Paul Lynch – Cielo rosso al mattino

L’incudine di una nube rotolò rumoreggiando

recensione di Matteo Fontanone

Paul Lynch
CIELO ROSSO AL MATTINO
trad. dall’inglese di R. Michelucci
pp. 234, € 17
66thand2nd, Roma 2017

Paul Lynch - Cielo rosso al mattinoAl cuore della vicenda storica che vuole raccontare, Paul Lynch arriva soltanto nella terza e ultima sezione di Cielo rosso al mattino: si tratta della quasi dimenticata strage di Duffy’s Cut, nel 1932. A poche miglia da Philadelphia, un gruppo di emigrati irlandesi lavorava per paghe da fame alla costruzione di un tratto della linea ferroviaria che avrebbe dovuto allacciare la Pennsylvania: di punto in bianco, gli operai vengono assassinati da una spedizione di locali e seppelliti in una fossa comune. Tra le vittime c’è Coyle, e qui si entra nel romanzesco, contadino fittavolo nella contea del Londonderry, attuale Irlanda del Nord. Quando Hamilton, il padrone giovane e capriccioso, lo priva senza un buon motivo dell’appezzamento di terra che serviva a lui e alla sua famiglia per sopravvivere, Coyle lo affronta a muso duro e come in una catarsi lo uccide, quasi senza rendersene conto: “A quella vista Coyle sentì le gambe indebolirsi e oscillò come un ubriaco. (…) Si inginocchiò sul corpo dell’uomo e con le mani protese iniziò a raschiare la terra che si era incollata al cranio, imbattendosi nella materia grigia appiccicosa fuoriuscita dalla scatola cranica sfondata. Cercò di rimetterla dentro con le mani, singhiozzando tra sé. Oh mio Dio, no”.
L’istinto naturale di Coyle lo porta alla fuga, con sé soltanto un laccetto della figlia poco più che neonata. Il fattore di Hamilton, Faller, una volta preso atto della sparizione del padrone intuisce rapidamente quanto accaduto e si lancia all’inseguimento del contadino insieme ai suoi scagnozzi. Per salvarsi dalla vendetta Coyle si imbarca verso l’America, dove arriva dopo due mesi di viaggio in mare e viene cooptato, insieme ai suoi tanti connazionali, da un impresario di origini irlandesi che li porta a lavorare alla costruzione della ferrovia. Qui sta la quadratura del cerchio, la fiction si allaccia con il dato storico e Lynch ha modo di speculare, di indagare le cause del massacro e di rappresentarlo su pagina, donando un’identità e un volto, per quanto abbozzato, alle vittime dell’eccidio.

Persino la luna è “gibbosa”

Nel tentativo di restituire stilisticamente le tinte lugubri del racconto, Lynch ricorre spesso a effetti di suono e figure retoriche espressive, in particolar modo nella messa a fuoco della natura, nella resa della luce e del clima di terre che dipinge come primordiali: “L’incudine di una nube appuntita rotolò rumoreggiando da ovest”. Nella sezione della fuga irlandese, che è la prima e anche la più scandita ritmicamente, il cielo, la densità dell’aria e l’odore velenoso del fumo di torba che si mescola alla pioggia sono un fattore determinante: la nebbia diventa “un drappo impalpabile che offuscava il cielo notturno”, la luce è spesso “violetta”, persino la luna è “gibbosa” e il mondo, anche la mattina presto, appare sempre “oscuro e monotono”. Tutto concorre ad appesantire l’atmosfera del romanzo, il paesaggio scorre via pericoloso e mai a fuoco, sacrificato nella sua rappresentazione dall’affanno della caccia all’uomo. Costretti tra la terra fangosa e l’aria zuppa di umidità, i personaggi di Lynch si sbozzano soltanto in relazione alla loro irrilevanza rispetto al tempo sfavorevole che vivono, dopotutto sta iniziando la Grande carestia, impantanati come sono in una miseria inossidabile che regola ogni loro atto, vittime inconsapevoli di un ecosistema violento e brutale dove nei rapporti tra esseri umani vige ancora la legge del più forte.

A partire da una scrittura asettica e volutamente impersonale, si articola lo studio di Lynch sulla pietra angolare del suo romanzo: il corpo, osservato soprattutto dalla prospettiva dell’olfatto e della malattia. Vestiti mai lavati se non dall’umido della pioggia, stomaci vuoti se non per qualche cucchiaiata di zuppa d’avena, le membra indolenzite dopo una notte all’addiaccio: gli uomini di Cielo rosso al mattino sono ridotti a uno stato animalesco e, per questo, privati della loro autocoscienza. La rinuncia di Lynch a qualsiasi affondo nell’interiorità di chi mette su pagina è deliberata, e suona come una presa di posizione artistica rispetto alla barbarie del secolo che ricostruisce, come se negare un’anima ai suoi personaggi inasprisse ulteriormente il verdetto storico-politico del romanzo. Nei mesi di traversata atlantica, ad esempio, tra i passeggeri della nave vige uno stato di tensione continua, dovuto alle precarie condizioni igieniche, alle epidemie, al poco cibo e alla promiscuità diffusa. Nell’economia interna del libro, conservare il senso d’insidia anche durante la traversata serve all’autore per bilanciare narrativamente la sospensione del percorso di Coyle e dunque dell’intreccio.  In questo caso, poi, Lynch si inserisce in un filone già ampiamente battuto dalla narrativa irlandese degli ultimi secoli, quasi un topos: da Stella del mare di O’Connor a Le ceneri di Angela di McCourt, dire addio alla patria dal ponte di una nave è diventato un passaggio d’obbligo.

