Toni Morrison – Romanzi


Quando una corte condannerà un uomo bianco per lo stupro di una donna nera

recensione di Daniela Daniele

dal numero di ottobre 2018

Toni Morrison
ROMANZI
a cura di Alessandro Portelli
prefaz. di Marisa Bulgheroni, trad. dall’inglese di Franca Cavagnoli, Silvia Fornasiero e Chiara Spallino Rocca
pp. 1540, € 80
Mondadori, Milano 2018
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Toni Morrison - RomanziIl recente “Meridiano” dedicato a Toni Morrison raccoglie i maggiori romanzi pubblicati in Italia da Frassinelli in versioni italiane aggiornate dalle traduttrici delle precedenti edizioni, e anche da Chiara Spallino, che è anche autrice di un’ottima cronologia. Gli apparati critici, affidati a Sandro Portelli, ricostruiscono cinquant’anni di attività letteraria dell’autrice che l’assegnazione del Nobel ha contribuito a classicizzare.
Morrison racconta la marginalità afro-americana indugiando disforicamente sui tratti che Julia Kristeva definirebbe abietti, cioè quelli del “fondo”, che è anche il nome emblematico della collina che domina la storia di Sula. L’abiezione è un sentimento che nasce dal degrado e diventa odio di sé e colpa introiettata, come quelli che, nella prima metà del secolo scorso, Adrienne Kennedy portò a teatro, nelle forme visionarie di una coscienza subalterna divisa e assediata da idoli pubblici e pubblicitari. Tale costitutiva dissociazione pone l’opera di Morrison sulla linea di W.E.B. Du Bois che, come ricorda Evelyn Jaffe Schreiber in un saggio varato da Harold Bloom in una raccolta dedicata a L’occhio più blu, fu il primo a identificare la doppiezza con cui i neri d’America devono far convivere la loro matrice africana con una cultura wasp spesso avversa alla loro emancipazione. Tuttavia, la radiosa ascesa degli Obama alla Casa Bianca, la decostruzione delle categorie identitarie operata da autrici della nuova generazione (da Suzan-Lori Park a Lisa Jones e ad Adrian Piper) negli ultimi vent’anni ci hanno raccontato un’altra storia, spostando l’accento su declinazioni della negritudine più vitalistiche, alimentando, come nei galvanizzanti anni venti, la speranza che la cultura afroamericana possa muoversi con sempre maggiore ironia, eleganza e consapevolezza oltre lo stigma dell’oppressione postulato dal dettato morrisoniano.

Da L’occhio più blu a Il dono, le disturbanti incursioni oniriche che spezzano il racconto di Morrison conducono, invece, a una dolorosa anamnesi dei momenti più critici della presenza africana in America, su un terreno di ricostruzione storica che August Wilson ha votato in maniera meno insistente al racconto dell’esclusione e della devastazione psichica dei neri d’America. Per ricostruire il senso di questa esclusione, Morrison privilegia l’urto della violenza razziale e del trauma a partire, come nota in apertura Marisa Bulgheroni, dai fatti di cronaca frettolosamente riportati dai giornali che accendono la sua immaginazione. Si tratta di storie di disadattamento che trovano accenti gotici e magico-realistici nella versione romanzata di Morrison, diventando ai suoi occhi causa precipua di distorsione di ogni autentica pulsione affettiva. Si pensi al disperato tentativo di possesso carnale che arma la mano di un vecchio amante nella rutilante euforia di una danza (Jazz), o alla madre che sgozza la figlia nel disperato tentativo di sottrarla alla schiavitù (Beloved). Ognuno di questi racconti di amore estremo pone la “razza” subalterna al centro di un “oscuro evento reale” di cui l’autrice sfrutta appieno il potenziale tragico. Forse le nuove generazioni in qualche misura resistono alla dolorosa alienazione lamentata da Morrison, in un’America sempre meno bianca e puritana, e molto intenzionata a dare al partito democratico una leader ispanica cresciuta nel Bronx. È questo, dopotutto, il paese di cui Spike Lee e Colson Whitehead, senza mai rinunciare a combattere ogni forma di discriminazione, hanno indicato modelli di convivenza interraziale che, malgrado le tante spinte contrarie, invariabilmente si consolidano in tutto l’occidente, proprio grazie alla persistenza, come negli anni dello schiavismo, di staffette solidali come l’Underground Railroad: cioè delle postazioni predisposte da spiriti riformatori per soccorrere gli schiavi in fuga dal sud, offrendo cibo e accoglienza nelle case di Sam May, di Bronson Alcott e di quel John Brown noto per aver pagato con la vita un tentato sabotaggio all’armeria schiavista di Harpers Ferry.

