Dentro l’immagine – Intervista a David Wiesner

Volevo raccontare storie per immagini

Prosegue con l’intervista a David Wiesner la collaborazione dell’Indice dei Libri del Mese con Libri Calzelunghe,  rivista web dedicata alla letteratura per bambini e ragazzi, nata nella primavera del 2016 da un progetto collettivo voluto da 14 professionisti del settore – blogger, librai, editor – per parlare di letteratura per l’infanzia con professionalità e competenza. Per l’Indice seguiranno i festival e i grandi eventi dedicati alla letteratura per ragazzi.

intervista di Barbara Servidori – Libricalzelunghe.it

Per i compagni di scuola, era il “ragazzino che sapeva disegnare”. Per tutto il mondo, oggi David Wiesner è uno dei più amati e sofisticati autori di picture book, acclamato vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali. Nato negli Stati Uniti nel 1956, ha vinto per tre volte la Caldecott Medal (con Tuesday nel 1992, Three Pigs nel 2002 e Flotsam nel 2007), per tre volte la Caldecott Honor (con Free Fall nel 1989, Sector 7 nel 2000 e Mr. Wuffles! – l’italiano Mr Ubik! – nel 2014) e il Bologna Digital Award nel 2015 per la app Spot.

Lo incontriamo in occasione di BilBOlBul, il festival internazionale di fumetto che, nell’ambito dei festeggiamenti della decima edizione, regala al pubblico di appassionati la prima personale di Wiesner in Italia, con esposte in anteprima le tavole di Fish Girl, primo fumetto – ancora inedito – dell’artista americano (Cineteca di Bologna, fino al 27 gennaio 2017). Accanto a noi, sul tavolino di una delle sale sotterranee di Salaborsa Ragazzi, sono le opere di Wiesner tradotte in italiano: Art e Max (Il Castoro, 2011), Mr Ubik! (orecchio acerbo, 2014), e la recentissima riedizione di Martedì (orecchio acerbo, 2016).

Lei è uno dei più apprezzati autori di picture book di tutto il mondo. Come ha iniziato?

Non ricordo un momento della mia vita in cui non abbia disegnato. Ero consapevole, fin da bambino, che questo fosse quello che gli altri sapevano di me. La mia famiglia, i miei amici, i miei insegnanti, tutti quanti dicevano sempre “a David piace disegnare” perché era quello che facevo di continuo. Disegnare ha sempre fatto parte della mia identità, sia nei confronti del mondo esterno che di me stesso, e sono cresciuto disegnando e dipingendo sempre. Sono l’ultimo di cinque fratelli e sorelle, in casa avevamo pennelli e colori che ereditavo dai più grandi, e io utilizzavo tutto, tempere, pastelli, matite, acquarelli, qualunque cosa – e disegnavo. Non facevo niente di diverso da quello che di solito fanno i bambini a cinque anni: disegnavo case, dipingevo con le dita, come qualunque altro bambino. La cosa importante è che ho continuato a disegnare. Copiavo i dinosauri, Charlie Brown o i fumetti della Marvel, poi copiavo dai manuali di disegno e di arte, finché non ho completato il mio primo dipinto a olio, a dieci anni. Era parte della mia vita. Andavo in biblioteca, facevo un giro tra gli scaffali, poi mi mettevo a sedere nel settore dei libri d’arte. Amavo tutta l’arte, dal Rinascimento fino all’arte contemporanea. Amavo soprattutto i Surrealisti. Magritte, Dalì, De Chirico, Max Ernst: per me hanno rappresentato una svolta, perché dipingevano con uno stile classico, accademico, ma il soggetto dei loro quadri era bizzarro. Con la scoperta dei Surrealisti i miei disegni iniziarono a cambiare moltissimo. Iniziai a elaborare “immagini surrealiste” – verdure con tentacoli, insetti e altre cose strane, frigoriferi, monete volanti – e se si guarda alla forma circolare di queste monete, non è poi così distante dalla forma delle ninfee su cui volano le rane in Martedì. Il mio lavoro, quindi, iniziò a sviluppare un punto di vista. Allo stesso tempo, capii che, più che dipingere un quadro, volevo raccontare storie per immagini, creare delle vere e proprie sequenze. Ero un grande appassionato di cinema e di fumetti, e la narrazione iniziò a entrare in modo perentorio nella mia produzione artistica. Quando entrai all’accademia d’arte questo processo accelerò. All’epoca frequentavo anche corsi di regia e tecnica cinematografica, ma mi resi presto conto che quel percorso non era praticabile. Nella produzione cinematografica entravano in campo forze esterne che avrebbero potuto influenzare e cambiare il mio lavoro, mentre nei libri potevo avere il controllo assoluto di tutto il processo creativo.

