Riccardo Luraschi: un estratto da “Il Faraone”

Riccardo Luraschi con “Il Faraone” ha ricevuto una menzione speciale della giuria

nella XXXI edizione del Premio Calvino

La motivazione della giuriaUna menzione va a Il Faraone di Riccardo Luraschiun’estesa e impeccabile costruzione narrativa chiaramente ispirata alle vicende italiane degli ultimi venticinque anni e al loro ancora non tramontato protagonista. La non facile materia è affrontata in un’inedita prospettiva, con un’eccellente scrittura dall’amplissima e perfettamente dominata tastiera di registri e di lessici.

dal numero di giugno 2018

Bertelli nel viaggio quotidiano verso l’impero

Persino il giornaliero viaggio in auto da P. alla Idealset, la mattina presto, non pesava a Bertelli, anzi era tutto un’ebbrezza crescente, dal passaggio del grande fiume ai campi vasti e grassi intravisti dall’autostrada fino alla terra dove (nella sua visione acritica della storia e della società) generazioni di uomini forti in anni e anni di incessante industriosità, come ragni e formiche e api avevano secreto una sterminata ragnatela metallica e eretto colossali formicai di vetro e fabbricato labirintici alveari di cemento, manufatti destinati a durare nei secoli a maggior gloria e benessere di tutti, poveri e abbienti. Migliaia di chilometri e milioni di metri cubi e miliardi di tonnellate di lavoro, lavoro, lavoro, nel gelo e nella calura, nella nebbia spessa o sotto il cielo limpido scorticato dal vento, al brillio del sole o al ronzio dei neon, nel vigore della gioventù o con le ossa rose dalla maledetta vecchiaia: era quella la vita, quella la gioia. La gioia di fare, di accumulare, di spedizionare container dopo container in tutto il globo terracqueo, di guadagnare e stivare e stoccare, di investire per produrre di più, vendere di più, mangiare e vestirsi e comprare di più e meglio da chi accumula, vende e guadagna a sua volta, in un carosello virtuoso, nella danza circolare dell’economia in salute.
Bertelli non entrava nella città storica. La sfiorava e se la lasciava alle spalle, piegando verso i suburbi industriali di nord-est, strappati agli dei delle messi in anni operosi e polverosi di fossi interrati, cascine demolite, terreni spianati e asfaltati, cavi aerei stesi fino all’orizzonte, strade allisciate e allargate, ammantate di bitume drenante sotto l’occhio ipercritico di pensionati oziosi e impotenti appoggiati alla bici, soli o a gruppi, capannelli di irosi scatarratori inutilmente valutanti e soppesanti l’intervento che cambiava per sempre la natura del luogo, vaporizzando tra l’altro il vecchio “trani”, cioè l’osteria, e il relativo crocicchio e cancellando le distese di trifoglio e di mais, che a loro volta avevano soppiantato, in tempi lontanissimi circonfusi di un alone di leggenda, le marcite, le risorgive, le grance. Una nuova, ben più razionale forma architettonica e produttiva imperava lì ora: il cosiddetto “centro direzionale”, slogan esoterico che designa uno squadrato quartiere-uffici con cubi di vetro fumé tutti uguali, sacro recinto brulicante di vita e lavoro durante il giorno, silenzioso e deserto come una necropoli nei fine settimana e soprattutto la notte quando, nel bagliore lattescente delle luci al sodio, oltre alle guardie armate e a qualche cane randagio vi si aggirano solo, smarriti, i Lari del contado che fu.
Di fronte a tali ciclopici esiti cos’erano i rivolgimenti politici e le turbolenze e le sofferenze dei meno fortunati o dei più coglioni o scansafatiche? Comprensibili crisi di rigetto, e nulla più, per Bertelli. Non che fosse un cuore di pietra, un ultra-liberista propugnatore del darwinismo sociale, tutt’altro. Solo, egli non sapeva immaginare altra realtà economica oltre a quella che gli si imponeva nel suo farsi e ramificarsi e lo abbagliava con la sua necessità, e che risultava secondo lui foriera di benefici anche minimi per chiunque, alla fine anche per coloro che la rifiutavano e vi si opponevano con parole e atti inconsulti: tutti, tutti grufolavano soddisfatti alla greppia. Di questa ananke il Palazzo, che Bertelli vedeva profilarsi al termine del suo viaggio mattutino, subito dopo lo svincolo della tangenziale, era – nella sua personalissima mitopoiesi di contabile zelante – la sorgente, il motore immobile, l’Idea suprema.