Roberto Cavosi – Gli oscuri bagnanti

È stato cercando il sapone nell’acqua, mentre mi lavavo nella vasca da bagno, che afferrai un polpaccio non mio. E adesso? Pensai. Vattene! Dissi d’impulso. Vattene via! Lo dissi urlando, spaventato a morte. Il cuore mi batteva forte, avrei quasi voluto non essere mai nato. Ripresi istericamente a urlare: Chi sei? Vattene via!  Ma quello non se ne andava. Sì, si divincolò per un attimo togliendo il polpaccio dalla mia mano, ma per prenderla immediatamente con la sua. Fui io allora a ritrarmi di scatto, sbattendo la testa sul muro di mattonelle dietro alla vasca. Dolorante e smarrito, in preda all’orrore, ripresi a urlare: Chi sei? Che cosa vuoi? Ma nulla, nessuna risposta. Certamente non poteva essere svanito né essere entrato nella vasca senza che io me ne accorgessi. Confuso balbettai le uniche parole che in quel frangente mi sembrarono degne di una mente razionale: Non ho denari, non ho nulla. Poi diedi una forte manata sull’acqua, non tanto perché volessi sembrare minaccioso ma perché volevo convincermi che quel polpaccio, quella mano, fossero soltanto il frutto della fantasia di un povero cieco. Ancora nulla. Finalmente è finita, pensai, ma in quell’istante il mio piede avvertì un altro piede. Cazzo! La confusione nella mia mente divenne assoluta: terrore, sgomento, raccapriccio e un senso lacerante di nausea. Ora sentivo anche il fiato pesante di quell’individuo, lo sciabordare leggero dell’acqua a ogni suo movimento. Ci conosciamo? Gli chiesi. Come unica risposta mi scagliò addosso la saponetta colpendomi sul petto e facendomi sobbalzare. Avrei potuto alzare nuovamente la voce nella speranza che quell’estraneo se ne andasse, rivendicando i miei diritti di legittimo e unico proprietario di quella casa e quindi di quella vasca. Ma ero schiacciato, incapace di qualsiasi reazione, mentre l’intruso sembrava perfettamente a suo agio, quasi io nemmeno esistessi. Ora mi ammazza, pensai. Ora una qualche lama mi aprirà un nuovo ombelico nello stomaco. Se mi devi uccidere, gli dissi allora con una voce tanto flebile quanto implorante, fallo subito. Sentii una mano che schiaffeggiava l’acqua più volte, meccanicamente.  Un rumore che io interpretai come una risata. Sì: una risata assurda e grottesca.  Purtroppo, con mio grande stupore a quella risata se ne aggiunse un’altra e un’altra ancora. Risate diverse una dall’altra, fatte da mani sicuramente di persone diverse. Da quando sono cieco, da quell’incidente in macchina, ho imparato perfettamente a distinguere ogni cosa dal suono. Se cade un giornale per terra ad esempio capisco quasi di che testata si tratti, o se qualcuno fischietta per strada riesco a raffigurarne corporatura, sesso e a volte anche il numero di scarpe. Quindi ora ne ero più che sicuro: tre risate, tre mani, tre persone diverse. Benissimo, dissi con voce che voleva essere sarcastica e allo stesso tempo sicura, avete preso la mia vasca da bagno per la piscina comunale? Non l’avessi mai detto: il più corpulento dei tre mi ficcò con la testa sott’acqua, mentre un altro si sedette sulle mie ginocchia. Ero completamente immobilizzato perché il terzo mi teneva i polsi frustrando definitivamente ogni mio tentativo di difesa. I secondi passavano nell’angoscia più nera. Quanto avrei potuto resistere con la testa sott’acqua senza respirare? Trenta, quaranta secondi? Un minuto al massimo. La prospettiva che avrei avuto solo un altro minuto di vita mi deprimeva più dei miei ultimi due Natali passati senza vista, senza lavoro, senza nessuno. È la fine, pensai. Ma inaspettatamente i tre mollarono la presa. Riemersi tossendo e sputando. Mi faceva anche un po’ schifo pensare di avere bevuto l’acqua dove si stavano lavando degli estranei. Volevo andarmene, schizzare fuori dalla vasca quando uno di loro mi afferrò per un braccio con fare quasi amichevole e un altro mi mise la saponetta in mano come a dirmi: “Rilassati coglione, lavati. Non sei qui per questo?” In effetti, volevo lavarmi. Cercai di sentirmi a mio agio, come un antico romano alle terme. Forse questi tre non sono degli assassini, mi raccontavo per farmi coraggio, forse vogliono semplicemente darmi un avvertimento e non è loro intenzione uccidermi. Magari vogliono solo stare nella mia vasca, e senza battute sarcastiche sul loro conto. La mia breve apnea aveva però lasciato il segno: i polmoni e la gola mi bruciavano come se quel po’ d’acqua bevuta fosse stata acqua ragia e a ogni respiro era come se qualcuno mi strofinasse la trachea con della carta vetrata. E pensare che quella sera l’acqua era calda proprio al punto giusto, come raramente capitava, e il vapore aveva quel non so che di soffice ed umido che avrebbe commosso anche il più duro degli uomini. Ma ecco salire nuovamente quell’agghiacciante sciabordio ridanciano. Leggero, poi sempre più forte, ancora di più, parossistico, insostenibile! Mi sembrava di essere la vittima di un quadro espressionista: un personaggino minuscolo e ignavo costretto a subire furibonde pennellate rosso sangue, costretto a reggere con le sue minuscole spalle tutto il peso di una prospettiva nemica e assassina. Era come se l’intero cosmo, premuto in un imbuto sulla mia testa, volesse schiacciarmi. No, non erano più soltanto tre