Nona Fernández – La dimensione oscura


Lugubri urla dai nidi

recensione di Vittoria Martinetto

dal numero di settembre 2018

Nona Fernández
LA DIMENSIONE OSCURA
ed. orig. 2016, trad. dallo spagnolo di Carlo Alberto Montalto
pp. 213, € 16
gran vía, Narni TR 2018
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Nona Fernández - La dimensione oscuraChi ricorda la serie tv dal titolo Ai confini della realtà, iniziata alla fine degli anni cinquanta e sopravvissuta fino al XXI secolo? Si trattava di storie incentrate sulle vite di persone normali che venivano radicalmente cambiate dall’incontro con l’“ignoto”, una specie di squarcio nella realtà che faceva diventare plausibile l’impossibile. Ricorrendovi strategicamente con eloquenti parallelismi, Nona Fernández ha trovato un modo originale per affrontare ancora una volta la memoria dolorosa del Cile sotto Augusto Pinochet.
All’inizio il lettore potrebbe farsi le stesse domande che si pone l’autrice: “Perché parlare ancora di sevizie, di scariche elettriche e topi? Perché parlare ancora di sparizioni di persone?”, a maggior ragione dal momento che Nona Fernández, classe 1971, non ha vissuto sulla sua pelle gli orrori del regime. Tuttavia, non solo siamo tutti d’accordo che certa memoria non vada mai archiviata, ma siamo consapevoli che determinati meccanismi i quali hanno reso possibile l’impossibile potrebbero essere ancora oscuramente vigenti. La questione che si pone uno scrittore è, quindi, di metodo: come raccontare tutto ciò in modo ancora più efficace. Crediamo che La dimensione oscura non sia l’ennesimo libro sulla banalità del male, ma un resoconto di grande impatto emotivo.

Già nel precedente Mapocho (2017, gran vía), storia di una famiglia devastata dalla dittatura, l’autrice esprimeva, nella forma di un romanzo dai forti accenti onirici, come l’incubo dei padri non cessi di riverberarsi sui figli malgrado il tempo. Qui Fernández torna sul tema che l’assilla – “sono nata con queste scene installate nel corpo” – affrontandolo con un genere di scrittura più diretto, a cavallo fra cronaca, immaginazione e diario personale. Lavorando a un documentario sul Vicariato della Solidarietà – organizzazione cattolica fondata in piena dittatura a sostegno delle vittime – per ricostruire in base a testimonianze “una sorta di mappa della repressione”, l’autrice si imbatte in Andrés Antonio Valenzuela Morales, aguzzino pentito che negli anni ottanta aveva consegnato a un giornale la propria confessione per poi espatriare clandestinamente e vivere il resto della vita sotto falso nome in Francia. Il cosiddetto “uomo delle torture” è il fattore scatenante di un esercizio di immaginazione che porta la narrazione a ricostruire la sua vita, le sue riflessioni e i suoi stati d’animo durante le azioni repressive, in un altrettanto immaginario contrappunto con il vissuto di alcune delle sue vittime ritratte nei momenti in cui vengono strappate al quotidiano e scaraventate nell’orrore dei “nidi” come con lugubre dileggio venivano chiamate le stanze di tortura. I luoghi e le persone – con nome e cognome – sono veri, gli stati d’animo e i gesti, immaginati, mentre presente, passato e futuro sono amalgamati e annullati dentro a quella dimensione ai confini della realtà che nel titolo originale recita desconocida: “Un mondo da sempre nascosto dal vecchio trucco che ci fa volgere lo sguardo altrove. Un territorio ampio e oscuro che sembra lontano, ma che si trova vicino come l’immagine che lo specchio ci restituisce ogni giorno”. Perché ciò che brucia di più per chi ricorda e/o ricostruisce, è che tutto si svolgeva a due passi dall’ordinarietà del quotidiano sotto gli sguardi ottenebrati dalle manomissioni della realtà operate dalla dittatura: “Le urla provenienti dalle sessioni di tortura convivevano con la musica alla radio che si sentiva per tutto il quartiere, con i dialoghi dei telefilm delle tre del pomeriggio, con la voce del telecronista della partita di calcio. I prigionieri che entravano e uscivano da quel portone cominciarono a diventare parte del paesaggio (…) Sentire uno sparo non era più una cosa strana, faceva parte dei nuovi suoni, delle nuove abitudini, della routine quotidiana che si instaurò perentoria senza che nessuno osasse contraddirla”.

Ma non basta. Come dimostra l’eloquente scansione dei fatti che occupa le ultime pagine del libro percorrendo l’abominevole lasso di tempo fra il golpe e la morte di Augusto Pinochet, spentosi a novantun anni circondato dall’affetto dei propri cari, quel processo selettivo per cui “il cervello vede solo ciò che vuole vedere”, ha permesso che la dimensione oscura si sia in qualche modo protratta nel tempo, e la miopia diffusa abbia permesso al tiranno di passare indenne attraverso “tremilacinquecentocinquanta denunce per violazione dei diritti umani”, di farsi eleggere senatore a vita nel Congresso nazionale, di venir arrestato a Londra, ma di essere ben presto liberato – grazie all’intercessione del governo cileno – per presunti problemi di salute, salvo alzarsi dalla sedia a rotelle appena posto piede sul suolo patrio. Teatro dell’assurdo ai confini della realtà raccontato in forma di poema e scandito da due significativi ritornelli: “Il mondo si prende gioco della democrazia cilena” e “famigliari di detenuti scomparsi accendono candele davanti alla Cattedrale”.

vittoria.martinetto@gmail.com

V Martinetto insegna lingua e letteratura spagnola all’Università di Torino