Quando ha iniziato a interessarsi di picture book?

Solo negli ultimi anni dell’accademia d’arte. Studiavo con David Macaulay, un grande insegnante e un grande creatore di libri, ed è stato allora che ho iniziato a guardare i picture book e a stupirmi della gamma di stili e di materiali usati, dei soggetti, delle storie. Allora i picture book non erano così affermati come adesso; non esistevano neppure le graphic novel, solo i classici fumetti dei supereroi. Non volevo diventare un disegnatore di fumetti: sentivo che i picture book potevano essere l’ambito più adatto per sviluppare le idee che avevo in testa. Così, dopo la laurea, è lì che ho iniziato… ed è lì che sono rimasto. All’inizio, ovviamente, realizzavo lavori su commissione per mantenermi, collane di prime letture per bambini, copertine, illustrazioni per libri di altri autori. Quando però ne completai uno tutto mio, smisi con tutto il resto. Quello che volevo fare era scrivere e disegnare libri miei.

L’aspetto più straordinario del suo lavoro è la coesistenza di mondo realistico e mondo fantastico, soprattutto la transizione da un mondo all’altro. In tal senso, mi sembra di vedere in Martedì un punto di svolta. Nei suoi Free Fall e Hurricane, il passaggio da un mondo all’altro avviene nel sogno e nell’immaginazione. In Martedì, invece, il passaggio è senza soluzione di continuità, non c’è nessuna soglia da attraversare…

Fantastico. Non ci avevo mai pensato prima. Dopo l’inizio di Martedì non c’è alcun bisogno di giustificare il mondo fantastico, è già tutto lì, non è curioso? Sì, Martedì è stato per me un punto di svolta, anche per il modo e la velocità con cui è stato realizzato. L’ho praticamente disegnato in un’ora, forse anche meno. Nel mio album di schizzi è tutto in un’unica pagina, con i disegni molto piccoli. Tutto, dalle rane che volano sullo stagno ai tre panel delle rane che fanno le capriole, al tizio che mangia il panino… è venuto fuori completo. In seguito l’ho disegnato nel formato reale, sempre a matita veloce. L’ho guardato e ho pensato: è fantastico. Non avevo idea di cosa avrebbero potuto pensarne gli altri, specie la mia editor. Avevamo appena finito Hurricane, una storia della mia infanzia e forse il libro più tradizionale che ho fatto, e quando sono andato a mostrarle Martedì mi chiedevo cosa ne avrebbe pensato. Mentre lo sfogliava ha iniziato a ridere e ha detto “Facciamolo!” Fino a quel momento avevo represso il desiderio di portare nella storia più umorismo ed elementi del fumetto (come i panel): con Martedì questo desiderio si è realizzato, era arrivato il momento. Dopo Martedì non ho avuto più nessuna inibizione a portare la storia dove voleva andare, non avevo bisogno di giustificare quello che doveva essere. È il mondo che è fatto così.

È il mondo che è fatto così, e forse il disegno lo mostra meglio. Nel suo Sector 7, dice: “Se sei un bambino che sa disegnare, il disegno fa anche di più. Ti offre una possibilità di far vedere anche ad altri il mondo in un modo nuovo”. Pensa che disegnare sia un modo per vedere il mondo e il suo aspetto più surreale?

