Éric Lambé e Philippe de Pierpont – Paesaggio dopo la battaglia

Un bellissimo mostro a due teste

recensione di Erik Balzaretti

dal numero di aprile 2018

Éric Lambé e Philippe de Pierpont
PAESAGGIO DOPO LA BATTAGLIA
ed. orig. 2017, trad. dal francese di Emanuelle Caillat
pp. 420, € 25
Coconino – Fandango, Roma 2017

Éric Lambé e Philippe de Pierpont - Paesaggio dopo la battagliaVincitore del premio più ambito ad Angoulême, capitale del fumetto internazionale, nel 2017, amato a dismisura dalla critica e meno amato dal pubblico italiano, Paesaggio dopo la battaglia è una narrazione visiva che non può lasciare indifferenti. L’approccio che i due autori mettono in atto nel raccontare una storia di dolore, lutto e marginalità è quello della continua forzatura di un media come il racconto sequenziale che per quanto elastico e antinaturalistico fatica ancora a vivere di sole emozioni, silenzi, sguardi, intervalli. Lo svolgersi delle azioni diventano quindi le fragili impalcature di un percorso auspicabile per quanto prevedibile. Per quanto non sia di facile lettura sia per la lunghezza sia per il ritmo cadenzato lento e il montaggio visivo che indulge sul dettaglio, a cui bisogna unire un design grafico digitale minimalista, al limite del metafisico nella stilizzazione delle forme, e la scelta della mezzatinta in cui le poche incursioni del colore richiamano il virato espressivo delle pellicole del cinema muto, i due artisti francesi hanno seguito l’idea che potesse esistere una tipologia di graphic novel capace di narrare con il linguaggio della poesia e con la volontà visiva dell’astrazione. Queste scelte autoriali hanno l’indubbia capacità di essere coerenti e sorprendentemente adatte per il plot narrativo ma al tempo stesso risultano di non facile assimilazione per il lettore medio. Quello che voglio dire è che le stesse motivazioni, storia, ritmo, scelte grafiche che potenzialmente spingono a ritenerlo un capolavoro possono con altrettanta facilità spingerci a non intraprenderne la lettura.

L’aspetto stilistico, il come si racconta, è dunque prevalente sul cosa si racconta, che in questo caso sono i tormenti del conscio e dell’inconscio. Una donna arriva solitaria, in inverno, descritta solo da un’allusione musicale, in un camping di roulotte abitato da una coppia e due singoli maschi, tutti looser e tutti in qualche modo malati nell’anima e nella mente. La donna porta con sé un segreto doloroso che non è grado di condividere ma che viene svelato al lettore abbastanza presto. Come scelgono di raccontare questa storia tutta psicologica Lambé e de Pierpont avendo tra le mani un mezzo che non è il cinema o la letteratura o la poesia? La scelta ricade su un approccio psicoanalitico tutto da tradurre in chiave graphic novel. Se Lacan ha dichiarato che il sintomo è una metafora, ecco allora che il racconto della malattia e della cura della giovane donna di nome Fany diventa un susseguirsi di metafore, sineddochi, metonimie, allusioni visive e metamorfosi delle forme che, insieme ad un onirismo sessuale simbolico, anch’esso sintomatico e dichiarato, si alterna tra la realtà presunta del simbolo e la realtà psicologica del sintomo. La trasposizione tra l’idea lacaniana di una psicoanalisi delle parole a quella allegorica delle immagini e delle forme fa transitare questa graphic novel più verso la costruzione di un road movie del simbolico, alla ricerca un percorso di guarigione, che non una semplice narrazione poetica per immagini. Perfino l’esperienza del tranfert, con la citazione di una storia emblematica come l’avventura di Sherazad in Le Mille e una Notte, permette l’evidenziarsi del passaggio tra simbolico e corpo, realtà del dolore e sua accettazione. Non è dunque un caso se echeggiano nella narrazione temi e toni della tragedia greca tanto cara alla psicoanalisi. Una strada, costruita sulla scommessa di rappresentare plasticamente l’inconscio attraverso l’immagine metaforica del sintomo, ma è chiaro che questo modello narrativo, così fortemente influenzato dalle teorie lacaniane, se da un lato permette di rivitalizzare e spettacolizzare uno storytelling volutamente spoglio ma ricco di eventi, dall’altro costringe il lettore a confrontarsi ad libitum con un simbolismo metaforico che, per lunghi tratti, sovrasta la narrazione e le scelte visive in un gioco totalizzante.

Ben lungi da una ricerca di una forma visiva e di montaggio autonoma, Paesaggio dopo la battaglia, titolo anch’esso volutamente metaforico, è una summa di scelte stilistiche del migliore cinema internazionale. I primi piani e le riprese delle schiene dei personaggi prese dall’espressionismo tedesco, i silenzi incomunicabili di Antonioni, la ricerca del reale e dello psicologico e le atmosfere costruite con l’innesto del dettaglio significante della Nouvelle Vague, i campi lunghi, i doppi e i doppi finali di Kiarostami, gli spaesamenti e i contrasti di Wenders e il “pensiero agonico” visuale di The Tree of Life di Malick… Venendo accolto come un capolavoro capace di spingere il mezzo oltre i propri limiti. Se questo può essere vero, non lo è per una rinnovata capacità di sperimentazione dell’antinaturalismo insito nel media fumetto ma per la capacità di recepire modelli di storytelling e di rappresentazione visiva diversi e già sperimentati, cercando l’equilibrio narrativo all’interno del processo di ibridazione. Anche i mostri a due teste possono essere bellissimi.

erik.balzaretti@libero.it

E Balzaretti è storico dell’illustrazione