Alessandro Marangi – Il modulo

Alessandro Marangi (1965) – Il modulo

Aprì gli occhi prima che suonasse la sveglia. Non voleva disturbarla. Si soffermò al buio qualche istante. Il lenzuolo si sollevava e si abbassava impercettibilmente con ritmo irregolare e a tratti, dal fondo della gola, si liberava un sibilo sottile e preoccupante. Quanto avrebbe resistito prima di peggiorare? Andò in bagno. Meglio fare il turno di notte, si respirava con più facilità perché i livelli di anidride carbonica, per qualche motivo che non aveva compreso, erano inferiori. Avrebbe potuto usare la mascherina con il filtro semplice. Utilizzò solo la metà dell’acqua razionata per lavarsi il viso, l’altra doveva servire per i denti. Entrò in cucina per prepararsi la colazione ed eccolo lì quel maledetto modulo verde. Sara lo aveva lasciato apposta sul tavolo insieme ad un biglietto „prendi presto una decisione. Ti amo‟. Una creatura fragile e delicata la sua Sara ma anche dannatamente tenace ed ostinata. Voleva metterlo alle strette. Per quanto avrebbe potuto rimandare? Non per molto, lei non glielo avrebbe permesso. Collegò il mytools al microchip impiantato nel polso che lo connetteva alla rete dei servizi statali, controllò i parametri principali che erano nella norma, lesse l’elenco delle quantità di sostanze nutritive necessarie per affrontare la giornata secondo programma e la tipologia ottimale di cibo corrispondente. Di seguito lo slogan: “Se ti prendi cura di te stesso ti prendi cura della società”. Cazzo, sanno anche quanti peli ho sul culo, pensò. Ingurgitò la dose prevista di insetti essiccati e il contenuto di una busta al gusto di frutti di bosco, che includeva anche una piccola dose di antibiotici e altri farmaci previsti dalla campagna di prevenzione e profilassi del Ministero della Sanità. Dove erano finite le colazioni che gli preparava nonna Adriana a base di crostata di ricotta e latte con spolverata di cacao? Aveva appena trentun anni e sembrava passato un secolo.

Uscì preparandosi all’impatto. L’aria era lattiginosa. Camminando alzò lo sguardo più volte sulla prospettiva avvilente. Tutto intorno si ergevano casermoni di circa cento piani, costituiti da unità abitative più o meno simili alla sua. Trentacinque metri quadrati per due persone, qualche metro in più per coloro che avevano figli. E tutto questo a perdita d’occhio. Un maledetto alveare dove abitavano tre milioni di persone e dovevano ritenersi fortunati a stare in una piccola città. Circa un decennio prima la popolazione era triplicata, le periferie delle città si erano estese a dismisura fino a congiungersi ad altre ed erano nate le prime megalopoli. La più grande, in Asia, se non ricordava male superava i cento milioni di abitanti.

Distratto, dovette tornare indietro perché aveva superato l’accesso della metropolitana, il suo luogo preferito per riflettere, dato che i dispensatori di ossigeno funzionavano a ciclo continuo. Il sibilo annunciò l’arrivo in perfetto orario, le carrozze gli sfilarono davanti e lui non poté fare a meno di sorridere guardando il banner che pulsava sul fianco di ognuna. Sua madre gli aveva raccontato la storia quando lui aveva appena imparato a leggere e le aveva chiesto spiegazioni riguardo a quella frase che ritrovava ovunque in città, dagli edifici pubblici ai supermercati. Era nata come reazione emotiva popolare a quella che era stata la prima ondata di virus letali del terzo millennio. Non era stata di buon auspicio ma era sopravvissuta come espressione di culto che ormai, per consuetudine, anche nelle occasioni ufficiali o nelle cerimonie formali sostituiva il saluto: “Andrà tutto bene”. Fottuto ottimismo qualunquista.

Non riusciva ad abituarsi ai volti tristi, agli occhi spenti, alle bocche inespressive dietro le mascherine tutte simili. Una volta aveva provato a personalizzare la sua dipingendoci sopra la bocca rossa con la lingua dei Rolling Stones. Un poliziotto gli aveva intimato di sostituirla immediatamente. Controllò lo schermo. Ancora tre fermate. Aveva tempo.