In mano a una forza superiore

“Il terrore negli occhi del Muto, Coyle premette di nuovo sul braccio di Cutter, le cui membra contratte erano dure come il tronco di un albero. Poi lasciò la presa e il Muto ricadde sui suoi piedi. Comparve un marinaio che guardò il Muto in terra a quattro zampe, come un cane che rantolava, e poi fissò gli altri due. Coyle fece finta di nulla e seguì i passi di Cutter che se n’era andato in preda alla collera, imprecando sottovoce”.

Gli scontri fisici tra Coyle e il malcapitato di turno che gli sbarra la strada sembrano pensati con l’audio muto, talmente stilizzati da assumere quasi una funzione simbolica. L’innesco drammatico del romanzo, l’omicidio “per sbaglio” del padrone, non ha suoni, si consuma in silenzio come una fatalità necessaria. In questo, è evidente, Lynch si avvicina e non poco al programma della tragedia classica, in cui quello che deve accadere accade e i personaggi sono strumenti in mano a una forza superiore: l’assassinio di Hamilton, la fuga verso Derry e l’imbarco per l’America sono il vettore che trasporta Coyle tra le braccia di una morte che assomiglia a un martirio; è soltanto nel cantiere della ferrovia che la sua figura diventa testimonianza, ma il tentativo di tridimensionalità di Lynch sta nel raccontare cosa accade prima, ad inventare la storia travagliata e sporca di sangue dell’archetipo di operaio irlandese.

La costruzione del villain

C’è poi la costruzione del cattivo: Faller è il factotum di Hamilton, tra la servitù e i braccianti si mormora che sia anche il suo padre naturale: oggi al suo ruolo appiccicheremmo l’etichetta di capo della sicurezza, al limite problem solver. Quando il padroncino muore e ha inizio la caccia all’uomo, Faller dà subito prova di capacità rabdomantiche, fiuta le tracce e la paura del fuggitivo, lo tallona, è in grado di calarsi dentro di lui per captarne le mosse e giocare d’anticipo. Non molla la presa nemmeno quando Coyle gli sfugge per un soffio e riesce ad imbarcarsi, anzi. Chiunque si frapponga tra lui e la preda, anche se collaborativo e innocuo, finisce con un proiettile in testa. Come per tanti degli attori di Cielo rosso al mattino, di Faller non si conosce nulla se non il poco che viene detto dal personaggio stesso: nello specifico, si tratta di riflessioni da cattivo dickensiano, gotico, un anti-eroe senz’anima ma ammiccante e quasi sexy, che giustifica le sue perversioni con un esistenzialismo volutamente di maniera molto vicino al romanzo d’avventura.

Nell’accogliere la traduzione di questo libro in Italia, buona parte della critica si è spesa citando nomi ingombranti, modelli che farebbero arrossire tanti scrittori di buona volontà. È fin troppo netto in Cielo rosso al mattino il debito con la stilistica di Cormac McCarthy, in qualche passaggio talmente smaccata da diventare un problema per le pretese di autenticità della voce di Lynch. Ben più suggestivo, invece, l’eco di Faulkner: seppur rinunciando a ogni velleità polifonica – ma chiedergli la copia carbone de L’urlo e il furore sarebbe una scortesia intellettuale – Lynch modella la sua Pennsylvania guardando alla società abietta e polverosa del Mississippi immaginario della famiglia Compson: l’intolleranza verso lo straniero, il sospetto e il bigottismo portato all’estremo sono tutti dati ambientali che Lynch, da Yoknapatawpha, trasferisce in un nord che civile lo è soltanto all’apparenza. Il triangolo tra uomo, viaggio e natura ostile di Mentre morivo, al contrario, può rientrare a pieno diritto tra le suggestioni della fuga irlandese. Con Cielo rosso al mattino, insomma, Lynch crea un amalgama di materiali, suggestioni, e punti d’osservazione da cui radiografare il romanzo: c’è la tradizione irlandese e ci sono i giganti della letteratura americana, certo, ma anche il cortocircuito tra il dato storico e l’elemento di fiction. Si passa dalla scansione narratologica di una struttura rigida e di un originale lavoro sui caratteri alle ben più estetiche suggestioni lessicali, con la lingua che nei momenti più fortunati riesce a farsi quasi pittorica, a scatenare un’impressione di cielo. È un romanzo contraddittorio, questo, in cui un tempo di lettura rapido e incalzante fa il paio a dei meccanismi compositivi tutt’altro che semplici: non sempre riesce, ma quando prende ritmo e ti attacca addosso il freddo pungente della mattina, la schiena spezzata dalla notte all’addiaccio e la spiacevole sensazione di sporcizia del tuo stesso corpo in fuga, allora è letteratura.

matteo.fontanone@gmail.com

M Fontanone è critico letterario