Lettori di Proust

Che cosa gli storici possono imparare da una narrazione sui generis come la Recherche

di Carlo Ginzburg

dal numero di giugno 2013

Il testo è una parte della comunicazione letta dall’autore il 19 marzo 2013 al seminario di Antoine Compagnon presso il Collège de France sul tema “Lecteurs de Proust”.

Lessi per la prima volta la Recherche in francese, tra il 1959 e il 1960, nell’edizione in tre volumi della Pléiade, curati da Pierre Clarac e André Ferré (ho imparato il francese leggendo Proust e Baudelaire). E tuttavia l’esistenza della traduzione di mia madre (che ho letto molto più tardi) ha fatto sì che il francese si sia configurato per me, subito, dal punto di vista affettivo, come una specie di lingua materna: e tale è rimasta, al di là della competenza raggiunta. (In confronto l’inglese, che pure ho usato più spesso, è per me una lingua infinitamente più povera di connotazioni emotive).

Quella lingua straniera e a suo modo materna mi fece entrare nel mondo misterioso, pieno di sorprese mirabolanti, della Recherche. Ma in che modo (mi chiedo oggi) lessi allora la Recherche? Attraverso quali filtri? Trovo un inizio di risposta in un saggio che scrissi vent’anni dopo, Spie. Radici di un paradigma indiziario. “Si può dimostrare agevolmente – scrivevo – che il più grande romanzo del nostro tempo, la Recherche, è costruito secondo un rigoroso paradigma indiziario”. Oggi aggiungerei una precisazione: “E che il ‘paradigma indiziario’ è stato in larga misura ispirato dal romanzo di Proust”. Qui di seguito cercherò di chiarire il significato di quest’affermazione, che coinvolge lettori di Proust di gran lunga più rilevanti e più influenti di colui che vi parla.

Nel proporre il “paradigma indiziario” mi ero richiamato a Leo Spitzer, oltre ad Aby Warburg, a Marc Bloch (soprattutto per I re taumaturghi), e ad Adorno (soprattutto per Minima Moralia). Dopo aver finito la Recherche lessi il saggio di Spitzer Sullo stile di Proust. Ma il senso vero di quelle pagine, che certo segnarono un momento di svolta nella traiettoria ermeneutica di Spitzer, mi è diventato chiaro solo recentemente. Esse si aprono dicharando il profondo debito intellettuale contratto nei confronti di un altro saggio su Proust, apparso tre anni prima: quello di Ernst Robert Curtius, pubblicato nel 1925. Scriveva Spitzer: “Il metodo con il quale Curtius giunge a scoprire lo ‘spirito’ Proust nella sua lingua, l’ha insegnato Proust stesso, ed è il medesimo che io vado proponendo da anni. Il critico comincia a leggere, ed è dapprima sorpreso da quello stile così singolare, fino a quando non trova una ‘frase quasi trasparente’, che gli fa presentire il carattere dello scrittore: proseguendo la lettura incontra una seconda e una terza frase dello stesso genere, e finisce così per intuire la ‘legge’ che permette di comprendere ‘lo spirito formale di un autore’. (…) a mio parere, questo metodo, che in fondo vuol essere soprattutto un invito a leggere e rileggere i testi studiati, non vale solamente per Proust, ma per ogni autore, di cui si voglia veramente comprendere la lingua”.

Inutile sottolineare l’importanza di questa dichiarazione di metodo per interposte persone. Il plurale è d’obbligo: Spitzer rinvia a Curtius che rinvia a Proust. Questa genealogia intellettuale, delineata da Spitzer in pochi vigorosi tratti, non può essere accettata a scatola chiusa; ma ignorarla sarebbe assurdo. Eppure essa non è discussa là dove uno la aspetterebbe. Per esempio, nell’introduzione di Pietro Citati alla raccolta italiana di saggi di Spitzer che s’intitola Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna Curtius viene ricordato con il rilievo che gli spetta, senza però menzionare il suo saggio su Proust. Quanto al saggio premesso da Jean Starobinski a Études de style, la scelta di saggi di Spitzer apparsa in traduzione francese nel 1970, il nome di Curtius non vi compare affatto. Eppure chi legga oggi il saggio di Curtius su Proust ha l’impressione di trovarsi di fronte a un testo fondatore, che agì, sia immediatamente sia a scoppio ritardato, su due lettori d’eccezione: Leo Spitzer ed Erich Auerbach. (Questo debito intellettuale fu poi oscurato dalle tensioni, scientifiche e personali, tra chi era stato costretto all’esilio e chi aveva scelto l’“emigrazione interna”.