Terrore e melodramma

Morrison non racconta quest’America dalle profonde radici idealiste e neppure quella estrosa e vitale del rinascimento di Harlem che individuò nel vernacolo la risorsa linguistica primaria per consolidare un patrimonio di ritmi jazz e di voci autenticamente neri di cui tutta l’America può ben andare fiera. I personaggi di Morrison non si affrancano mai dalla dolente cognizione della loro marginalità, vivendo ogni amore come sopraffazione, e modulandolo attraverso le lenti destrutturanti del modernismo di Faulkner e di Woolf, a cui la scrittrice dedicò la sua tesi di laurea.
È contro ogni ordinaria logica affettiva l’incestuoso congiungimento carnale a cui un padre costringe la figlia in L’occhio più blu, nel tentativo di scuoterle violentemente di dosso la sua aria da schiava “frustata”. È contrario ad ogni istinto di materna protezione il gesto della donna che, in Il dono, cede la sua bambina a un padrone munifico che ritiene in grado di assicurarle un destino meno atroce. La scrittura di Morrison usa tutte le iperboli e i paradossi del melodramma, portando il genere sentimentale, storicamente sfruttato a fini abolizionisti da Harriet Beecher Stowe, ai limiti del terrore, in un racconto a sensazione di cui, nella sua animosa denuncia morale, riattualizza gotici livori e un fosco carico di affetti malati.

Ruoli sessuali reversibili

Si può ben dire che i romanzi di Morrison non offrono al lettore percorsi interpretativi alternativi a quelli attentamente predisposti dall’autrice. Nella profusione di pre e postfazioni che corredano i suoi romanzi (debitamente inserite da Portelli nella sua approfondita presentazione dei testi), Chloe Ardelia Wofford non manca di ribadire ogni suo intento, chiarendone genesi e ragioni psico-pedagogiche, tornando didatticamente e a più riprese sul senso di un discorso che, così commentato, si poggia sull’arte dell’invettiva morale, e cioè di quella geremiade americana, studiata da Sacvan Bercovitch nel 1978, che si rivolge profeticamente a un uditorio-gregge fino a farsi arma politica. In questo suo essere creatrice e commentatrice, la scrittrice non abbandona mai il pulpito mainstream della sua omelia pastorale, e nulla lascia all’allusione o al dubbio che certe categorie razziali possano mostrarsi reversibili, come è storicamente avvenuto con l’ascesa dei “white negro” negli anni trenta. Al contrario, con nemesiaca veemenza, Morrison ammonisce che solo quando una corte condannerà un uomo bianco per lo stupro di una donna nera, invece di continuare a rivalersi sull’O.J. Simpson di turno, ogni conflitto razziale sarà placato. La predicazione frontale di Morrison, che è uno dei lasciti più cospicui del genere sette-ottocentesco delle slave narratives, si avvale della rielaborazione dei passi biblici che, nella wilderness, portarono lo schiavo ribelle e visionario Nat Turner a chiamare all’azione la sua comunità oppressa.
Morrison indugia sugli aspetti più torvi e disperanti di questa memoria etnica, disvelandone le perverse ossessioni fino a suscitare una profonda indignazione nel lettore, che socialmente si è trasformata anche in censura, come è accaduto per L’occhio più blu, il romanzo escluso proprio da quei programmi scolastici a cui Morrison ha dedicato molte delle sue energie in qualità di editor di Random House.

Anche la natura, come osserva Bulgheroni, non promette alcuna salvifica fusione trascendentalista col divino, recando i segni implacabili del genocidio del popolo nero, come mostrano i sicomori da cui pendono i rivoltosi impiccati o le calendule i cui germogli non sono destinati a fiorire perché l’incesto di L’occhio più blu provoca solo aborti. La Precious obesa, semianalfabeta e costantemente incinta di cui narra Sapphire in Push è la legittima discendente della Pecola morrisoniana, nel progetto condiviso di un’intensificazione drammatica che sopravvive nelle invettive del #MeToo e del Black-Lives-Matter.
A sottrarre il talento letterario di Morrison ai picchi di un’oratoria fortemente polarizzata interviene, tuttavia, la maggiore reversibilità, rispetto alle categorie razziali, dei ruoli sessuali che, come si legge nelle note ai testi di Sandro Portelli, permettono al suo racconto di individuare imprevisti spazi di libertà proprio negli interni famigliari più anomali e disgregati. Il valore compensativo delle amicizie femminili in una comunità che le difficoltà economiche spingono a un’inevitabile precarietà di relazioni, emerge dalle pagine attente del curatore che non firma ma redige la traduzione delle prefazioni morrisoniane. In virtù della sua profonda conoscenza di questa parte cospicua della letteratura statunitense, forse proprio Portelli saprebbe rendere in assoluta scioltezza la varietà di ritmo e gli azzardi vernacolari della lingua afroamericana. L’editoria italiana, infatti, ancora attende versioni più coraggiose e convincenti di un dialetto che è stato modello d’invenzione lirica per tanti poeti sperimentali che, come John Berryman, hanno operato, a fini estetici, la felice appropriazione di una lingua subalterna che i nostri protocolli di correttezza politica, ottusamente attestati sulla netta divisione di “razze” e generi in universi distinti e inconciliabili, potrebbero perfino ritenere indebita.

daniela.daniele@tin.it

D Daniele insegna letterature angloamericane Università di Udine