Michele Mari – Io venía pien d’angoscia a rimirarti

Tra pallottole e lame d’argento

recensione di Luca Simonetti

dal numero di marzo 2017

Michele Mari
IO VENÍA PIEN D’ANGOSCIA A RIMIRARTI
pp. 150, € 13,50
Einaudi, Torino 2016

Michele Mari - Io venía pien d'angoscia a rimirartiFebbraio 1813. In una sonnacchiosa Recanati, Carlo Orazio Leopardi annota sul suo diario il comportamento sempre più strano del fratello maggiore, Giacomo Tardegardo. La vita familiare nel palazzo avito, al cui centro è la grande biblioteca, procede per il resto come sempre, con i tre fratelli (compresa la sorella minore, Paolina) che fanno lega tra loro per sopravvivere dinanzi alla bigotta tirannide dei genitori, il pedante conte Monaldo e la manesca contessa (già marchesa) Adelaide. Ma assieme alle inspiegabili bizzarrie di Tardegardo, fuori dal palazzo accadono eventi sempre più sinistri, in corrispondenza con la luna piena. E proprio dalla luna il maggiore dei giovani Leopardi sembra essere ossessionato, mentre da scartafacci polverosi emerge una oscura storia di antenati lupeschi… Tra pallottole e lame d’argento, zingari cacciatori di licantropi e prelati forcaioli, conversazioni erudite e esercizi ginnici, omicidi e rime, il breve romanzo (il secondo di Michele Mari, apparso nel 1990 per i tipi di Longanesi, poi per Marsilio nel 1998, e adesso infine ripubblicato da Einaudi), diviso in 48 capitoletti, scorre veloce verso una splendida pagina finale.

Il romanzo segue di un solo anno il libro d’esordio di Mari (Di bestia in bestia – la recensione sul numero di settembre 2013) e in effetti le due opere si assomigliano molto. Anche nel precedente, il tema centrale era quello del doppio: lì il doppio era rappresentato da un fratello gemello “bestiale”, qui dal licantropo. E anche nel primo libro, l’idea essenziale era quella della letteratura come contraltare della vita, della creazione fantastica come cura e superamento del male. Come già in quel romanzo, anche in questo la vita e il suo male si oppongono alla letteratura, a sua volta impersonata dalla biblioteca (che qui è quella, reale, di casa Leopardi). Verso la fine del libro, Giacomo giunge a spiegare il male che lo corrode come una sorta di reazione alla sua clausura erudita, agli studi matti e disperatissimi (“io volevo capire e fui tutto della filosofia e della scienza, dell’astronomia e della storia, e intanto il lupo si rinselvava sempre più nel profondo…”), e preannuncia la sua conversione alla poesia come una speranza e un presagio di salvezza (“una cosa mi è chiara: questo spasmo di vita involuta che mi preme e tumultua nel petto non alimenterà più nessun Saggio, e chissà, forse allora non ci sarà uopo d’argento, e il lupo uscirà dalla selva, e insieme correremo… la poesia, quella che salvò in gioventù l’infelice Torquato, forse salverà anche me”). Ma tutta questa tematica, che in autori meno avvertiti si risolverebbe in qualche banalità pseudo-psicanalitica, qui resta affidata a tocchi leggeri e discreti, evitando ogni sovraccarico di simboli.

Si sa che due grandi passioni di Mari sono il romanzo gotico e il pastiche. Qui entrambe trovano una felice sintesi, certamente determinata dall’aver innestato la trama fantastica alla salda intelaiatura del romanzo storico. Il pastiche è ubiquo in Mari, e già era nel primo romanzo. L’autore, lo sappiamo, è uno che, per dire “un gol fantastico”, scrive “un goal fabuloso”: è chiaro però che, se frasi come “Alle corte ‘l raggiunsi, ed ei con la sua usuale bontà mi fe’ intendere di non avercela meco” sono attribuite al diario segreto di Carlo Leopardi nell’A.D. 1813, il tutto riesce assai più credibile che non nel diario della naja di un ventenne negli anni settanta. E anche le immancabili liste bibliografiche di Mari, ovviamente, appaiono meno stravaganti se, come in questo caso, si inseriscono nel quadro degli studi giovanili di Leopardi. D’altronde, la struttura del romanzo storico rende più straniante il contrasto con la ghost story. Il libro naturalmente non aspira all’esattezza filologica, e infatti Mari si prende parecchie libertà. Per fare solo pochi esempi: al principio del 1813, Leopardi non aveva ancora scritto il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (che è del 1815); inoltre, non solo all’epoca l’autore non aveva ancora letto Senofonte, ma non conosceva nemmeno il greco (che studierà solo a partire dall’estate dello stesso anno), né del resto mai imparò il tedesco. C’è da chiedersi, quindi, perché Mari non abbia ambientato la storia qualche anno dopo, quando queste ed altre incongruenze non sarebbero più state tali. La ragione, crediamo, è che il Leopardi del 1815 sarebbe stato un personaggio già sostanzialmente formato, già poeta, ed inoltre ormai irresistibilmente proiettato verso l’evasione da Recanati e verso la costruzione di nuovi legami al di fuori dell’ambiente familiare.

A Mari evidentemente interessava costruire una chiusura claustrofobica, una contrapposizione esterno/interno (proprio come nel romanzo precedente), che peraltro si rivela essere non già la soluzione bensì il problema: infatti, il tentativo razionale di chiudere fuori la minaccia fallisce, dato che il pericolo proviene proprio dall’interno. Anzi la guarigione reale sarà offerta appunto dall’apertura all’esterno, e fuor della fabula (per tornare nella storia) dalla fuga da Recanati.

l.simonetti@spslex.com

L Simonetti è saggista