Rita Siligato – Nel bene e nel male

Avevano perso Gianna già al quinto chilometro. Il percorso era molto asciutto, una strada bianca, ormai, ma il fondo era buono. Non c’erano al momento ciottoli sui quali si potesse scivolare. Ai lati, dietro le transenne, c’era una piccola folla che incitava e salutava le ragazze. Di concorrenti ce n’erano tantissime, come ad ogni partenza, ed erano ancora molto vicine alla città, allo stadio dal quale erano uscite in gruppo, con le scarpette da corsa già ben collaudate e il numero appiccicato sul petto.

La gente ai lati della strada aspettava di vedere una squalifica, era chiaro: ma da quello che Giulia ne sapeva, non era mai accaduto che qualcuna venisse squalificata già al quinto chilometro. Quegli astanti erano stati fortunati. 

Gianna era caduta, non si sa come, e i giudici l’avevano squalificata. Era rimasta al lato della strada, insanguinata, un fagotto che presto si sarebbe coperto di polvere bianca, al passaggio delle altre. I suoi capelli rossi luccicavano nel sole forte del pomeriggio inoltrato.

Non che non sapessero tutte di che cosa si trattava. La marcia sarebbe durata mesi, forse anni, ed erano preparate. La squalifica – quella cosa che ti rendeva immobile e morta al lato della strada – da alcune era considerata una sanzione eccessiva per una caduta. Gianna non era neppure caduta a terra. Tutte conoscevano il regolamento: se si toccava terra con il ginocchio – ne bastava uno – il giudice si sarebbe avvicinato con la pistola e avrebbe squalificato la concorrente. Secondo Giuditta, Gianna aveva sì sbandato, le sembrava di aver visto – ma non ne aveva le prove – che era stata sgambettata da Gloria. Chi conosceva Gloria dagli allenamenti sapeva che non era del tutto onesta. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per vincere la marcia. Ma al quinto chilometro, farsi squalificare subito, senza avere nei polmoni il fiato della corsa…

Giulia non guardava la strada o la gente. Vedeva con la coda dell’occhio le compagne: ne conosceva molte, e aveva le sue opinioni sulle contendenti. Andava veloce. Le era stato detto molte volte che non si parte scattando come ai cento metri, meglio andare al passo con le altre e tenersi nel gruppo, ci sono minori probabilità di venir squalificate o ammonite. Dopo tre ammonizioni si veniva squalificate. Ed essere ammonite di sicuro non era molto divertente. 

I giudici, invece, sembravano divertirsi: quello con il coltello in mano, poi, se la godeva un mondo, si vedeva. Sulla grossa motocicletta un po’ inclinata, bloccata dal cavalletto, a cavalcioni al posto del passeggero, il giudice di gara provava con il pollice la lama, guardando ora una, ora l’altra marciatrice. Le osservava come se cercasse la più grassa, quella sulla quale sarebbe stato divertente incidere il segno della prima ammonizione.

E la prima ammonizione fu per Giacinta, una bella ragazza bionda e formosa, che sembrava correre sui tacchi alti: Giulia le stava proprio ai talloni. Il giudice l’avvicinò, scendendo dalla moto per parlarle, e poi come per gioco le toccò il viso con il coltello, segnandole la guancia paffuta. Un filo di sangue gocciolò lungo il collo di Giacinta, giù giù fino alla scollatura della canottiera con il numero. Aveva il 1263, che ora aveva un apostrofo rosso tra l’uno e il due: Giacinta tentò di cancellarlo con le dita della mano destra, continuando a correre, attenta a non farsi ammonire di nuovo.

Non ci si poteva fermare. Era prevista una sosta a mezzogiorno, per mangiare qualcosa e andare al bagno. Un’ora dopo il tramonto c’era la seconda sosta, e si dormiva. Poi, all’alba del giorno dopo, si ripartiva. Alcune ragazze avevano un marsupio nel quale tenevano i cerotti antivescica e le barrette energetiche. Nessuno perquisiva i marsupi prima della partenza, ma mangiare durante la marcia prevedeva un’ammonizione grave, di quelle che ne valgono due, e si sa che perdere un occhio o una mano durante una marcia rende le cose molto più difficili per le concorrenti. Anche se, si vociferava, anni prima una ragazza era arrivata al traguardo senza un occhio e una mano, ma era una fortissima, un’oriunda. Nessuna ne ricordava il nome.

Giulia rallentò leggermente l’andatura. Correva ora vicino a una bella ragazza dalla pelle scura, che aveva visto qualche volta agli allenamenti finali, quelli che si fanno con le partecipanti che vengono da altre città e addirittura da altre nazioni. Portava il numero 156: questo significava che era veramente ben piazzata. Parlare tra concorrenti era tollerato, ma non ben visto: non erano previste sanzioni, anche perché, visto il numero altissimo delle partecipanti e la durata della marcia, sarebbe stato impossibile per i giudici un controllo così mirato.