Su questo duplice nesso (Curtius/Spitzer, Curtius/Auerbach) mi limiterò a due rapidi accenni. La frase enigmatica che, secondo Curtius, costituisce il punto di partenza dell’indagine testuale, anticipa il famoso click evocato da Spitzer a proposito del “circolo ermeneutico”. L’articolo che Auerbach dedicò alla Recherche nel 1927 aveva come motto una frase della Prigioniera – “L’universo è vero per noi tutti e diverso per ciascuno” – che Curtius aveva citato nel proprio saggio di due anni prima, in un paragrafo intitolato Relativismo, spiegando: questa forma di relativismo non significa che le innumerevoli prospettive sono tutte false, bensì che sono tutte vere. Dietro il “relativismo storico o prospettivismo” che Auerbach rivendicò nel 1958, richiamandosi a Vico, s’intravede un Vico riletto, implicitamente, e forse inconsciamente, attraverso il Curtius lettore di Proust.

Ma il Curtius lettore di Proust non faceva che riecheggiare, con grande intelligenza, Proust stesso: in particolare, la prefazione con cui si apre La Bibbia di Amiens di Ruskin da lui tradotta. Ne cito due passi: “Ora, parlando una volta con una persona, si possono notare in lei dei gesti singolari; ma è soltanto per il loro ripetersi in circostanze diverse che si possono riconoscere come caratteristici ed essenziali. Per uno scrittore, per un musicista, o per un pittore, questa variazione delle circostanze permette di notare, come in una specie di esperimento, i segni immutabili del carattere e la varietà delle opere. (…) In fondo, aiutare il lettore a rilevare questi segni singolari, mettere sotto i suoi occhi i modi analoghi che gli permettano di considerarli segni essenziali del genio di uno scrittore, dovrebbe essere il compito più importante di ogni critico”. Leggere nella prefazione alla Bibbia di Amiens un annuncio della Recherche è, oggi, inevitabile. Come sempre in Proust pratica e riflessione teorica si alternano, intrecciandosi, sia in scritti di diversa natura sia nella Recherche stessa (un caso d’intreccio analogo, nella letteratura europea, è Dante). Attraverso il suo romanzo – che è anche, com’è noto, un metaromanzo – Proust ha dato ai suoi interpreti gli strumenti per interpretarlo. Non si tratta di armonia prestabilita, bensì di una costrizione esercitata dall’autore sui propri lettori. I critici della Recherche non hanno potuto sottrarsi agli strumenti interpretativi predisposti da Proust. La definizione che Pietro Citati diede di Proust a metà del Novecento – il “più grande critico stilistico del nostro secolo” – va presa alla lettera e, se possible, approfondita. La critica stilistica ha radici antiche, almeno cinquecentesche (un tema che spero di poter affrontare in un’altra occasione). Ma se Proust non fosse esistito, la critica stilistica come oggi la intendiamo non sarebbe mai nata.

Marcel Proust A la Recherche du temps perdu

Anch’io dunque, come quasiasi altro lettore, ho letto Proust seguendo le indicazioni, esplicite e implicite, di Proust. Ma questo non significa una svalutazione del lavoro di mediazione svolto dai critici: al contrario. Provo a dimostrarlo soffermandomi su un punto preciso.

Rileggo un passo della prefazione di Proust alla Bible d’Amiens: “Per uno scrittore, per un musicista, o per un pittore, questa variazione delle circostanze permette di notare, come in una specie di esperimento, i segni immutabili del carattere e la varietà delle opere”. Quest’accenno all’esperimento – all’esperimento scientifico – verrà sviluppato nel romanzo, a cominciare dal titolo. Che la Recherche abbia a che fare con la recherche, ossia con la ricerca scientifica in particolare, e con la conoscenza in generale, è un dato che s’impose subito ai lettori. Cito quasi a caso, da Marcel Proust. An English Tribute: un volume apparso nel 1923, che raccoglie scritti di vari autori (tra gli altri, Joseph Conrad) in gran parte, ma non tutti, elogiativi. Francis Birrell, uno scrittore vicino al gruppo di Bloomsbury, osservò che il titolo À la recherche du temps perdu (tradotto in inglese, poco fedelmente, come Remembrance of Things Past) “va molto al di là del desiderio di scrivere un’autobiografia, di ricapitolare la propria effimera esperienza. È il tentativo di ricostruire integralmente il passato (to reconstruct the whole of the past)”.

