Gian Marco Griffi – Ferrovie del Messico

Immaginario d’importazione

di Antonio Galetta

Gian Marco Griffi
Ferrovie del Messico

pp. 816, € 22,
Laurana, Milano 2022

La modernità letteraria occidentale, tra i suoi esiti più notevoli, conosce una forma narrativa piuttosto rara nella letteratura italiana: Italo Calvino l’ha chiamata “iper-romanzo”, Franco Moretti “opera mondo”, Stefano Ercolino “romanzo massimalista”. Che cos’è? Ragionando sulla linea Goethe-Musil-Proust-Gadda-Perec, Calvino risponde: un romanzo che sa “tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo” (Lezioni americane, Garzanti, 1988). Proprio in questa sfaccettata tradizione sembrerebbe rientrare Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, editato e infaticabilmente promosso da Giulio Mozzi, libro dell’anno 2022 per Fahrenheit di Rai Radio 3. Questo, almeno, è quanto suggerisce esplicitamente la Postfazione di Marco Drago (Il romanzo enciclopedico); questo si sente ripetere qui e là nella ricezione. Ma è davvero così?

Partiamo dalla trama. Cesco Magetti, ventiduenne soldato repubblichino di Asti, nel 1944 riceve un compito assurdo: disegnare la mappa delle ferrovie messicane. Cesco non sa che la mappa serve a trovare una misteriosa arma capace di far trionfare i nazisti, ma obbedendo intraprende diverse avventure: incontra Tilde, bibliotecaria di cui si innamora; sosta presso l’abitazione di Lito e Mec, grotteschi becchini ed ex-avventurieri in America Latina; visita Edmondo Bo, poeta, e una sorta di Don Ferrante 2.0; incontra Ettore e Nicolao, due ambigui partigiani; si rifugia da Don Tiberio, un prete che si rifiuta di celebrare messa. Cesco è un picaro con tendenze regressive, metà inetto novecentesco e metà giovane-in-formazione, ingenuo ma all’occorrenza coraggioso. La sua vicenda è intrecciata a diverse sottotrame in un montaggio molto attento, la cui notevole resa affabulatoria ammette – sorvegliandoli in favore della leggibilità – salti temporali, dislocazioni spaziali, cambi di narratore. I principali modelli di Griffi, dichiarati tramite omaggi vistosi, sono infatti Thomas Pynchon e Roberto Bolaño, i quali a propria volta implicano tutta una serie di contaminazioni poetiche e di immaginario, da Joyce a Kafka, da Borges a Cortázar. Il porsi in continuità con questi autori rivela di per sé grande ambizione. Ma, se lo si accosta a L’arcobaleno della gravità o a I detective selvaggiFerrovie del Messico pare accontentarsi di un uso depotenziato e a tratti manieristico dei propri modelli: da un lato, con meritoria apertura di orizzonti, Griffi rielabora temi, dispositivi e tratti stilistici del postmodernismo anglosassone e del realismo magico sudamericano; dall’altro sembra non saperne o non volerne recepire i tratti più complessi e perturbanti. Gli manca, per esempio, una padronanza tecnica approfondita di saperi non umanistici, così che il suo enciclopedismo difetta radicalmente di specialismo (vedi la fabbrica di vernici). I suoi personaggi negativi appaiono improntati a una troppo farsesca stupidità e a una meschinità troppo unilaterale (vedi la partita a golf dei nazisti). Il suo pluristilismo è più un divertissement che una pregnante mescolanza di codici e registri diversi. Il suo citazionismo è più un inside joke autoreferenziale che un plastico attraversamento delle opere altrui. La varietà geografica degli spazi rappresentati scade spesso nel facile esotismo.

A fronte di analogie superficiali, tra Ferrovie del Messico e i suoi modelli ci sono differenze decisive. La più grande si colloca sul versante ideologico e riguarda il rapporto biopolitico tra individuo e storia collettiva: lungi dal complicare in senso tragico o paranoico questo nodo cruciale, in Griffi la salvaguardia della sfera privata risulta sempre prioritaria rispetto alla presa di posizione di fronte alle forze storiche oggettive; lungi dal dar voce – anche solo per negarli – a punti di vista marginali e istanze progressiste, in Ferrovie del Messico trovano spazio un’apologia dell’autorità e un giudizio negativo sulle masse popolari (“Le autorità … rappresentano la risposta alla mediocrità (dell’uomo comune), altrimenti non starebbero lì a esercitare il loro potere”).

Naturalmente, il problema non è una sorta di lesa maestà: i modelli sono fertili proprio quando vengono travisati, traditi, rivolti contro sé stessi. Il problema, semmai, è che i modelli andrebbero travisati con radicalità, traditi spietatamente, reinventati con coraggio, mentre Ferrovie del Messico appare bloccato tra l’imitazione manieristica di modelli complessi e l’innesto, su quei modelli, di una convenzionalità reader friendly che rischia di disinnescare l’ipertrofia e l’esplosività connaturate a questo tipo di romanzi.

Se Ferrovie del Messico è un romanzo massimalista (o un iper-romanzo, o un’opera mondo), allora occorre prendere atto che questo modo di narrare non ha potuto arrivare in Italia che fortemente normalizzato da filtri riconoscibili: su tutti, le convenzioni stilistico-formali delle scuole di scrittura creativa e l’individualismo liberale spacciato per senso comune. Ferrovie del Messico è uno dei romanzi più ambiziosi pubblicati in Italia negli ultimi anni, ma è anche la versione depotenziata di un immaginario d’importazione. Per questo non può essere considerato un punto d’arrivo: è semmai una partenza, come tale degna di celebrazione, sì, ma più che perfettibile. Griffi e Mozzi, muovendo da un’ispirazione precisa e originale, sembrano essersi preoccupati più di mantenere sempre ben visibili i dispositivi drammatici e di costruire un congegno dall’affabulazione inesorabile che di assecondare fino in fondo la conflagrazione impensata di un discorso narrativo irriducibile alla linearità.

antonio.galetta21@gmail.com
A. Galetta è dottorando in studi italianistici all’Università di Pisa