Donata Meneghelli – Il valore degli oggetti. Segni, spoglie, scarti nel romanzo dell’Ottocento

Donata Meneghelli
IL VALORE DEGLI OGGETTI
Segni, spoglie, scarti nel romanzo dell’Ottocento
pp. 281, € 19,
Nottetempo, Milano 2024

La nostalgia di una presenza

Chi si affeziona ai vestiti o chi ha portato almeno una volta una vecchia cintura di pelle fino a che non è caduta in pezzi scoprirà sempre che a un certo punto, nel corso del tempo, vi si è sedimentata una storia. Si sottovaluta, in generale, il significato delle cose per il racconto. Gli uomini trasmettono storie, ma le cose – così pare talvolta – sono la casa in cui esse abitano”. In questo pensiero, tratto dall’appendice al saggio sul Narratore, Walter Benjamin, il grande fisionomista della modernità, individua nella materialità la dimora della narrazione. Volendo sviluppare, attualizzando, le implicazioni di questa riflessione, si dovrebbe inferirne che, nell’attuale regime delle “non cose” (Byung-Chul Han), il racconto è senza fissa dimora? Da questa constatazione prende le mosse l’ultimo romanzo di Michele Mari, Locus desperatus (Einaudi, 2024), che è una perturbante elegia sulla sparizione del mondo materiale, e insieme un’ansiosa interrogazione sui destini della letteratura: a un certo punto del racconto i libri del protagonista, colpiti dalla sentenza di esproprio che grava su tutto ciò che gli appartiene, non soltanto si cancellano dalla sua memoria, bensì diventano addirittura fisicamente illeggibili, le loro sequenze alfabetiche si scombinano sulla pagina in stringhe sconnesse.

Il romanzo ottocentesco, interprete della modernità “pesante”, parrebbe al riparo da questi pericoli. “Ma l’Ottocento è veramente il regno oggettuale oggi scomparso?”, si chiede Donata Meneghelli all’inizio di Il valore degli oggetti. Segni, spoglie, scarti nel romanzo dell’Ottocento. Le interminabili liste di oggetti e qualità sensibili che affollano le pagine di Balzac e degli altri narratori del xix secolo sembrerebbero indirizzare verso una risposta perentoriamente affermativa; non fosse che – come, sulla scorta di Marx, avverte l’autrice – “il valore di scambio e l’affermarsi della forma-merce, consustanziali all’avvento del capitalismo, costituiscono un attacco brutale sferrato alla materialità sensibile degli oggetti”. Davvero il romanzo ottocentesco celebra euforicamente il culto della materialità? o non è forse immalinconito, come il presente, da una segreta “nostalgia della presenza”?

Negli studi di letterature comparate e teoria della letteratura, ai quali è dedicata la collana “Extrema Ratio” al cui interno compare il libro di Meneghelli, l’interesse verso la materialità precede e accompagna l’attuale material turn” nel campo delle scienze umane e sociali, specie nelle opere in lingua italiana. Basti pensare a un classico come Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti di Francesco Orlando (Einaudi, 1993); o, più di recente, a Feticci. Letteratura, cinema, arti visive di Massimo Fusillo (il Mulino, 2012). Nel primo caso lo scrittore, specie quello del xix e xx secolo, è un baudelairiano-benjaminiano chiffonier, intento a comporre pietosamente le spoglie di un passato impaludatosi nelle golene del cosiddetto progresso storico. Nel caso di Fusillo, invece, lo scrittore (e il regista cinematografico, e l’artista visivo) è uno sciamano impegnato a performare l’animazione o rianimazione dell’inorganico attraverso l’ibridazione tra i regni e le specie. Argomentando dal canto suo contro quella che Eduardo Kohn ha chiamato “analitica della mescolanza”, e a favore dell’inaggirabilità della dicotomia tra soggetto e oggetto, Meneghelli si sforza “di coglierne i momenti di rischio, i punti in cui il testo letterario la incrina, la interroga, la disorienta o la sposta, talvolta finge di sospenderla”. Nei casi di studio analizzati (Illusioni perdute di Honoré de Balzac, Principessa Casamassima di Henry James e Il nostro comune amico di Charles Dickens) emerge l’attenzione per oggetti non necessariamente desueti (la moda, anzitutto, che, come già intuito da Leopardi, è spinta in avanti da un’impazzita fuga dalla caducità) e senza l’ambizione frankensteiniana di animazione della materia: al più, in quelle pagine si avverte la nostalgia di una presenza.