Sì, ma in che modo? Spitzer ci viene in aiuto: “La distanza tra narratore e narrazione presta alla narrazione una più intensa realtà e autonomia: i suoi personaggi Proust vuole allontanarli da chi vede, simile in questo allo storico (ma non all’annalista) che tratta una materia molto remota da lui”. Spitzer analizza con grande sottigliezza gli strumenti adoperati da Proust per sottolineare questa distanza: le parentesi, l’uso del congiuntivo e così via. E a un certo punto osserva: “La locuzione più banale può custodire i più profondi segreti dell’anima. Proust è un grafologo e un fisionomista della lingua individuale, e va alla ‘ricerca’ dello spirito della lingua quotidiana, ormai in essa disperso, frantumato, ‘perduto’. Allo stesso modo che la moderna psicologia costruisce degli apparecchi per scoprire la menzogna, Proust confronta tono e discorso, e si serve del primo per svelare la ‘bugia’ del secondo”.

“Ricerca”, “perduto”: ancora una volta il titolo del ciclo romanzesco di Proust, e le sue implicazioni cognitive. E poi la grafologia, la fisiognomica, la psicologia moderna: e dietro l’accenno ai lie detectors s’intravede lo svelatore di menzogne per eccellenza, Sigmund Freud. Oggi, rileggendo passi come questi, penso inevitabilmente alla triade Morelli-Freud- Sherlock Holmes con cui aprivo il mio saggio Spie: e mi rendo conto di quanto fosse profondo, fin da allora, il mio debito nei confronti di Spitzer – e soprattutto, naturalmente, nei confronti di Proust. Un debito intellettuale che avevo dichiarato subito; ma le sue implicazioni mi sono diventate chiare a poco a poco, nel corso degli anni.

Spie apparve nel 1979; l’anno dopo pubblicai su “Critique” una recensione della raccolta di saggi di Jacques le Goff intitolata Pour un autre Moyen Age. A un certo punto, quasi tra parentesi, osservai che gli storici, invece di usare, dandolo per scontato, il modello narrativo del romanzo naturalista, avrebbero fatto meglio a raccogliere la sfida lanciata dai grandi romanzieri del Novecento: Proust, Joyce, Musil. Dietro la mia battuta c’era un obiettivo polemico non dichiarato: il saggio di Lawrence Stone The Revival of Narrative: Reflections on a New Old History apparso su “Past and Present” e subito tradotto da “Le Débat”. Anni prima avevo partecipato, imparando moltissimo, al seminario del Davis Center di Princeton diretto da Lawrence Stone. Ma la tesi di un “ritorno alla narrazione” proposta da Stone mi lasciò deluso, perché dava per scontato che la narrazione fosse una sola: quella, per l’appunto, modellata sul romanzo naturalista. Ma quali potevano essere le implicazioni cognitive di un modo diverso di raccontare la storia?

9788806153779gEra una domanda che mi ero posto qualche tempo prima, scrivendo un libro, che s’intitolò Il formaggio e i vermi, in cui avevo cercato di intrecciare narrazione storica e riflessione sulla ricerca. A spingermi in quella direzione era stato, tra l’altro, il coinvolgimento, all’inizio degli anni settanta, in un’iniziativa che poi non andò in porto: una rivista progettata da due romanzieri, uno già famoso, Italo Calvino, l’altro ancora quasi agli inizi, Gianni Celati. E fu proprio Celati a farmi leggere il bellissimo saggio di Émile Benveniste Les relations de temps dans le verbe français. Ne cito un passo: “Definiremo la narrazione storica quel genere di enunciazione che esclude ogni forma linguistica ‘autobiografica’. Lo storico non dirà mai io, né tu, né qui, né ora, perché non prenderà mai in prestito l’apprecchiatura formale del discorso, che consiste anzitutto nella relazione di persona io: tu. Nella narrazione rigorosamente storica possiamo quindi trovare solo forme di ‘terza persona’”.