“Ti chiami Gala, vero? Ti ho notata all’ultimo allenamento, corri molto bene.”

“Grazie. Scusa, non parlo benissimo la tua lingua. Tu sei?”

“Giulia.”

“Giulia, attenta al giudice. Ci guarda.”

Gala staccò la corsa e si allontanò di un metro. Giulia non riuscì neppure a ringraziarla a sua volta, e si ritrovò nel gruppo. Dovette stare attenta a non inciampare su una ragazza dai capelli cortissimi che era stata ammonita e ora piangeva, seduta a terra, attendendo la squalifica che arrivò, per fortuna, quando Giulia era già abbastanza distante da non essere colpita dal getto di sangue che le accarezzò le scarpette da corsa. Il tuono della pistola la rese sorda per un paio di minuti. Erano già al decimo chilometro. 

Le persone che si erano affollate lungo la strada avevano iniziato ad andare via. Al posto degli spettatori, ai due lati del percorso, a formare un sipario verde c’erano gli alberi: la luce stava scemando. Il gruppo era ormai in piena campagna e si sa che lì la marcia non viene pubblicizzata più che tanto. La marcia delle donne, poi, avveniva troppo di frequente per essere considerata un avvenimento. La partenza era qualcosa che attirava sempre molto pubblico, perché tutti i parenti venivano a salutare le ragazze che in futuro, ne erano ben consapevoli, non avrebbero mai più rivisto. Nel bene e nel male. Nessuna sarebbe tornata. Nel bene e nel male.

Nel bene e nel male, questo era il motto della marcia, e per Giulia era divenuto un mantra. Nel bene, lo sapeva, tutto sarebbe finito bene. Chi avesse vinto la marcia – e avrebbe potuto essere proprio lei, Giulia – avrebbe finalmente avuto uno status, si sarebbe sposata con l’uomo scelto dal giudice supremo, e se era fortunata, avrebbe anche potuto avere dei figli, e un cane, e una casa. Nel male, e anche questo le era molto chiaro, c’era la squalifica che toccava a tutte quelle che non sarebbero arrivate nello stadio della città lontanissima verso la quale erano dirette. Nel male, c’era anche la squalifica finale che avrebbe colpito tutte quelle che non si fossero classificate con un buon tempo. 

Per quelle che si fossero qualificate, il premio era la vita. Nel bene. Non ci sarebbero state più selezioni. Non avrebbero potuto sposarsi, ma era concessa loro la possibilità di avere dei figli, anche se non li avrebbero cresciuti. I figli sono una benedizione rara, e sarebbero stati dati in adozione agli uomini, per crescerli nel modo corretto, e le figlie non avrebbero mai corso una marcia. Mai. Così era stato promesso.

Per questo aumentò l’andatura. Tutte aumentarono l’andatura. Gigliola, Giada e Graziana la superarono con uno sberleffo. Giacinta le passò vicino, togliendosi dal polso un elastico rosa per legare i capelli biondi in un ciuffo, in cima alla testa, come una fontana luminosa. Il taglio sulla guancia era un tocco di rouge, ed anche le labbra sembravano più colorite. Sorridendo la lasciò passare e le disse: “Guarda che ti sfiati, l’allenatrice ce l’ha raccomandato, non sforzare”.

La luce era calata ancora. Faceva freddo, cominciò a piovere, ma la marcia non poteva fermarsi, non ancora. In aprile, negli ultimi giorni del mese, era normale che piovesse. Giulia si chiese se il tempo sarebbe stato più clemente per le ragazze il cui nome iniziava con la H – Helga, Hellen, Haidee – che sarebbero partite tra una settimana esatta. La settimana ancora seguente ci sarebbe stata la marcia delle ragazze con la I, ma di quelle conosceva solo Irene, fortissima, una grande fondista. 

La domenica successiva… sembrava lontanissima, e il suo gruppo, ormai decimato, avrebbe compiuto forse un meno di un dodicesimo del tragitto tra le due città. Il traguardo era lontano mesi, forse anni, e la strada era pulita. I giudici si preoccupavano di far rimuovere le squalificate prima della partenza del gruppo seguente. L’organizzazione era perfetta.

Continuando a correre, la sua mente volò ai modelli di abiti da sposa che aveva visto in una rivista nella soffitta della nonna. Ai tempi della nonna non c’erano le marce, lo sapeva perché se l’era fatto raccontare. E le sarebbe piaciuta una coroncina di fiori bianchi, come quelli che vide tra le erbacce inciampando e cadendo al lato della strada, ascoltando la musica dei piedi delle altre.