In questa chiave, Il valore degli oggetti si propone come un’archeologia del contemporaneo, intesa, con Michel Foucault e con Giorgio Agamben, come ricerca mirante a identificare non già un’origine nella quale siano contenuti tutti gli sviluppi successivi, bensì un’alterazione passibile, da un lato, di ulteriori alterazioni, dall’altro contenente virtualità non attualizzate negli sviluppi successivi. Negli “oggetti-tempo” di Balzac si materializza “un passato prossimo già minacciato dalla velocità inedita con cui la modernità trasforma le vestigia della vita materiale, un ritmo in cui il nuovo soppianta incessantemente il vecchio, lo copre e lo cancella”; la tipologia di temporalità che, in un libro dello stesso editore, contenente una tra le più folgoranti letture del contemporaneo (Benares. Atlante del xxi secolo di Paulo Barone, 2019), è attribuita alle “cose che ancora sul punto di avvenire si ritrovano a essere di colpo l’avanzo, o l’eco, di quello che sono state”: le nostre cose, “oggetti-scarto”, che, facendo leva sull’ambiguità del termine dickensiano dust (“rifiuto” e “materiale polverizzato”) e appoggiandosi alla geologia dei media di Jussi Parikka, l’autrice proietta sulla “nuova materialità, diversa da quella che ha segnato la ‘modernità pesante’, che si poteva vedere, toccare, che ingombrava lo spazio”. In ciò, la materialità polverizzata dei sobborghi di Dickens prefigura con maggiore precisione gli oggetti del contemporaneo di quella, voluminosa, dei rifiuti che assediano la Leonia di Italo Calvino.

Resta da comprendere se e in che misura i romanzieri dell’Ottocento, mettendo in scena la nostalgia delle cose, abbiano voluto altresì rappresentare la nostalgia della loro casa, il racconto inteso, con Benjamin, come “capacità di scambiare esperienze”. Ma sarebbe chiedere troppo a una lucida indagine di storia culturale attraverso la letteratura, che è al tempo stesso una raffinata pagina di teoria letteraria.

marco.maggi@usi.ch
Maggi insegna letterature comparate e teoria della letteratura all’Università della Svizzera italiana

Dai manufatti alle merci, e agli scarti

di Renata Ago

Il valore degli oggetti. Segni, spoglie, scarti di Donata Meneghelli discute della presenza e del ruolo dei manufatti in tre romanzi dell’Ottocento. Gli autori – Balzac, James e Dickens – sono tra i più grandi dell’epoca e il loro sguardo sulle cose illustra tre diversi possibili modi di valutarle, farle interagire con le persone umane e anche tra loro. Il contesto in cui i tre romanzi sono ambientati è quello ottocentesco della crescita esponenziale dei manufatti e della loro trasformazione in merce, in valore di scambio. A questa evoluzione gli oggetti sono tuttavia in grado di opporre una resistenza e salvaguardare un proprio valore alternativo. In Le illusioni perdute di Balzac gli arredi e soprattutto gli abiti, descritti minuziosamente nelle loro forme e sostanze, sono in grado di connotare efficacemente i vari personaggi, di parlare per loro, sia all’interno del romanzo sia all’esterno, rispetto a noi che leggiamo. Ma questa sovraesposizione dell’apparire non è certo una novità, perché è almeno dall’inizio del Settecento che in Francia circolano abbondantemente tessuti più o meno pregiati prodotti dalle manifatture nazionali o importati dall’Oriente, via Amsterdam o Londra, come ha mostrato la storiografia sui consumi. D’altronde, sono proprio i manufatti indiani e cinesi ad aver stimolato le industrie tessili inglesi e averle spinte ad adottare quelle innovazioni tecnologiche che avrebbero innescato la rivoluzione industriale. Anche l’idea che gli elenchi di oggetti cui Balzac ricorre quando descrive soprattutto la mobilia, eliminando la sintassi, finiscano per eliminare la materialità stessa delle cose è in contrasto con quanto emerge dalla ricerca storica. I libri dei conti o gli inventari dei beni, in cui il massimo di sintassi che è dato trovare è costituito da un complemento di materia (di velluto, di noce …) o di fine (per far questo o quello), non di rado mostrano una tale attenzione per gli oggetti elencati da lasciar trapelare quanto fossero cari a chi li aveva comprati o utilizzati per anni.

Se la materialità degli oggetti e la loro capacità di parlare per gli umani che li possiedono e li usano connota questo primo romanzo, in Principessa Casamassima di Henry James è il ruolo dei manufatti di lusso a diventare protagonista e a innescare una particolare lotta di classe. Anche se qui è particolarmente esasperato, questo è un tema ricorrente in James, che volentieri contrappone il lusso antico delle élite europee ai più semplici costumi americani ed è difficile vedere la connessione tra queste “spoglie” di una guerra contro i poveri e la materialità che contraddistingue gli elegantoni parigini, anche i più raffinati, come la sofisticata salonnière madame d’Espard. Sono due modi di intendere e rappresentare gli oggetti che non necessariamente dialogano tra loro.