Certo, sarebbe impossibile definire la Recherche di Proust “narrazione rigorosamente storica”. Ma che cosa succederebbe (mi chiedevo) se adottassimo una definizione più ampia di quella adottata da Benveniste? Non si trattava, ovviamente, di proporre agli storici di scimmiottare Proust. Si trattava di capire che cosa gli storici potrebbero imparare da una narrazione storica sui generis come la Recherche.

Su questi temi ho riflettuto per anni, affrontando aspetti molto diversi tra loro, ma tutti legati in un modo o nell’altro al rapporto “vero falso finto”: tre termini che costituiscono il sottotitolo della mia ultima raccolta, Il filo e le tracce, ma che se non sbaglio definiscono l’intero ambito delle ricerche che ho condotto, su temi molto eterogenei, dalla metà degli anni ottanta. Nella discussione prolungata con le tesi neo-scettiche, secondo cui una distinzione rigorosa tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione sarebbe impossibile, sono tornato più e più volte a Proust. Perché? Potrei rispondere a questo domanda ricorrendo, ancora una volta, a un’osservazione di Spitzer: “Nessun gruppo di parole, difatti, è in Proust così frequente e denso di nostalgia come reel, réalité, réaliser”. Nessuno, nemmeno il più accanito neoscettico, potrebbe accusare Proust di positivismo ingenuo. La ricerca della realtà e della verità (senza virgolette) si accompagnano in Proust all’acuta consapevolezza degli innumerevoli ostacoli, soggettivi e oggettivi, che questa ricerca deve superare.

Sull’impulso che spingeva Proust a rendere con la massima precisione possibile il timbro delle innumerevoli voci che popolano il suo ciclo romanzesco, si è scritto molto. È un impulso in cui convergevano il poeta e lo scienziato. Ma il compito che si propone lo storico non è molto diverso. Credo di poter dire che la consapevolezza di questa prossimità sia stata rafforzata, nel mio caso, da una lunga consuetudine con i processi dell’Inquisizione: documenti in cui l’alternarsi delle voci dei giudici e degli imputati nasconde spesso una prevaricazione dei primi sui secondi, accompagnata da una violenza, talvolta fisica, culturale sempre. Per poter cogliere quest’intreccio di voci senza deformarle lo storico deve imparare a sterilizzare gli strumenti dell’analisi: in altre parole, deve imparare a non proiettare le proprie aspettative e i propri pregiudizi nei documenti. Deve imparare a mettere da parte quello che sa, per guardare la realtà come qualcosa di opaco, di incomprensibile, di estraneo; deve rinunciare a capire per capire di più.

Qualcosa di estraneo. Anni fa ho cercato di ricostruire la genealogia del procedimento letterario che Viktor Sklovsky, in un celebre saggio, definì ostranienie, estrangement. Di fronte a coloro che (da Marco Aurelio a Montaigne, da Voltaire a Tolstoj) si sono serviti dello sguardo straniante del contadino, del selvaggio, dell’animale per criticare le convenzioni sociali, Proust sembra andare in una direzione diversa: l’impulso che spinge Elstir a dipingere il mare come un prato (non ciò che sa ma ciò che vede) è uno straniamento puramente estetico. Ma alla fine della Recherche il procedimento di Elstir ricompare in un contesto diverso, e più ampio. In una pagina stupenda, e giustamente famosa, di Il tempo ritrovato il narratore parla a Gilberte di suo marito, Robert de Saint-Loup, morto da poco: “C’è un lato della guerra ch’egli cominciava ad afferrare, cioè che la guerra è umana, la si vive come un amore o come un odio, potrebbe essere raccontata come un romanzo, e per conseguenza, se il tale o il tal altro van ripetendo che la strategia è una scienza, questo non li aiuta per nulla a capire la guerra, perchè la guerra non è strategica”. Ma a questa dichiarazione sull’inferiorità della scienza rispetto al romanzo subentra quasi subito, la proposta di una scienza diversa da quella convenzionale: “E se volessimo supporre che la guerra sia scientifica, bisognerebbe dipingerla come Elstir dipingeva il mare, alla rovescia, e partire da illusioni e credenze che vengono a poco a poco rettificate, come avrebbe fatto Dostoevskij nel raccontare una vita”.

