Rosetta Loy – Cesare


Tutto in luce, tutto lì

recensione di Danilo Bonora

dal numero di settembre 2018

Rosetta Loy
CESARE
pp. 133, € 17
Einaudi, Torino 2018
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Rosetta Loy - CesareUn pomeriggio da militare in franchigia corsi a perdifiato per arrivare in tempo a una conferenza di Cesare Garboli su Penna e Montale al Circolo Filologico padovano di Folena. Strana coppia, pensavo mentre prendevo posto rifiatando, con una biro e un biglietto ferroviario dove appuntavo in corpo 3 le continue sorprese che lo studioso snocciolava sui due poeti, la voce un po’ afona, una mano ostinata a ravviare i capelli candidi. Era il cartone preparatorio del magnifico Penna, Montale e il desiderio del 1996, evidenziato a dovere nel recente Cesare, il bel volumetto di Rosetta Loy dedicato a Garboli: “memoria sentimentale”, la definisce l’editore. È un libro ripartito in una rassegna dei lavori del grande critico e scrittore – dagli anni sessanta della Stanza separata fino ai postumi Storie di seduzione e Tartufo – e in un mannello di capitoli colmi di ricordi affettuosi di “intensità malinconica e struggente” (Ferrero), tra cui le camminate en plein air con l’amato Cesare in Engadina, in Bretagna, nelle Alpi Apuane, il tocco di chi sa bearsi della luce intensa dei laghi di Sils Maria o delle selvagge prode normanne; diceva Saba di Sandro Penna, poeta garboliano quant’altri mai: è “tutto in luce, tutto lì”.
Colpito dalla sorprendente frase della prefazione agli Scritti servili, “strano per un critico, ma io non amo leggere; non amo i libri”, fui incuriosito soprattutto dal singolare malumore con cui, onorato l’adempimento di festeggiare l’opera in questione, Garboli trascorreva – ha notato Berardinelli – a “divorare, ruminare e rigirare i suoi autori da tutte le parti come se non ne fosse mai sazio o volesse approfittare di loro per studiare la vita, come e perché si può arrivare a capirla”. Insomma, il broncio era il filo conduttore di un saggista magnetizzato dagli individui colpiti dall’“infezione misteriosa” della creazione letteraria. Il cipiglio di chi sospettava il bluff dell’avversario (“non so se il critico è uno che va a vedere. Io lo faccio”, disse in un’intervista), aveva comunque archiviato le millanterie e privilegiato le scale reali calate sul panno verde: da Longhi a Morante, da Parise a Soldati, da Montale a Delfini, ma anche Courbet, Bacon, Eduardo, Valli ecc. Non senza forzature, Garboli apriva il diaframma della Leica e metteva a fuoco il punctum dell’opera “pronto ad accendersi come un flipper”; lo aveva rilevato nello stile dell’amico-nemico Franco Fortini, così come aveva ascritto all’ammirato Giovanni Macchia (è un autoritratto anamorfico) un metodo-non metodo da grande solitario, insieme facile e impervio (la Pianura proibita!), da saggista a suo agio nell’incertezza e nell’esitazione.

Il problema dei problemi diventava un mondo dove le idee si annullavano e si ricreavano come le particelle elementari alla lunghezza di Planck, “senza mai imporre uno statuto al mondo, e senza mai dargli un senso e un ordine”: lo “gnommero” di Gadda, sbrogliabile solo quando un romanzo o una lirica o un quadro fossero riusciti a restituire vita e/o ordine a ciò che era spettrale e caotico (le nostre budella, latebre maledette). “Una scommessa di chiarezza e verità, però costruita su premesse per così dire magiche”, ha osservato acutamente Onofri, attraverso cui il critico talvolta spiccio – “il ‘matto’ dei Tarocchi, con la calza sbrindellata giù dalla gamba”, lo ritrae gustosamente Loy – con i suoi spazientiti “figurarsi”, “che dico” ecc., individuava le verità: verità dove si coglie il reale come si tocca una pesca. Prendere sul serio l’immaginazione – dicevano nel Settecento – “pavonazza” e i relativi “piaceri” del testo (il Proust della vera vita, “riscoperta e illuminata” dalla letteratura), significava trattare l’ombre come cosa salda, assunto che raccoglie “tutto il bene e tutto il male dell’esperienza letteraria del Novecento”.
Del bene un esempio è lo splendido attacco narrativo – non smetto di rileggerlo – del Vecchio ebreo e il giovane fascista nei Ricordi tristi (Berenson e Spadolini nell’inverno del 1944), che racconta con malinconiosi passés flaubertiani la Viareggio attonita e limbale del dopo armistizio: “ai primi di settembre ancora ci si sdraiava al sole e si facevano i bagni. A primavera si poteva vedere la spiaggia solo da lontano, disseminata di bunker… Passò Natale, vennero gennaio e febbraio. Aveva piovuto in autunno, senza mai sosta, fino a tutto novembre. Passai quei mesi da solo, senza amicizie…”.

Il disincantato Garboli non intendeva modificare il mondo con le parole, ma solo capire com’era fatto e lasciarlo tal quale; trasformarlo avrebbe voluto dire esporre le viscere, e chissà che cosa nascondono, Dio ci guardi dal saperlo. Se nel viaggio per arrivare all’etimo di uno scrittore gli accadeva di toccare un nervo scoperto di se stesso, quello era “un Anchise che mi porto sulle spalle ma non so di avere”. Il contrario di Acheronta movebo, noto esergo freudiano divenuto l’imperativo di una poco stimata progenie di scrutatori dell’anima (si veda il ritratto di Lacan nei Ricordi tristi), il cui archetipo è stato scovato nel Tartuffe di Molière, l’eroe occulto del Novecento, l’eroe della psicoanalisi, dei poteri nascosti e della politica rapace. “Pourquoi donc la prison?” è la sbalordita domanda che abbiamo sentito spesso pronunciare dai Tartufi dei nostri anni.

bonoradanilo@gmail.com

D Bonora è dottore di ricerca in italianistica presso le Università di Padova e Venezia