Il nostro comune amico di Dickens, infine, sono le cose al termine della loro esistenza, quando si trasformano in “scarti”, rifiuti, polvere addirittura, a sostenere la trama del racconto. L’umorismo nero dell’autore gioca magistralmente con tutto ciò, e qui ritorna quella capacità connotativa degli oggetti perché ogni personaggio, soprattutto quando è negativo – l’imprenditore dei rifiuti, il truffatore con una gamba sola, il tassidermista, il raccoglitore di cadaveri nel Tamigi, i nuovi ricchi –, è definito dal suo rapporto con essi. Allo stesso tempo il disordine, l’impossibilità di introdurre un qualsivoglia principio di classificazione, che è l’essenza stessa di quelle montagnole di rifiuti, che tuttavia si sono tradotti in ricchezza, finisce spesso per valere anche per la società degli uomini. È questo un terzo modo di intendere e rappresentare gli oggetti per come emergono dalla grande narrativa ottocentesca ed è merito di questo libro che, è bene ricordarlo, è un saggio di critica letteraria e non di storia, averlo portato alla nostra attenzione.

renata.ago@uniroma1.it
Ago ha insegnato storia moderna all’Università La Sapienza di Roma

La suggestione del concreto come esorcismo

di Luigi Marfè

In una delle poesie di Elogio de la sombra (Elogio dell’ombra, 1969), intitolata Las cosas (Le cose), Jorge Luis Borges si interroga sull’esistenza degli oggetti oltre la vita dei loro proprietari: le cose, sembrano suggerire i versi dello scrittore argentino, hanno una durata che non coincide con quella degli uomini, ma nella loro finitudine implicano un rapporto con il tempo non meno conflittuale di quello di chi li possiede. D’altra parte, l’opposizione tra animato e inanimato, organico e inorganico, pare sempre meno adatta all’esperienza contemporanea e, mai come negli ultimi anni, il dibattito critico si è concentrato, nell’ambito delle scienze umane, sulla natura degli oggetti. Da tempo si parla, in questo senso, di “thing theory” e “dust theory”, ambiti che riflettono sulla natura delle cose e la loro autonomia. Non si tratta, in verità, di insistere su ciò che è escluso dall’orizzonte degli sguardi, quanto semmai di intendere la relazione con l’umano come un’occasione per una reciproca rinegoziazione identitaria. La nozione di “oggetto”, reificato nella sua datità, è stata talora contrapposta a quella di “cosa”, termine che aprirebbe allo spazio immaginario di un’alterità potenziale. La peculiarità starebbe allora proprio nel rapporto di interdipendenza con chi osserva, in un’attribuzione dinamica di valore che non riguarda solo l’immediata spendibilità economica, ma la profondità simbolica e le risonanze emotive che ne scaturiscono.

Il valore degli oggetti di Donata Meneghelli è un saggio che si interroga sulla presenza degli oggetti nella tradizione narrativa dell’Ottocento, per delineare un’archeologia letteraria dell’odierno rapporto tra gli uomini e le cose. I casi di studio affrontati nel testo includono alcuni passi di Illusioni perdute di Honoré de Balzac, Il nostro comune amico di Charles Dickens, e Principessa Casamassima di Henry James: tre testi paradigmatici per comprendere le forme della rappresentazione degli oggetti e la loro circolazione nell’immaginario sociale. Nel delineare il “sistema degli oggetti” di Balzac, in particolare, Meneghelli riflette sulla differenza tra l’“oggetto segno”, che sempre significa altro da sé, e in questo modo si fa indizio di una specifica configurazione sociale, e l’“oggetto tempo”, materia fragile e transitoria che viceversa si limita a esprimere, nel suo lento cedere al divenire, la pura presenza. Gli oggetti sono gli elementi primi di una “materialità semiotizzata”, che instaura uno specifico “regime di rappresentazione” delle relazioni sociali e dei rapporti di forza in esse implicati. È proprio negli oggetti, ad esempio, che per James si ipostatizza la percezione del prestigio, sulla base di una paradossale aura del vicino: il patrimonio configura infatti le spoglie di una cultura, e insieme ne rivela le contraddizioni profonde, in cui persino il presente finisce per essere storia. Si può dire in questo senso che Dickens porti all’estremo la tendenza, già presente nella narrativa balzachiana, all’evocazione di rovine: nelle sue pagine si accumula, con furia minuziosa, talvolta in liste di eterogenei, un ciarpame di scarti, esposti a un inesorabile processo di erosione: “materia scaduta” che vanamente resiste alla distruzione, prendendo tempo, fino a restare sola con il suo ingombro.

La “suggestione del concreto”, per riprendere Theodor W. Adorno, è una sorta di “esorcismo”, una reazione contro l’accelerazione disumanizzante della modernità. In questo congiurare contro la pura referenzialità, non di rado il romanzo dell’Ottocento si concentra su oggetti diversi dagli altri, come i rifiuti, “materia fuori posto” che si nega a qualsiasi collocazione, e pertanto è sorella di un altro scarto: il cadavere, rovina della vita umana. Oppure i testi scritti, oggetti di rappresentazione del reale e insieme presenze concrete, che si costituiscono come mediatori di un’“esistenza tipografica”, volta a far durare, almeno sulla pagina, ciò che altrimenti, nel mondo, sarebbe condannato all’oblio.

luigi.marfe@unipd.it
Marfè insegna critica letteraria e letterature comparate all’Università di Padova