Elstir, Dostoevskij, oppure il “lato Dostoevskij” di Madame de Sévigné, che in un passo delle Lettres, che Proust cita a memoria, esce in una notte di luna e vede “frati bianchi e neri, parecchie monache grigie e bianche, panni di bucato buttati qua e là, uomini sepolti rigidi contro alberi ecc.”. E Proust commenta: “Essa ci presenta le cose nella stessa maniera di Elstir, nell’ordine cioè delle nostre percezioni, anziché cominciare con lo spiegarne la causa”.

Accostarsi alla realtà (ai paesaggi, alle persone) rinunciando alle spiegazioni precostituite che ci propone l’intelligenza astratta: in queste pagine di Proust mi parve (e mi pare ancora oggi) di riconoscere un modello conoscitivo di straordinaria ricchezza. Il mio saggio sullo straniamento terminava così: “Per descrivere il progetto storiografico in cui personalmente mi riconosco utilizzerei, con un piccolo cambiamento, una frase di Proust tratta dal passo citato poco fa: ‘E se volessimo supporre che la storia fosse scientifica, bisognerebbe dipingerla come Elstir dipingeva il mare, alla rovescia”.

Chi ama le etichette riconoscerà in questo progetto storiografico la microstoria o, più precisamente, un’interpretazione personale della microstoria. In un saggio uscito nel 2005, intitolato Latitude, Slaves, and the Bible, ho cercato di sviluppare le implicazioni delle parole di Proust. Si trattava di un esperimento (una parola cara a Proust), anzi di un esperimento al quadrato, frutto di un uso sperimentale del catalogo elettronico della biblioteca della Ucla. In italiano la parola “caso” ha due significati che corrispondono, in francese, a due parole diverse: hasard e cas. Il mio esperimento si riferiva a entrambe. Il caso, opportunamente pilotato, mi fece incontrare un individuo di cui ignoravo l’esistenza: Jean-Pierre Purry, un calvinista di Neuchâtel che al principio del Settecento elaborò una serie di progetti di colonizzazione fondati su una lettura originale della Bibbia, viaggiò in tre continenti, e morì in una città che lui stesso aveva fondato in un luogo sperduto della South Carolina (di quella città oggi resta solo un cimitero in una foresta, e un nome: Purrysburg). Il caso, decisamente anomalo, di Purry aprì la strada al riesame, da un punto di vista inatteso, di due interpretazioni dell’accumulazione capitalistica primitiva: quella di Max Weber e quella di Karl Marx. Il sottotitolo del saggio, An Experiment in Microhistory, ricordava le ambizioni generalizzatrici che ritengo parte intrinseca del progetto storiografico denominato “microstoria”. Il saggio terminava con una citazione di Proust: “Gli sciocchi s’immaginano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali siano un’ottima occasione per penetrare più addentro nell’animo umano: dovrebbero invece comprendere che solo discendendo in profondità nell’interno di un individuo abbiamo qualche probabilità di capire la natura di quei fenomeni”.

A richiamare la mia attenzione su questo passo dei Guermantes era stato un amico carissimo, Francesco Orlando. Dalla sua audacia di teorico della letteratura e dal suo modo profondamente originale di leggere testi soprattutto francesi (da Racine, a Baudelaire, a Proust stesso) ho imparato moltissimo. Seguendo Orlando, avevo estratto dal contesto (le battute di Françoise sulla guerra russo-giapponese) il passo di Proust, sottolineandone la portata generale: partendo dall’individuo, dalla sua misteriosa ricchezza e complessità, è possibile scrivere la storia “alla rovescia”. Con ciò non intendevo certo cedere alla moda neoscettica (oggi, se non m’inganno, in declino) che cancella la distinzione tra romanzo e storia annegando tutto nella finzione. Al contrario. La Recherche è ricerca della verità, è un’esplorazione della realtà attraverso la finzione e al di là della finzione. Proust era lontanissimo dall’idea di Barthes secondo cui “il fatto ha un’esistenza esclusivamente linguistica”. Basta leggere la pagina del saggio in cui Proust parlava di Flaubert come di “un uomo che, attraverso il suo uso affatto nuovo e personale del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, ha rinnovato la nostra visione delle cose quasi quanto Kant, con la sua dottrina delle categorie e della realtà del mondo esterno”.

