Christa Wolf – Ein Tag im Jahr

Dove la diseguaglianza è un obbligo rigoroso

recensione di Anna Chiarloni

dal numero di novembre 2013

Christa Wolf
EIN TAG IM JAHR IM NEUEN JAHRHUNDERT: 2001-2011
pp.162, €17,95
Suhrkamp, Berlin 2013

Il libro è in corso di traduzione dall’editore e/o.

Christa WolfA un anno dalla scomparsa di Christa Wolf, Suhrkamp pubblica il secondo volume di Ein Tag im Jahr. Il primo era uscito nel 2003 (Un giorno all’anno. 1960-2000, e/o, 2006). Messi insieme, i due libri di taglio diaristico narrano cinquant’anni di vita e di storia, aggregando singoli testi redatti in una ricorrenza fissa: il 27 settembre di ogni anno. Una nota a margine sulla ripartizione cronologica: nel marzo 2003 Wolf mi scriveva di aver chiuso il primo volume con l’anno 2000, mandandomi a parte il capitolo dedicato al settembre 2001, un testo di densa analisi politica che prontamente pubblicammo in anteprima assoluta su “Almanacco 2003” nella traduzione di Anita Raja. Il motivo di quella esclusione era chiaro: esposta fin dal 1990, con la scomparsa della Ddr, alla critica talora violenta della stampa occidentale, la scrittrice, che già con la sua Medea (1996) aveva suscitato un acceso dibattito, voleva evitare di offrire il destro a ulteriori polemiche con una riflessione a caldo su fatti tuttora materia di discussione. Un’ansia eccessiva? Non credo. L’incipit del capitolo, costruito sulla cronaca televisiva della Cnn, con l’urgenza linguistica del linguaggio militare (“America’s War against Terrorism”), certo trasmette l’angoscia del tragico evento ma, con un’analessi caratteristica di Wolf, concatena il crollo delle Torri a un’altra violenza, quella della guerra del Golfo, richiamando alla memoria la mistificazione delle strategie comunicative in quel frangente: “Allora alle quattro di notte sedevo ancora davanti al televisore e vedevo il fuoco prima dello sbarco delle truppe americane sulla costa del Kuwait. Piansi e poi dovetti leggere sul giornale che se non approvavo quella guerra ero contro Israele, salvo scoprire molto più tardi che la giovane donna che aveva fornito l’ultima giustificazione morale ai bombardamenti dicendosi testimone oculare dell’uccisione di bambini kuwaitiani da parte dei crudeli iracheni era la figlia di un membro dell’ambasciata kuwaitiana e non aveva visto neanche un bambino ucciso”.

Negli anni successivi questa scrittura abitata dal tempo ci restituisce il riflesso quotidiano dei cambiamenti nella Germania del cancelliere Schröder prima, e poi dal 2005 di Frau Merkel. Lo stile è piano, spesso materico, e non privo di quelle scorie che Barthes definiva il déchet autobiografico. Procede per addizione e inclina alla meticolosa registrazione degli eventi riprodotti nel linguaggio protocollare della stampa quotidiana, quasi appunti accantonati per una possibile rielaborazione letteraria. D’altra parte sono questi gli anni di gestazione della Città degli angeli, l’ultimo grande romanzo della scrittrice. Anni difficili, minati dall’artrosi, in cui il corpo assume una sorta di centralità, come si vede in un racconto del 2002, In carne ed ossa. Un corpo stremato, costretto a una vita reclusa, in stampelle tra le pareti domestiche, un’immobilità umiliante, cui solo la scrittura e l’abbraccio coniugale di Gert, con il suo avvolgente corredo gastronomico, riescono a far sponda. Gert, l’interlocutore di sempre, con cui la sera Christa discute il suo manoscritto: “Sul personaggio di Lily lui è scettico: Ce n’è proprio bisogno? E tutta la faccenda col filosofo a cosa serve?”.

Il diario è costellato di letture, segnali sparsi dell’officina letteraria successiva al soggiorno statunitense, ai margini della ricerca nelle ceneri della storia ebraica, tessuto connettivo della Città degli angeli. Accanto a Edgar L. Doctorow scorrono le pagine di Lizzie Doron e di Barbara Honigmann. Ma è soprattutto l’autobiografia di Markus Wolf (detto Mischa, figlio dello scrittore ebreo comunista Friedrich Wolf, nonché agente segreto della Ddr) che funge da retrovisore sul passato, spingendo l’io autobiografico a riconsiderare la storia stessa dei cieli divisi. Cominciando dalla costruzione del Muro decisa – secondo Mischa, esperto dei retroscena sovietici – non già da Ulbricht, bensì da Krusciov, che vedeva “nelle fughe di massa dalla Ddr un pericoloso indebolimento del fianco occidentale del blocco sovietico”. Per arrivare alla domanda di fondo che investe il radicamento della scrittrice, malgrado il suo dissenso, nella società Ddr: “Perché sono rimasta? Ero troppo critica nei confronti della Germania occidentale? Non credo. Oggi si dice che allora lo stato sociale avesse reso il capitalismo più mite rispetto alla sua attuale ferocia ma nella sostanza nulla è cambiato, se non che ora il capitalismo può esibire la sua vera natura senza freni di sorta”.

