Elvis Malaj – Dal tuo terrazzo si vede casa mia

Storie di ordinaria ironia

recensione di Giulia Molinarolo

dal numero di gennaio 2018

Elvis Malaj
DAL TUO TERRAZZO SI VEDE CASA MIA
pp. 176, € 14
Racconti, Roma 2017

Elvis Malaj - Dal tuo terrazzo si vede casa mia“Abito dall’altra parte della piazzetta, dal tuo terrazzo si vede casa mia.’ Veronica lo guardò per un attimo senza capire. ‘E quindi?’. ‘Siamo la famiglia di albanesi che si sono trasferiti qui qualche anno fa, ci conoscono tutti nel quartiere’. ‘Il fatto che sei albanese dovrebbe rassicurarmi?’. ‘Ma sei razzista?’. ‘Dammi pure della razzista, ma se mi ritrovo in casa un albanese armato di coltello di sicuro non penso che sia un benefattore’”. È senza dubbio l’ironia l’ingrediente principale di questi dodici racconti brevi che compongono la raccolta di Elvis Malaj. Accompagnata da una scrittura semplice, cruda e diretta (anche se a tratti sbilanciata dalla presenza stridente di vocaboli ricercati), l’intonazione ironica permea le esistenze ordinarie dei suoi personaggi, svelandone così tutta l’inadeguatezza di fronte alla società.
E tuttavia si dimostra uno strumento dal potere terapeutico per affrontare conflitti interiori, o ancora un veicolo privilegiato per esprimere idee che, in senso freudiano, permettono la violazione e l’irrisione dei tabù: “Il razzismo non esiste. E siccome non ci credo, col razzismo non ho mai avuto problemi”. Un fatto mentale: così una delle tematiche più critiche della società contemporanea viene interpretata da Marenglen (acronimo di Marx, Engels e Lenin), protagonista del primo racconto, Vorrei essere albanese. Proprio questa consapevolezza induce astutamente Marenglen a trarre vantaggio dagli stessi stereotipi: “‘Boccia’ ho detto io e ho aspettato che si voltasse. ‘Hiqi brrylat prej tavolins tonë, n’mos daç me ti thye dhëmbët’. Il ragazzo mi ha guardato perplesso e ha tolto i gomiti dal nostro tavolo. A volte l’albanese è più comprensibile dell’italiano”. O, come nel caso dell’ultima storia, La morte di un personaggio, induce invece Kastriot a deformare se stesso per modellarsi sui pregiudizi culturali: “Kastriot era ubriaco e aveva fatto a botte: aveva semplicemente fatto quello che ci si aspettava da un albanese a una festa, anche se non era ubriaco, neanche beveva lui, ma era ciò che pensavano tutti in quel momento. Dopo il pugno che si era preso in pieno volto dal fustacchione ventenne, comunque, un po’ ubriaco si era sentito”.

La discriminazione, sotto la penna di Malaj, diventa un elemento plastico, plasmabile a seconda delle circostanze proprio perché concepito come operazione consapevole (e dunque controllabile) della mente. Inoltre la presenza di un narratore prevalentemente esterno e onnisciente, unitamente al punto di vista ironico e alla scelta di un linguaggio ombreggiato da un certo “realismo sporco”, consente di prendere le distanze (emotive, ma anche culturali) dalla società adottiva così come da quella materna. Se da una parte l’Albania è delineata come luogo selvaggio e patriarcale, l’Italia non si discosta certo dall’idea di “italianità” come brand, il noto Made in Italy, sinonimo di cibo di qualità e manifattura di pregio.

In molti racconti, tuttavia, all’articolazione pungente degli stereotipi si amalgama un velo di amarezza, resa manifesta dalla sensazione di disagio profondo dei protagonisti, come nel caso di Mrika, o dall’incomunicabilità linguistica e culturale tra Silvia e Agron in A pritni miq?. Al contrario, lo scambio narratore-lettore è vivace e costantemente alimentato dalla presenza di parole, espressioni o intere frasi in lingua albanese, segnalate in corsivo ma non tradotte, invogliando così il pubblico a ricercarne la traduzione e accostarsi alla nuova cultura.
Da una prospettiva narratologica prevale una struttura articolata nella quale si intrecciano diversi piani temporali, con un uso massiccio del flashback, e prospettive multiple grazie alle quali la storia viene raccontata dinamicamente seguendo più punti di vista. Malaj narra attraverso scorci, frame della vita ordinaria che alternano lunghe carrellate a dialoghi serrati o lunghi monologhi interiori. Un’attenzione particolare è dedicata infatti al fattore psicologico, evidenziato dalla costruzione di personaggi fortemente introspettivi, i cui pensieri si aggrovigliano in flussi di coscienza nel tentativo (quasi sempre vano) di risolvere le problematicità quotidiane. A queste si aggiunge, di fatto, un’impossibilità risolutiva che si traduce in finali sospesi, in cui l’azione che muove la storia è spesso inconclusa.

Trattandosi di una raccolta d’esordio si percepisce di tanto in tanto una scrittura ancora non pienamente matura, venendo a volte a mancare il pieno sviluppo delle storie, una più efficace resa dei tempi narrativi o una costruzione dei personaggi a tutto tondo, mentre in altri casi alcune narrazioni appaiono decisamente compiute, come nel racconto più disteso che chiude il volume. La sensazione, però, è che Elvis Malaj riesca a creare ogni narrazione come un organismo non solo autosufficiente, ma anche capace di acquistare un nuovo e ulteriore senso nel legame con gli altri racconti tramite un fil rouge di “ordinaria ironia”, di cui è intessuta l’intera raccolta.

giulia.molinarolo2@unibo.it

G Molinarolo è dottoranda in studi letterari e culturali all’Università di Bologna