Carlo Emilio Gadda – La cognizione del dolore

Carezze di tenebra

recensione di Filippo Polenchi

dal numero di gennaio 2018

Carlo Emilio Gadda
LA COGNIZIONE DEL DOLORE
pp. 381, 17 tavole, € 24
Adelphi, Milano 2017

Carlo Emilio Gadda - La cognizione del doloreIl prediletto fra i figli, frutti tardivi di una vocazione letteraria che scaturì in un corpo ingegneresco già maturo, La cognizione del dolore torna ora in libreria, nell’edizione Adelphi, a cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela. L’edizione presente, come avverte la consueta e puntuale Nota al testo, ricalca fedelmente quella Einaudi del 1971, con alcune aggiunte (il Dossier genetico).
Al solito ricostruire la genealogia dei libri gaddiani è un impegno alpinistico: mutevole è l’orografia della Cognizione nella sua veste di volume, giacché fin dal 1938 cominciano a uscire sulla rivista fiorentina “Letteratura”, diretta da Alessandro Bonsanti, alcuni “tratti” di quello che è stato un racconto e poi un romanzo. Dunque, anche in questa occasione, l’esplorazione nel teatro nascosto delle varianti testuali mostra un laboratorio di “concause”, una capsula di ricombinazioni. Siamo già dalle parti dello “gnommero” del commissario Ingravallo. Del resto che La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana siano parti di una stessa filiazione lo testimoniano decisivi indizi: frammentarietà del testo nella sua redazione primitiva (anche il Pasticciaccio compare su “Letteratura” a partire dagli anni quaranta, con un impasto linguistico molto diverso da quello che i lettori avranno per le mani con l’edizione Garzanti del 1957), apparente incompiutezza, acme drammaturgico declinato intorno a un whodunit, poetiche simili. Proprio sui temi che, in un certo qual modo uniscono Cognizione e Pasticciaccio, la presente impresa di Adelphi, che dal 2011 (con Accoppiamenti giudiziosi, a cui sono seguiti L’Adalgisa nel 2012 e Verso la certosa nel 2013) sta ripubblicando tutto Gadda con edizioni filologicamente precise e dense e complete, getta una luce chiarificatrice, innestando il già risorto Eros e Priapo (Versione originale condotta sul ritrovamento nel 2010 del manoscritto autografo, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti) come terzo polo di una costellazione tripartita che comprende anche i due romanzi maggiori dello scrittore milanese.

La causa è il narcisismo

Di modo che adesso si può tracciare una linea – in Gadda le linee di forza sono sempre rette, limiti dell’infinito – che dalla conoscenza del male giunge all’autopsia sul corpo di una nazione, attraverso la mattanza delle donne: la Madre della Cognizione e Liliana nel Pasticciaccio. Se il nome dell’assassino rimane quasi sempre sconosciuto (quasi, perché in Eros e Priapo si fa il nome ed è quello di Mussolini) nota e “notificata” è la causa: il narcisismo. Riflessi di un occhio scuro, che offre luce di specchio – nella sua orbita nera e venefica – a ignare “anime sciocche (che) hanno bisogno di mostrarsi, di far sapere che sono venute al mondo” (Eros e Priapo). Ogni specchio nasconde un mondo terrificante al di là della propria superficie increspata e ogni anima che vi cerca il proprio riconoscimento d’amore sta cercando freudianamente il proprio certificato d’esistenza.

Degli anni tardi della seconda guerra, gli anni dei bombardamenti e delle fughe, degli sfollamenti e delle tane dove l’ingegnere cerca rifugio, sono le concrezioni narcisistiche, i nuclei di pensiero e visione che fanno deflagrare il rapporto impuro – a proposito di “accoppiamenti giudiziosi” – tra pubblico e privato, tra intimo e politico. Narcisismo dell’individuo all’ombra del gigantesco narcisismo della folla innamorata del suo conduttore, del suo Duce. Tanto più che in questa nuova Cognizione, con l’apparizione dei materiali nel Dossier genetico e con le proposte di finale – il testo vulgato a partire dal 1963 fino a ora, come sappiamo, si chiude sul ritrovamento del corpo della Madre, un’altra prodigiosa e apocalittica scena da opera lirica, sanguinaria, gore, insieme alla scoperta del cadavere di Liliana Balducci al 219 di via Merulana – indica come responsabile proprio una guardia del Nistitúo provincial de vigilancia para la noche, ovvero una chiara trasfigurazione di uno squadrista. Già, perché se anche parliamo di Maradagàl e di Parapagàl, della Néa Keltiké e di Lukones è chiaro che dietro a questo velo di biacca si nasconde una terra molto più familiare a noialtri lettori: i dolci declivi di questo Sudamerica poco carnascialesco sono quelli della Brianza e le protezioni coercitive del Nistitúo sono le ombre lunghe delle squadracce di fascisti all’altezza del 1938.

Una radiografia dell’oltraggio

In questo languido paesaggio si erge la villa dei Pirobutirro: nell’apparente semplicità di un grappolo di scene tutte riunite intorno a gesti minimi, impercettibili (una visita, un pranzo, una cena, una nottata) Gadda inscena un vero e proprio batiscafo di nevrosi e dà vita al personaggio sulfureo, arroventato, analiticamente irrisolto di Gonzalo, ombra più che autobiografica dello stesso autore. Di lui si dice, infatti, che “lambiccava rabbioso dalla memoria una qualcheduna di quelle sue parole difficili, che nessuno capisce, di cui gli piace d’ingioiellare una sua prosa dura, incollata, che nessuno legge”.

