto all’internazionalista. Ma non ricevetti alcun congedo scritto, e il venerdì successivo mi presentai comunque in biblioteca. Qualora le mie scuse non fossero state accolte, qualora i soci mi avessero ingaggiato o biasimato, ero pronto a ripiegare senza dire una parola. Invece, e contro ogni aspettativa, i luminari mi dedicarono solo sorrisi, e quello più lungo, quello più vero, brillava sulla faccia del presidente. Dell’insetto morto non venne fatta parola: la riunione si svolse come tutte le altre. Persino le trentatré mosche sopravvissute rispettarono i loro costumi, incuranti della sorella scomparsa.

Non solo il delitto non fu sanzionato, ma la mia presenza durante le riunioni si fece oggetto di riguardo. Il presidente disse che presto mi avrebbe affiancato un altro disturbatore, e a parità di paga mi invitò a lasciargli gran parte del lavoro: se gli sventolii di mano mi fossero venuti a noia, meglio riposare sulle poltrone vicino ai busti romani, leggere qualche libro, oppure studiarmi il mappamondo, che era antico e in pelle di vitello. Accettai le concessioni, anche perché adesso – ecco un’altra novità – i soci mi lasciavano mele e pan di noci negli angoli più remoti della biblioteca, e se mi avvicinavo al tavolo perdevano il filo del discorso.

Mi imbarazza ammetterlo, ma non compresi la situazione finché uno di loro – ancora l’internazionalista – non rischiò per sbaglio di ficcarmi il dito in un occhio, stiracchiandosi in chiusura d’assemblea. Il presidente prese il collega da parte, furibondo come la sera del blackout, e il venerdì successivo al posto dello sbadato sedeva un altro legale dalla medesima qualifica. Con orrore, allora, dovetti accettare la realtà: non ero più chiamato in biblioteca perché servissi il circolo degli uomini, ma perché integrassi invece quello delle mosche, che con la mia imperizia avevo decurtato di un elemento.

Quanto dolorosa, quella rivelazione, e quanto banale assieme! Avevo sperato che i soci mi reputassero loro pari – da dove era venuta tanta ingenuità? Io, privo di referenze e prospettive, io, che dei loro discorsi coglievo le briciole, che al loro lume potevo solo appoggiarmi! Non ero nemmeno capace di sventolare per bene una mano. Per forza, conclusi, mi ritenevano un insetto.

Fissai un incontro con il presidente, in biblioteca, alla sola presenza delle mosche. Con la voce che tremava, dichiarai che avevo capito tutto, che sapevo del consorzio, che se del socio non potevo avere la cultura avrei almeno rivendicato il decoro: mi sarei dimesso. Ma alla parola “dimissioni” in sala accadde qualcosa di sconcertante. Le mosche, che fino ad allora erano rimaste chete, ruppero routine e schieramenti, si mischiarono, e tutte assieme mi volarono davanti, come se dalla bocca mi fosse uscito qualcosa di sporco. I loro ronzii si fecero uno soltanto; il presidente, invece, sospirò.

Ero vittima, disse, di un fraintendimento: il mio passaggio da disturbatore a mosca non era squalifica, ma promozione. Giacché se in consorzio a molti tocca lavorare, disse, è perché pochi possano pascere senza responsabilità. Questa la mia elezione, questa quella degli insetti. Le mosche “fruivano delle fatiche altrui”, vivevano da imperatrici. Per loro l’uomo scuoiava, bolliva, mungeva e imbandiva, di loro era il sudore sulla pelle e a loro si tornava da carcasse. La mosca non raccoglieva pretese, né aspettative. Percorreva franca le sue rotte, e non si vergognava della propria libertà, anzi sempre l’annunciava all’orecchio dei semplici. Poteva meritare altro che stima?

Alla domanda non riuscii a rispondere – ma infine la compresi. Fu uno scioglimento liberatorio anche per il presidente, mi parve, visto che capitolava in fondo a esclamazioni e lodi come se a lungo avesse dovuto trattenerle. E mentre con l’indice percorreva i sentieri delle mosche, mentre a parole immaginava i loro nuovi itinerari, mentre insomma con forza rigettava le mie dimissioni, mai distoglieva gli occhi dai miei. Mi guardava – uomo intenso, fine, titolato – e guardandomi s’infuocava della stessa ammirazione che gli avevo, e gli avrei sempre, riservato io.

L’elogio si protrasse ancora molto, perché quegli occhi, pure esperti, non riuscivano a sondare il mio convincimento. Ma le mosche, percettive, presto addolcirono i loro bisbigli, e indisturbate tornarono alle loro attività.