Come erano arrivati a tutto questo? Lui era nato qualche anno dopo la prima pandemia. Alle pronte rassicurazioni dei politici ne erano seguite altre tre, a breve distanza, che avevano provocato decine di milioni di vittime. Poi si erano estinte così come erano comparse, lasciando tutti consapevoli della estrema vulnerabilità dell’uomo, dopo che per un momento si era creduto Dio. Intanto, rispettando i pronostici, una parte delle calotte polari si era sciolta per il riscaldamento e il livello del mare si era innalzato più di un metro, erodendo i territori costieri e costringendo milioni di persone all’esodo verso l’interno. Il clima era cambiato. Le care vecchie stagioni, su cui sua nonna scherzava sempre affermando che non c’erano più, sparirono davvero, lasciando spazio all’alternarsi di eventi alluvionali estremi a cui seguivano lunghi periodi di siccità. Fottuti algoritmi. Ecco la fermata, per un pelo non se la perdeva. Personalmente il cambiamento che lo aveva segnato per sempre era stata l’abolizione della scuola in presenza, durante la seconda pandemia. In seguito, incontrare gli altri di persona era diventato sempre più difficile a causa dello smog. I bambini cresciuti in questo modo tendevano a stare maggiormente isolati ed erano diffidenti nei confronti degli altri, a volte ostili. A sentire gli psicologi, almeno. Da adulti trovare una persona con cui provare a condividere la vita era un impresa epica e molti bambini nascevano in provetta, cresciuti da un unico genitore. Per fortuna lui aveva trovato la sua Sara. Chi l’avrebbe detto che iscriversi ad un sito di incontri, tre anni prima, un po’ per scherzo e un po’ per confermare il suo scetticismo, gli avrebbe cambiato la vita? Certo si trattava di un sito controcorrente, che invece di affidarsi a complessi studi scientifici e sofisticati test sulle affinità si basava sulla totale casualità degli abbinamenti, sostenendo che le probabilità di successo erano le medesime. Totalmente contrario al primo e unico teorema di sua nonna „devi guardarla negli occhi e sentire immediatamente qualcosa dentro‟. E questo effettivamente con Sara era successo durante il primo incontro. La sua Sara, che insisteva e non gli dava requie perché prendesse una decisione.

Forse le generazioni successive, che non avrebbero avuto memoria di crostate di frutta, giochi nei parchi, vacanze al mare e lavori creativi, avrebbero accettato più facilmente questa vita, non avendo confronti. Ma per lui, per Sara e quelli come loro era davvero difficile. Desideri, sogni, speranze erano virus che si ritorcevano contro chi li custodiva. Nessuna legge li vietava se non l’istinto. Naturalmente quello che era accaduto aveva progressivamente conferito maggior potere ai governi, che lo gestivano senza che fosse necessario imporlo, dal coprifuoco al razionamento dell’acqua, visto che la maggior parte delle persone viveva condizionata da una perenne paura ed era disposta a rinunciare alla libertà pur di illudersi di essere protetta.

Era meccanicamente arrivato all’ingresso dello stabilimento di produzione. Lo aspettavano dieci ore alle macchine, come in quel vecchio introvabile film di Chaplin. Ecco un’altra conquista, i sindacati erano spariti e il lavoro straordinario era diventato ordinario. Senza neanche il piacere di avere lo stipendio a fine mese. Il denaro era stato abolito. Ogni mese sul mytools venivano versati un numero di crediti corrispondenti al lavoro svolto, detratte le tasse, che potevano essere usati per ottenere servizi. E di solito, senza fare follie, non restava granché. Erano diventati ingranaggi di un meccanismo che aveva come unico scopo la sopravvivenza.

Entrò consapevole di essere fortunato, perché era in grado di spegnere una specie di interruttore interno che gli permetteva di ritrovarsi a fine turno senza accorgersene. Come ogni giorno il tragitto di ritorno non aveva una storia a sé, era solo la linea più breve tra due punti, dove il punto di arrivo era ritrovare Sara. Ma oggi, ad attenderlo, c’era anche il modulo verde. A dirla tutta, quando avanzava qualche credito, cioè raramente, si concedeva una piccola variante, allungava il percorso di un paio di isolati fino ad un negozio vecchio stile a comprare quei dolcetti che a lei piacevano tanto. Fino a qualche anno prima per il suo compleanno riusciva a portarle una rosa a stelo lungo, ma ormai i fiori erano diventati rarissimi e costosi oltre le sue possibilità.