Con questa fedeltà critica alla propria storia Wolf legge il nuovo secolo entrando nel vivo della Germania riunificata. Elenca cifre e dati che, a oltre quindici anni dalla caduta del Muro, ostacolano il decollo economico della ex Ddr, vincolando quella parte di Germania al “rigoroso obbligo della disuguaglianza”. Un passo del 2006 rende bene gli umori degli Ossi all’annuncio dei consueti bilanci annuali del governo: “Nessuna previsione di parità tra Est e Ovest. Benché nel 1993 siano stati pompati e Est più di 93 miliardi di euro. Una cifra enorme che, detta così, non può che suscitare nei tedeschi dell’ovest incomprensione, disprezzo – persino rabbia: ‘Gli orientali sono dei buoni a nulla’! Ma quanti miliardi siano ritornati in tasca agli imprenditori occidentali naturalmente non rientra nelle analisi economiche – né si considera che il rinnovamento di tutte le infrastrutture orientali sia opera loro! E inoltre: si tace sul fatto che nei primi anni della riunificazione l’Est sia stato deindustrializzato – non da ultimo per motivi di concorrenza. Il gestore che oggi ha in mano tutto lo smaltimento dei rifiuti nel Meclemburgo è un occidentale. Pare che suo figlio abbia comprato il terreno di una ex cooperativa agricola, ora ‘società a responsabilità limitata’. Abita col padre in un maniero restaurato nelle nostre vicinanze. I contadini lavorano da marzo a ottobre poi vanno in disoccupazione ed è il contribuente che li paga”.

Un motivo ricorrente è lo sbandarsi di una gioventù che ha perso ogni riferimento. C’è lo sgomento di fronte alle svastiche di Berlino Est e alle incursioni notturne dei neonazisti in rissa con i gruppi punk. Ma c’è anche preoccupazione, dopo gli episodi danesi, per l’ingerenza degli integralisti, un timore legato alla notizia che nel 2006 fece il giro del mondo: la decisione della Deutsche Oper di cancellare le repliche di un Idomeneo (il cui finale, invero poco mozartiano, prevedeva le teste rotolanti e insanguinate di Budda, Cristo e Maometto) per paura di una protesta della comunità islamica di Berlino.

locandinaMolto spazio è riservato alla genealogia familiare, è lì che Wolf cerca il sorriso del mondo. Ormai bisnonna, guarda con occhio vigile a come si arrangiano i più giovani passando in rivista il suo album domestico: un nipote, aspirante designer, si guadagna da vivere nel frac da cameriere in un albergo di lusso, l’altro fa il falegname, gli amici sono nel commercio di vini, formaggi, olio d’oliva. O nel catering, insomma: è il trionfo del terziario. Ma c’è anche chi sceglie l’alternativa in campagna e produce terrecotte in vecchie cascine rabberciate. Intorno: quattro milioni di disoccupati, nell’anno quinto dell’era Merkel. Corre l’anno 2007 quando una sera la televisione trasmette Zabriskie Point.

Di fronte all’esplosione finale Wolf commenta: “La diagnosi di Antonioni è giusta. Questa letale civiltà dei consumi, che distrugge tutto ciò che è giovane e vivo, non può che provocare altra distruzione”. Wolf prosegue con una considerazione che lascia intuire la prospettiva di chi vive in un paese come la Germania, di massiccia immigrazione dai paesi musulmani: “Oggi il contrasto è ancora più acuto perché la nostra fiacca cultura è aggredita da una cultura forse più ‘barbarica’ ma ben più vitale: quella islamica. Certo, in passato la battaglia ha sempre visto vincitore l’aggressore più vitale – e perdente una stanca cultura al tramonto”. La notte Christa chiude il diario con una domanda: Potrebbe andare diversamente in futuro? Forse perché noi – per ora – possediamo le armi più tremende?”. Un interrogativo che s’insinua nel confuso tempo attuale come una nota ferma, sospesa nella nostra coscienza.

anna.chiarloni@unito.it

A. Chiarloni è professore onorario di lettertura tedesca all’Università di Torino