Serena Patrignanelli: un estratto da “La fine dell’estate”

Serena Patrignanelli ha ricevuto una menzione speciale della giuria nella XXX edizione del Premio Calvino

Ma non succedeva niente

-Lasciamoli dormire – disse Semiramide, uscì e si diresse verso il corridoio…

Semiramide raggiunse la stanza dei genitori di Augusto ed entrò lasciando la porta aperta, perché Augusto la seguisse, poggiò la candela sul comodino e si sistemò sul letto. Poggiò la schiena alla testiera del letto e distese le gambe sul materasso, aspettando che Augusto facesse lo stesso.

Se fosse stato appena più grande, se avesse avuto anche solo un anno, o magari pochi mesi in più, Augusto sarebbe stato spaventato…

– E questo lo sai fare? – stava dicendo Augusto, non riuscendo a gestire molto bene l’imbarazzo, se restava zitto e fermo.

– Questo cosa?

Augusto aveva la bocca aperta e Semiramide lo guardava. – Arrotolo la lingua. Guarda.

– No che non l’arrotoli. Io l’arrotolo.

Semiramide aprì la bocca e gli mostrò quello che Augusto credeva di aver appena fatto, e non aveva fatto.

– Ah. Ma mi sembrava che ero capace. Così? – Riprovò e Semiramide guardò di nuovo, con molta attenzione. Poi scosse la testa. – No.

– Allora guarda questo – Augusto piegò il pollice destro all’indietro, fino quasi a toccare il polso con l’unghia…

– Hai sonno? – Chiese Semiramide.

– Sì. Un po’. No.

Semiramide rise, poi si voltò verso il comodino e spense la candela. La stanza piombò nel buio e Augusto strinse il lenzuolo per sentire che era tutto a posto – era tutto a posto, non era quel tipo di buio, si distinguevano le forme più chiare e la voce di Semiramide lo aiutava a recuperare la posizione relativa delle cose nella stanza. – Io un po’ di sonno ce l’ho, comunque. Forse dobbiamo dormire.

– Subito?

– Quando ci viene.

Augusto provò a chiudere gli occhi, e ascoltò per un po’ il rumore di tessuti che frusciavano, il rumore lo incuriosì tanto che li riaprì e si voltò a guardare Semiramide, con tutta l’innocenza a cui la sua età lo condannava, e si accorse che si era spogliata quasi completamente, portava solo le mutande.

Augusto la vide con una chiarezza con cui mai più, nella sua vita, avrebbe potuto osservare un corpo femminile, distratto come sarebbe stato di lì in poi dall’eccitazione, dall’ansia, dal desiderio che adesso erano solo una massa informe nella sua pancia, una massa addormentata e inoffensiva, una massa di niente: sentiva solo uno strano calore, una certa paura e molta felicità…

Vedeva il bianco della sua pelle, della pancia, soprattutto: era la pancia più bianca che avesse mai visto, e guardandola si condannava a connettere per sempre l’idea del bianco con il ricordo di Semiramide. Poi vide le forme. I fianchi strettissimi, le ossa delle anche sporgenti e spigolose. Vide la pelle concava della pancia oltre l’elastico delle mutande. Vide le braccia che ora gli parevano lunghissime, strette, le dita affusolate che le prolungavano. Vide il seno, che non c’era, i capezzoli minuscoli e appena più scuri del resto. La forma piana delle ginocchia, le cosce che ancora non articolavano curve, non c’era niente di morbido, nel suo corpo, di accogliente o confidenziale. Vide i capelli appiccicati alla pelle, sul collo, sulla clavicola e sulle spalle, spruzzate di lentiggini appena percettibili e rare. E alla fine tornò a guardarle la pancia, non riusciva a smettere di guardarla, era così bianca, così chiara che sembrava restituire alla stanza un po’ di luce. Senza pensarci troppo, sentendo vagamente che quello era un gesto di educazione nei suoi confronti, anche lui si tolse la maglia e i pantaloncini, cercando di concentrare lo sguardo sui suoi vestiti e sulle sue azioni, e senza trovarla una sola volta, quando tornava a voltarsi verso di lei, distratta a guardare altrove.

Semiramide sollevò il lenzuolo e si infilò sotto, facendo scivolare il suo vestitino sul pavimento, ai piedi del letto…

Il respiro di Semiramide faceva un rumore preciso, segnalando un ritmo a cui Augusto si accordò immediatamente, e che lo costrinse a riaprire gli occhi perché sentiva il calore dell’aria che i loro vicinissimi nasi soffiavano l’uno sulle labbra dell’altro, una cosa così intima da provocargli uno strano disagio che non comprendeva del tutto e che in quel momento, non qualche mese più tardi, gli sembrò quasi un fastidio. C’era qualcosa che mancava, in quella vicinanza. Augusto non sapeva cosa fosse, ma appena chiudeva gli occhi i pochissimi centimetri che lo separavano da Semiramide ricominciavano a tormentarlo e lo costringevano a riaprirli. Successe una volta, due, tre, decine e decine di volte.

Al mattino si sarebbe svegliato spossato… ma al mattino mancavano ancora molte ore. Adesso non poteva preoccuparsene, Augusto, di quello che sarebbe cambiato – o che non sarebbe cambiato affatto – dopo quella notte, o del sonno che prima o poi avrebbe dovuto recuperare.

Per ora se ne stava solo sdraiato accanto a lei, avendo persino dimenticato che erano quasi nudi entrambi, chiedendosi com’era possibile che l’aria riuscisse a passare e quanto potessero avvicinarsi ancora se c’era, come c’era, quel muro invisibile che li aveva divisi e li divideva e avrebbe continuato a dividerli, a quanto pareva, per sempre.