Caro Scott, carissima Zelda

Dilettante di genio

recensione di Francesco Rognoni

Dagli archivi: 2004 – anno XXI – n. 1

CARO SCOTT, CARISSIMA ZELDA
Le lettere d’amore di F. Scott e Zelda Fitzgerald 
a cura di Jackson R. Bryer e Cathy W. Barks
ed. orig. 2002, trad. dall’inglese di Marina Premoli
pp. 437, € 17
La Tartaruga, Milano 2003

Le lettere d'amore di F. Scott e Zelda FitzgeraldIn tempi recenti, l’illustre tradizione anglosassone della biografia letteraria sembra essersi arricchita d’un sottogenere: la biografia della moglie del grande autore. Nel giro di pochi anni sono apparse vite di Nora Joyce, di Vivienne Eliot, di Vera Nabokov. Capostipite di questo nuovo genere in espansione è senza dubbio il leggibilissimo Zelda (1970) di Nancy Milford, un bestseller da un milione e mezzo di copie, che sarebbe una buona idea ristampare anche da noi (era stato tradotto da Bompiani nel ’71). Ora la vita dell’autore del Grande Gatsby (1925) era stata raccontata a dovere in più di una biografia, e Zelda, la moglie-musa, salvifica e distruttiva, non vi figurava certo solo sullo sfondo; ma Nancy Milford è stata la prima a studiare e avvalersi sistematicamente del vasto epistolario della coppia simbolo dell’età del jazz, conservato all’Università di Princeton. Caro Scott, carissima Zelda è una ricca antologia di tale carteggio, inevitabilmente squilibrata dalla parte di Zelda, di cui ci sono pervenute più di quattrocento lettere (i curatori ne stampano circa la metà), contro le ottanta lettere (o telegrammi) del marito, incluse integralmente: e non che Scott le scrivesse meno di frequente, ma molte sue lettere si sono perse nei vari pellegrinaggi di Zelda da una clinica psichiatrica all’altra, o distrutte nell’incendio dello Elighland Hospital dove lei stessa, nel ’48, perse la vita.

Caro Scott, carissima Zelda. Le lettere d'amore di F. Scott e Zelda FitzgeraldZelda sposò Scott un mese dopo la pubblicazione di Al di qua del Paradiso (1920), quando Fitzgerald ce l’aveva sì fatta come scrittore, ma il successo strepitoso di quel libro non era ancora detto. Nel decennio successivo, i due furono quasi sempre assieme (quindi senza ragione di scriversi), a New York, a Parigi, in Costa Azzurra: una festa incessante, bruscamente interrotta, come in un dramma allegorico, all’indomani della crisi del ’29. Se si eccettuano le lettere frizzanti del corteggiamento (1918-20), l’epistolario inizia nell’estate del 1930, durante il primo ricovero di Zelda, con uno scambio di lettere retrospettive di straordinaria intensità, piene di malinconia, rabbia, perdono. “Ci siamo rovinati da soli – non ho mai pensato onestamente che ci siamo rovinati a vicenda”, conclude Scott, e i dieci anni di lettere che seguono sono la testimonianza di come si possa sopravvivere – precariamente, ma talvolta’ con magnifici guizzi di vitalità – a questa devastazione. Oltre alla probabile schizofrenia (o forse a causa di essa), il dramma di Zelda è quello della dilettante di genio, dotata per le arti più svariate (la danza, la pittura, la scrittura) e capace di imporsi una disciplina ferrea per coltivarle, senza però mai raggiungere il grado di professionalità che consentirebbe di fondarvi una propria identità stabile. Ha dell’incredibile, ad esempio, la capacità di concentrazione che le permise di scrivere nel giro di poco più di un mese, nel ’32, un romanzo tutt’altro che trascurabile come Save Me the Waltz (1932). Il libro fu occasione di una certa tensione con Scott, che da più di sei anni lavorava allo stesso “materiale” per Tenera è la notte (1934). C’è spesso, nello stile epistolare di Zelda, un eccesso metaforico un po’ stucchevole; e talvolta la nostalgia suona programmatica (come può capitare anche in certi racconti di Fitzgerald). Ma l’intelligenza, il senso dell’umorismo sono spesso vigili: ad esempio quando Zelda chiama “un classico da fumetto” il modo con cui Scott si era lussato una spalla tuffandosi in piscina. E i suoi apergus sulla vita manicomiale sono austeri e autorevoli: “E impossibile rattristarsi per i pazzi perché la loro realtà non coincide con la nostra concezione normale della tragedia”.

rognonif@libero.it

F. Rognoni insegna letteratura ngloarnericana all’Università di Udine