Assolutamente sì. Stamattina, mentre mi muovevo tra i tavoli del laboratorio di disegno dei bambini e chiedevo dei loro disegni, ero meravigliato. Da dove arrivavano tutte le cose che disegnavano, tutte quelle storie di avventure sfrenate, perfino più illogiche delle mie? Io scrivo e costruisco storie in un determinato modo, ovviamente. I bambini partono verso mondi incredibili, da dove arrivano? Dal loro inconscio sicuramente, ma in ogni caso c’è un senso, nelle loro storie, di un inizio, di uno svolgimento e di una fine. Mi meraviglio sempre della loro abilità. Si siedono al tavolo, con il loro foglio di carta, e trasformano quella che è una vita “ritualizzata” – con la scuola, i compiti, tutte le cose che i ragazzini sono obbligati a fare e fanno controvoglia – in cose spassosissime e assurde. Un bambino stamattina ha disegnato maiali e rane che, in un certo qual modo misterioso, cambiavano di posto, le rane facevano oink e i maiali invece facevano i suoni delle rane, e a un certo punto maiali e rane hanno deposto le uova e dalle uova sono nate queste strane creature mutanti – e questo è straordinario, ma con la narrazione su carta succede. Ricordo che osservavo spesso i miei figli disegnare, da bambini. Prima di fare qualunque cosa di figurativo, dicevano “Succede questo, e adesso quest’altro”, e il foglio di carta si riempiva di linee e forme. Non stavano facendo un disegno, stavano raccontando una storia, e la storia era in un certo senso unita alla loro mano, allo strumento (la matita) e alla carta – e il foglio di carta diventava la mappa della loro storia, o quantomeno una rappresentazione visiva della narrazione. Non c’era alcun bisogno di farla assomigliare a qualcosa. Era il percorso visivo di quello di cui stavano parlando.

Accade lo stesso anche a lei?

È un metodo che mi ricorda la scrittura automatica di Dalì e dei surrealisti, il lasciare che la mente prenda il sopravvento. Quando parlo agli studenti d’arte cerco di incoraggiare in loro la consapevolezza di quello a cui si sta pensando mentre si lavora. Spesso ci si trova a pensare “No, questo disegno è ridicolo o sciocco” e si tende ad accantonarlo. In realtà, è proprio la cosa che si deve esaminare per vedere dove porta. C’è un motivo per cui il cervello ha fatto quella connessione, quindi bisogna prendere quella connessione e osservarla. È necessario restare aperti a tutte le esperienze di vita accumulate, a tutte le cose che si è visto – è facile semplicemente farle scivolare via, perché pensi che non possano far parte di quello che stai facendo, ma non lo puoi sapere, fino a che non lo esplori sulla carta. Non basta pensare, bisogna mettere su carta il pensiero e seguirne tutti i percorsi narrativi possibili, anche quando si pensa che non porteranno a nulla. Non si può mai sapere quando arriva il momento in cui si dice “Ecco, questo è perfetto”.

Durante la masterclass che ha tenuto sabato pomeriggio in Salaborsa ha parlato della sua passione per il linguaggio, o meglio per i linguaggi, e per la loro rappresentazione visiva.

Mi sono scordato di dire che c’è un’opera specifica che ha innescato il mio interesse, ed è Il Grande Vetro di Duchamp. Si trova al Museum of Art di Philadelphia, ed è una finestra enorme, a doppia lastra, con tante forme ritagliate. C’è una legenda che elenca tutti i pezzi usati, come in un collage, e il loro significato. In qualche modo è un’opera che vuole rappresentare il maschile e il femminile, ma la cosa più sorprendente sono gli oggetti usati, il macinacaffè e gli elementi meccanici, uno a forma di nuvola. Mi ricordo di averla vista da bambino e di aver pensato “Duchamp ha creato un linguaggio da tutte queste immagini, spiegando cosa significano”. Mi colpì moltissimo e mi resi conto che potevo creare rappresentazioni visive di linguaggi diversi.

Mi sembra che nei suoi libri ci sia una grande attenzione ai meccanismi del linguaggio e della narrazione, che risultano improvvisamente esposti.

Sì, è l’idea di un mondo non-visto, nascosto sotto la superficie o dietro quello che vediamo. Anche quella che consideriamo “superficie” è piena di strati, e luoghi, da vedere. Una delle prime volte in cui ho visto dietro la superficie è stata in un film di animazione. Il protagonista della scena era un bambino che correva lungo una strada verso un cinema, correva fino alla fine della pellicola e poi ne usciva fuori. Si vedeva la parentesi, il nulla dietro la pellicola, e poi il bambino che rientrava nel film. Da bambino, ricordo di essermi messo a ridere e di essere rimasto profondamente colpito dal ragazzino che era uscito dall’animazione. Successivamente ho esplorato questa idea per la prima volta in un compito di graphic design all’accademia d’arte. Dovevamo prendere una lettera dell’alfabeto, nera su sfondo bianco, e trasformarla in qualcos’altro. Il mio compito si apriva sulla lettera W, poi la lettera si muoveva, si allungava, usciva dalla pagina, tornava dentro, si frantumava e infine si riassemblava in forma di uccello marino. La chiave di tutto era la pagina bianca. Me la sono immaginata come un portale che si apriva nel libro, potevo mettere la testa dentro e vedere la W muoversi e volare. È un’idea che è rimasta con me e mi sono sempre chiesto se fosse possibile entrare dentro al libro e buttare giù le immagini e vedere cosa ci fosse dietro e dentro, come se esistesse un altro mondo all’interno del libro.