La trovò alla finestra, assorta a scrutare la nebbia brillante di luce di vari colori, spettacolo affascinante se si prescindeva dalla sua origine. Pareva non essersi accorta della sua presenza. Le si avvicinò, le cinse la vita incrociandole le mani sul ventre e sussurrò il suo nome.

Chissà se fu quello a farla andare dritta al punto -Desidero un figlio -disse, come recitasse una preghiera.

Lui ebbe un fremito, non era stupore né timore, era piacere. -Anche io. Non sai quanto –

Lei si divincolò con agilità, si pose al centro della stanza e girò su stessa con le mani rivolte verso l’alto, come fosse un passo di danza -Qui?-. Non era una domanda, era una staffilata in pieno viso. Spalancò la porta della camera. Un letto, un armadio e appena lo spazio per muoversi -Qui? -. Un fendente preciso e silenzioso. Batté con l’unghia sui tripli vetri sigillati della finestra e indicò fuori -Qui?-La punta di uno stiletto arrivò ai nervi. Era calma. Doveva averci riflettuto a lungo -No, per quanto lo voglia, non crescerei mai mio figlio in un posto come questo. Dovrei essere incosciente, egoista. Ci rinuncerei piuttosto -fece una pausa, lo fissò, crocifiggendolo -Ma io non intendo rinunciarci -.

-Sai cosa mi chiedi? -lui sentì pronunciare dalla sua bocca come non fosse sua.

Lei lo guardò con determinazione -Ti chiedo di compilare quel benedetto modulo. Io l’ho già fatto ma serve che lo faccia anche tu se vogliamo che prendano in considerazione la domanda. Sai che accettano solo coppie o famiglie -.

Nel profondo di se stesso qualcosa si opponeva con tenacia, affondando artigli e zanne. La guardò smarrito -Come faccio, dimmi, come posso fare? -.

Lei non si scompose -Quello devi saperlo tu. Ti sto implorando di credere in noi, di investire nel nostro futuro -.

Ancora quella voce disperata che urlava -No, mi chiedi di lasciare tutto, abbandonare ogni sicurezza, la famiglia, le persone che conosco, per qualcosa che non so neanche se esiste -.

Sara capiva ma doveva tenergli testa -E credi di essere il primo a dover scegliere, l’unico forse? Quanti milioni di persone hanno lasciato il loro paese in cerca di un lavoro, di un’opportunità? Hai idea di cosa significa abbandonare i tuoi figli e sapere che altri li cresceranno al tuo posto, sperando che qualcuno gli spieghi il motivo per cui lo hai fatto? Hai idea del dolore, dello strazio, del coraggio necessario per arrivare al termine di ogni santo giorno e ricominciare quello dopo? -.

Lo sapeva. Sua nonna lo aveva subìto, glielo aveva raccontato quando era bambino. Sentì le lacrime rigargli il viso. -Si, ma qui non si tratta di andare in America o in Australia, di lasciare questa città che tanto non riconosco più. Si tratta di abbandonare la Terra. Per sempre. Per andare dove, su un pianeta morto, senza cielo senza oceani a fare i coloni di un mondo completamente artificiale? -.

Sara si avvicinò, lo abbracciò stretto e lui si abbandonò come un bambino.

Amava quella donna in un modo che non sapeva spiegare. Ecco, pensava, qualcosa che aveva resistito a tutti i virus e a tutte le catastrofi. Ogni parola che lei pronunciava, ogni gesto, ogni movimento erano come radici e rami che lo avvinghiavano. Non era parte di lui, no, doveva ammettere che era tutto di lui.

-Tu ed io -gli disse lei baciandolo -e dobbiamo pregare perché accettino la richiesta –

-Tu ed io -ripeté lui. Si sciolse dall’abbraccio e sedette al tavolo. Un pensiero inaspettato gli attraversò la mente. Com’è che i moduli si compilavano ancora su carta? Prese la penna. Fottutissima vita, però.