quegli oscuri bagnanti, ma di più: almeno il doppio se non il triplo e c’era anche una donna, ne sono sicuro perché ho avvertito il suo sesso premermi sulla coscia. Strofinarsi. Ma non era piacevole, per niente. C’era qualche cosa di volgare, di violento, di cannibale. Dio mio, Dio onnipotente ed eterno, perché ho perso la vista, mi chiedevo, perché devo subire tutto questo? O è una condizione a cui tutti i ciechi devono sottostare? Troppi bagnanti in quella vasca, troppe mani, troppe ginocchia, troppa primitiva maleducazione, troppa promiscua intimità. Sentivo quei fiati, quelle carni, e in continuazione venivo buttato sott’acqua da quella folla, riemergevo e sgarbatamente, vigliaccamente venivo ricacciato sotto. Venni anche colpito da un pallone in piena faccia. È possibile? La mia mente non si dava pace: un pallone? Giocano, calpestandomi, facendomi quasi affogare? Nemmeno a Rimini a ferragosto si rischia così la propria vita. Che cos’è, una forma di tortura? Un nuovo gioco del terrore? Tentai nuovamente d’uscire dalla vasca, ma quelli afferrandomi alle caviglie, agli omeri, ai polsi mi ricacciarono in acqua. Bevevo e sputavo schiuma tra un’apnea e l’altra, quando il pallone mi finì tra le mani. Non sapevo che fare, se tenermelo stretto o restituirlo a quei trogloditi. Calò un silenzio di tomba. Ma come mi sentivo grande in quell’istante: strafottente, vincente, nuovamente padrone della mia vasca, di quella schiuma leggera e avvolgente che ancora aveva mantenuto integro il suo profumo di lavanda. I bagnanti, purtroppo, non si fecero attendere. Fu una donna a mettermi una mano dietro al collo, a stringerlo. Sentii i suoi seni premermi sulle spalle, e le lunghe unghie conficcarsi nella carne. Era una stretta che non ammetteva indugi e in tutta la sua fastidiosa immanenza mi spingeva a restituire il pallone. Il messaggio era chiaro: “Ridacci il pallone, testa di cazzo, o saranno guai!”. Uccidetemi, ma non vi darò mai più il pallone. Adesso è mio!!! Esclamai con tutto il mio coraggio. Sentii inondarmi la faccia da spruzzi d’un liquido caldo, puzzolente. Mi stavano pisciando addosso. Decine di spruzzi, forse di più. La loro urina era abbondante e marcia, con un odore così forte che avrebbe steso un maiale. A pisciata finita presero a battere le mani sull’acqua con un ritmo ben cadenzato, lugubre e minaccioso, come di battitori durante una caccia. In breve il battere divenne sempre più assordante, esagerato. In quello sciabordio insensato, mi balenò in mente l’unica cosa saggia da fare: togliere il tappo! Togliendo l’acqua anche quegli esseri immondi se ne sarebbero andati. Ma come togliere il tappo? Erano in troppi accalcati sopra lo scarico. Pensai allora di distrarli gettando il pallone fuori dalla vasca. Così feci, forse troppo avventatamente perché in un secondo venni coperto da una scarica di manate, pugni e calci. Venni ripetutamente messo sott’acqua e poi fatto risalire ma solo per essere pestato nuovamente. A sfregio venivo ficcato col viso nel culo di uno e poi di un altro, culi pelosi, sfatti e terrificanti, ani coperti di materia escrementizia. Il colmo però arrivò quando quella donna, se così si poteva chiamare, mi mise la sua lingua in bocca toccandomi nell’intimo. Fu una sensazione insopportabile, come se la lingua di un’animale mi penetrasse riempiendo tutto il mio corpo. Mi sembrò di morire mentre la sentivo divincolarsi su di me. Non so per quale miracolo ma a un certo punto, penso per la foga di uno o l’eccesso di zelo di un altro nel colpirmi, un idiota di quelli mi spinse sott’acqua schiacciandomi la faccia dritta sul tappo. Non persi l’occasione e afferrandolo con i denti lo tolsi. L’acqua cominciò immediatamente a gorgogliare veloce dentro lo scarico. Quegli uomini di Neanderthal tra mille scomposte manate cercavano di sottrarsi al vortice che, Vivaddio, uno a uno li stava inghiottendo. Vittoria! Sentivo ritornarmi le forze, la speranza. Il mio piano stava funzionando: ancora un paio di quegli umanoidi dentro il vortice e finalmente sarei uscito trionfante dalla vasca. L’ultimo, disperato, mi si aggrappò al polpaccio. Mi divincolai, feci resistenza. Le mie forze stavano venendo meno quando, grazie al cielo, con l’ultimo goccio d’acqua anche l’ultimo di quegli oscuri bagnanti, lasciata la presa, svanì nello scarico. Il tappo! Esclamai a voce alta. Il tappo, perché non pensarci prima? Ma non era certo il momento delle recriminazioni e uscito dalla vasca mi sforzai di pensare solo alla cena che mi aspettava: lasagne al forno e budino. Apparecchiai la tavola con la massima dovizia, posizionando le posate nemmeno fossero reliquie di santi. Che meraviglia le lasagne e quel budino dal caramello dolce e abbrustolito al punto giusto. Rinfrancato e senza più cattivi pensieri a turbarmi, mi preparai per andare a dormire. Misi un pigiama nuovo respirando la fragranza tipica del bucato appena fatto. Oserei dire felice, m’infilai sotto le coperte. Ripensai a quel caramello sublime mentre sentivo il mio corpo abbandonarsi al sonno. Non so perché allungai la gamba verso un’estremità remota del letto, verso un angolino che non avevo mai esplorato più di tanto e quando con cautela tastai qua e là con il piede ne avvertii un altro sicuramente non mio. Cazzo…