David Wiesner Mr Ubik

Che è quello che succede in Spot, la app che ha creato nel 2015. Cosa cambierà con il digitale? Che potenziale ha?

Il potenziale è enorme. Ho creato Spot da un’idea che avevo già ai tempi dell’accademia d’arte. Ho tentato di portarla avanti in forma di libro, ma non sono mai riuscito a concretizzarla in una storia soddisfacente. Quando ho visto un tablet per la prima volta ho capito subito che poteva essere un mezzo per esplorare la mia idea in modo completamente diverso ed entusiasmante. Mi sono chiesto, studiando i possibili usi del medium, che cosa fa il tablet che il libro non fa e cosa possiamo realizzare con le sue qualità intrinseche. Mi sono anche chiesto se il tablet potesse fare la stessa fine del CD-Rom, che negli anni Novanta sembrava dovesse cambiare il mondo e invece è sparito. Stavolta la sensazione è che il dispositivo sia destinato a rimanere, che sia qualcosa di permanente. A maggior ragione, abbiamo bisogno di creativi che sfruttino le potenzialità narrative del medium – che al momento è perlopiù in mano al marketing. Il fatto è che cambia tutto così in fretta che non c’è modo di dire se il tablet finirà come il CD-Rom e sarà rimpiazzato da qualcos’altro. Il potenziale, quindi, è enorme, ma ho l’impressione che non riusciamo a restare fermi abbastanza a lungo per capirlo fino in fondo.

Per BilBOlBUl ha selezionato quattro film che sono andati a formare una rassegna, proposta dalla Cineteca di Bologna durante i giorni del festival. I quattro film sono: 2001. Odissea nello spazio, L’eclisse, Scala al Paradiso, La Jetée. Che cosa l’ha spinta a scegliere questi film?

Molti li ho scelti perché hanno avuto un impatto diretto su di me e sul mio lavoro. 2001. Odissea nello spazio, innanzitutto. L’ho scelto perché quando è uscito avevo dieci anni e ne sono rimasto completamente sconvolto. Sono tornato a vederlo al cinema – non esistevano ancora i videoregistratori – in media due volte l’anno per i successivi dieci anni. Ci sarebbero mille cose da dire, ma la più importante è che in 2001. Odissea nello spazio c’è forse il taglio più famoso di tutta la storia del cinema, ovvero il lancio dell’osso-arma della scena iniziale. È un taglio che è stato scoperto per caso, e la storia della scoperta mi ha sempre affascinato moltissimo. All’uscita del film mi procurai sia il romanzo da cui era stato tratto – a questo romanzo attribuisco il merito di avermi trasformato in un lettore – sia il saggio sul “dietro le quinte” del film. Venni a scoprire che, un giorno che stavano girando, Kubrick, con la cinepresa in spalla, si mise a lanciare in aria una scopa e a filmare la scopa che saliva e poi scendeva, saliva e scendeva, finché non gli venne l’idea del taglio. Una forma cilindrica lanciata in aria e poi… taglio al satellite. Un’immagine accostata a un’altra: ecco cos’è fare immagini in modo sequenziale, mettere insieme le immagini e vedere come si rapportano l’una all’altra. Scala al Paradiso di Mike Powell l’ho visto a quattordici, quindici anni. Pensavo che fosse la solita storia d’amore, c’erano David Niven e Kim Hunter… invece l’inizio era molto stilizzato e ne rimasi affascinato. Da una parte c’era la Terra, resa in un technicolor particolarmente intenso, e dall’altra c’era il Paradiso, tutto in uno splendido bianco e nero, con tutta la gamma dei grigi, e il film rende la transizione tra questi due mondi con una grafica spettacolare. Ero affascinato dal modo in cui potevo identificare visivamente i diversi mondi a partire da un diverso materiale e un diverso design. Era possibile, quindi, creare uno stile diverso per ciascuno, amplificando le differenze e passando dall’uno all’altro in modo creativo – che poi è quello che succede anche in Spot. Molto del mio lavoro deriva dall’arte cinematografica. Adoro il cinema. Se penso che i mezzi e gli strumenti per farlo sono ora accessibili a tutti… sono arrivato troppo presto!