Quella della Cognizione è una plaga densissima di bagliori iridescenti, di buchi neri (“il male che risorge ancora, ancora e sempre, dopo i chiari mattini della speranza”), di smagliature, con un ordito prepotente e spudorato di confessione e marginalità, di spietatezza autobiografica, con la precisa e irredimibile nettezza di indicare i colpevoli: anzitutto quell’Io, “pidocchio del pensiero”, al centro di una celebratissima invettiva. Sul cielo di Gonzalo e della Madre grava il peso immedicabile di perdite e ferite lancinanti: quella del padre Francisco (alias Francesco Gadda), del fratello di Gonzalo (alias Enrico Gadda, caduto in guerra nel 1918): “Nell’animo della mamma e direi anzi ne’ suoi visceri, il rapporto madre-figlio si era talmente identificato col rapporto guerra-morte del figlio, ch’ella non poteva più pensare a una madre se non come a un groppo di disumano dolore superstite ai sacrificati”. Ma è soprattutto la casa, quel “feudo barcollante”, la “idea-cetriolo” di Eros e Priapo che s’è andata a conficcare nella regione di Longone/Lukones: “La Idea Matrice della villa se l’era appropriata quale organo rubente od entelechia prima consustanziale ai visceri, e però inalienabile dalla sacra interezza della persona”. Come dicevamo, intorno alla metà degli anni quaranta il tema del narcisismo è un pallino di Gadda e difatti anche la Madre, come Liliana del Pasticciaccio, è un bizzarro corpo sterile. Se nel Pasticciaccio de via Merulana la vittima Balducci è incapace di far figli – e dunque proietta sulle servette, ragazze inurbate, il proprio desiderio materno – nella Cognizione la donna che ha messo al mondo due figli, uno dei quali ucciso dalla guerra (“Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto (…) col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza”) è pur sempre un “groppo di (…) dolore” che non ottiene quella risposta amorosa, incanto della vita: “Invano aveva partorito le creature, aveva dato loro il suo latte: nessuno le riconoscerebbe dentro la gloria sulfurea delle tempeste, e del caos, nessuno più ci pensava: sugli anni lontani delle viscere, sullo strazio e sulla dolcezza cancellata, erano discesi altri fatti (…) e, per lei, la vecchiezza: questa solitudine postrema a chiudere gli ultimi cieli dello spirito”. È una radiografia dell’oltraggio, la Cognizione del dolore. Conoscere è, come di consueto per Gadda, infrangere dolorosamente un tessuto omogeneo. C’è una prosa assai famosa, Anastomosi, raccolta in Verso la Certosa, nella quale lo scrittore in persona, prima di sottoporsi a un intervento chirurgico, chiede di poter assistere a un’operazione analoga che l’équipe medica svolge su un altro paziente. Un lavoro di routine diviene così formidabile metonimia di una smania conoscitiva che crea fenditure sulla realtà. Il dolore della conoscenza/cognizione è più di un argomento: è il soggetto dell’incisione gnoseologica; si conosce sempre il dolore, perché è esso al termine della corsa dei nervi; il dolore è la sostanza stessa dell’epidermide che si deve tagliare.

Un reperto archeologico

Per conoscere il groviglio intossicante del “male oscuro” di Gonzalo, per dipanare l’elastico polipo delle “concause” è necessario tagliare, utilizzare il dolore, esplorare il termine della notte, laddove l’oscurità è sempre quella celata all’ombra del proprio guscio di carne. “Era il bagaglio del mondo, del fenomenico mondo. L’evolversi di una consecuzione che si sdipana ricca, dal tempo”. La morte corre sul filo della lama e “ogni oltraggio è morte”. La parola “oltraggio” è dunque il leitmotiv che risuona in tutto il romanzo. Le categorie di interno ed esterno dovrebbero rimanere rigorosamente separate, intoccabili, eppure un soffio osmotico le attira, un magnetismo diabolico – “Accrescere in conoscenza è gravarsi di dolore”, recitano i versi del Qohélet biblico – li fa collidere, ne disturba l’armonica distanza. Inevitabile dunque che vi sia una casa che seduce le effrazioni, come attira i fulmini, selvaggi desideri del cosmo, che attraversano il cielo con la loro foia distruggitrice soltanto per recare offesa, “un oltraggio non motivato nelle cose”.

Così la casa, rovinosa, maledetta – come sarà maledetto il “palazzo degli ori” del Pasticciaccio – è il correlativo oggettivo dell’impenetrabilità ossea della propria coscienza, contro la quale squadre del male si adoperano per scassinarne le serrature. Ma, al tempo stesso, la casa è anche la monade leibniziana che è indispensabile violare. Oltraggio, violazione – “I ladri erano alla sua angoscia il simbolo d’una offesa che potesse venir recata alla mamma, o, più precisamente, di un mancato aiuto alla indigente solitudine di lei. Ma tutto era mancato, a sua madre” – sono questi i poli paradossali attraverso i quali passa il dolore della conoscenza, nel “cerchio doloroso dell’appercezione”. Insomma, è una Cognizione del dolore che ritorna in grande spolvero, questa; l’occasione per ficcare lo sguardo fra le architetture incompiute di Gadda, per ammirare il fiore del suo stile senza pari. Ma più che di opere incompiute si potrebbe quasi parlare di opere senza fine, delle quali ogni libro pubblicato è un reperto archeologico, un documento che dichiara la rovina del progetto originario, un fascicolo spalancato su un infinito impossibile da chiudere.

filippo.polenchi@gmail.com

F Polenchi è redattore editoriale