Avevo citato questo passo straordinario in un saggio dedicato al famoso spazio bianco di L’educazione sentimentale, in cui partivo, ovviamente, da Proust e terminavo con Proust. Il saggio fa parte di un libro, Rapporti di forza. Storia retorica prova, dedicato a Italo Calvino e ad Arnaldo Momigliano, un romanziere e uno storico. Questa duplice dedica voleva sottolineare che la letteratura e la storia sono accomunate dall’impulso a conoscere la realtà, anche quando (e magari soprattutto) la letteratura si libra nei cieli o negli abissi della finzione. Certo, non si tratta di una convergenza pacifica, ma, più spesso, di una competizione, che non esclude fenomeni di ibridazione. E tuttavia Proust potrebbe obiettare che l’ipotesi di una convergenza trascura una differenza essenziale. Sentiamola (è un passo di Il tempo ritrovato): “L’impressione è per lo scrittore ciò che l’esperimento è per lo scienziato, con questa differenza però, che nello scienziato il lavoro dell’intelligenza precede, nello scrittore segue”. Questa contrapposizione mi pare troppo netta. Vorrei superarla usando Proust contro Proust, evocando ancora una volta l’estrangement: un procedimento (un esperimento) che sospende deliberatamente, in determinate condizioni, l’attività dell’intelligenza.

In una pagina di Mimesis Erich Auerbach isolò e commentò un passo memorabile delle Memorie di Saint-Simon, in cui il duca descrive un incontro improvviso col Delfino: “Era là piantato sulla seggetta fra i suoi camerieri e due o tre suoi primi ufficiali. Rimasi esterrefatto. Vidi un uomo con la testa bassa, d’un rosso porporino, con un’aria inebetita, il quale non vide nemmeno che mi avvicinavo a lui”.

In un saggio dedicato a Siegfried Kracauer ho proposto di vedere in questo brano di Saint-Simon una cellula generatrice di un passo famoso della Recherche. Il narratore, di ritorno da un viaggio, entra, inatteso, in casa propria: “Di me (…) c’era soltanto il testimone, l’osservatore, col cappello e il soprabito da viaggio, l’estraneo che non appartiene alla famiglia, il fotografo che viene a prendere un’istantanea di luoghi che non si vedranno più. Ciò che, maccanicamente, registrarono i miei occhi quando vidi mia nonna, fu proprio una fotografia (…). Per la prima volta e solo per un attimo, perché scomparve subito, vidi sul divano, sotto la lampada, rossa, pesante e volgare, malata, persa nelle sue fantasticherie, scorrendo un libro con due occhi un po’ folli, una vecchia sfinita che non conoscevo”.

Marcel Proust A la Recherche du temps perdu

“Vidi (…) una vecchia” scrive Proust; “vidi un uomo” aveva scritto Saint-Simon. La decadenza fisica, sottolineata dalla notazione di colore (“rosso porporino”, “rossa”) cancella l’individualità, facendo affiorare l’appartenenza al genere (e al genere umano). Nel caso di Proust, il riconoscimento mancato fa vedere, sia pure per un attimo, con gli occhi dell’estraneo (“l’estraneo che non appartiene alla famiglia”) quello che l’amore impediva di vedere, e di accettare: l’approssimarsi della morte della nonna.

Sulla parentela tra i due testi non mi pare necessario insistere. Stranamente essa è sfuggita sia ad Auerbach, che costruì Mimesis sul modello della Recherche (e dei romanzi di Woolf) sia a Spitzer, che agli echi delle Memorie di Saint-Simon nella Recherche dedicò un saggio. Ma tutto ciò rientra nella norma. In ogni ricercatore, anche nei più grandi (come Spitzer, come Auerbach) c’è un punto cieco: per questo la ricerca, per definizione, non ha fine.

(Le immagini dell’articolo sono tratte dal telefilm A la recherche du temps perdu di Nina Companeez, Francia 2011).