Chiara Giglione – Né bene, né male

Psittacula krameri, Amazona ochrocephala, Amazona aestiva: il fatto che fossero le specie maggiormente avvistate in città sul finire del 2021 non significava che fossero le uniche. In ogni caso i pappagalli erano tantissimi e in alcuni quartieri più che in altri affollavano viali e giardini, con una particolare predilezione per gli alberi di cachi e di arance amare. Il Municipio Foce-Carignano, nella persona del suo presidente, si era rivolto a un falconiere, che aveva messo a disposizione uno dei suoi esemplari migliori per disperdere una colonia particolarmente nutrita. Alle piante del lungomare i pappagalli preferivano le zone residenziali, i cortili riparati, i parchi urbani della circonvallazione a monte. Mai avvistato un nido, ma era evidente come le specie – tutte – fossero assai prolifiche. Dalla fine di gennaio del nuovo anno cominciarono ad arrivare le prime segnalazioni all’Agenzia regionale per l’ambiente, all’Ufficio animali del Comune e all’Università: il 2022 sembrava aver inghiottito i pappagalli di Genova, finiti chissà dove. Nulla risultava all’Osservatorio ornitologico della Liguria, cui non sarebbe di certo sfuggita una migrazione di tale portata. Nessuna carcassa a terra o fra i rami, niente più guano e piume sulle auto in sosta. I cinghiali avevano iniziato a giocare a pallone nel greto del Bisagno in secca – ne avevano parlato anche i giornali  –, il  morbillo ittico minacciava i cefali del porto e tutto procedeva come al solito, né bene, né male. 

Febbraio passò lento come non mai, quattro settimane di sole incontrastato: scoppiarono le aiuole, i peschi, le mimose. Fu l’inferno degli allergici. Il ginko biloba di piazza Corvetto si vestì di un oro precolombiano e in marzo si scompose in una pioggia di ventagli giallo-arancio, perfetti, che cadevano a piombo, senza volteggi o deviazioni. Dei pappagalli nessuna traccia. A dire il vero ci fu un momento in cui molti ebbero la sensazione che fossero tornati: accadde un giorno in prossimità dell’equinozio di primavera, e più precisamente una mattina in cui Genova si svegliò dentro una nebbia bassa e tenace, organizzata in un unico banco sospeso sul mare e sulle prime file di case alle spalle del porto e che, a osservarlo dalla linea dei forti, su in collina, oscillava leggermente, alla maniera di un lago dentro la sua conca. Oltre la cortina grigio-bianca strepitavano i gabbiani, non c’era dubbio, e a tratti, guardando in alto, se ne intravedevano le sagome, come attraverso la pelle di un tamburo, ma in alcuni quartieri della città giungeva all’orecchio un intrico di versi remoti eppure distinti, un’eco di voliera, al punto che non furono pochi coloro che pensarono ai pappagalli. Ma no. Quando la nebbia si ritirò, le temperature precipitarono, il gelo azzannò la primavera e in piazza Tommaseo una magnolia si schiantò sulla statua equestre del generale Belgrano. Ma l’aria: secca e trasparente, appariva come tramata, un vetro inciso di segni che si sarebbero detti – nella luce sbieca di metà pomeriggio –  e che si potevano con sicurezza dire – nel primo mattino – linee angolari, variamente orientate. Fu questione di un paio di giorni, poi l’attenzione calò, perchè i numeri dei cinghiali avevano dell’incredibile: controllo palla, marcature, c’era davvero tutto, e la città si ritrovò stregata sui lungofiume e sui ponti, nella speranza che la secca continuasse, mentre la primavera tornava al suo posto e i cadaveri dei cefali seminavano argento sull’acqua verde del porto, tutto intorno alle imbarcazioni dei diportisti e alle motovedette della guardia costiera. 

Aprile non portò nulla, se non giorni di tramontana e il primo torneo a squadre: l’organizzazione fu complessa, ma ne valse la pena. La città si era riappropriata del suo fiume e la fioritura anticipata dei topinambur, sulle sponde e al centro del greto, marcava di un giallo robusto ampie porzioni di terreno, bordate di verde dalla malva e dal cardo mariano. 

L’aria, sempre tesa e trasparente, conservava le incisioni, più o meno evidenti a seconda dell’ora, del momento, forse della temperatura e della pressione, ma non era che un’ipotesi, fatto sta che in piazza della Giuggiola, una sera di maggio, l’ampio spazio cilindrico in corrispondenza del vuoto circolare tra le case si inspessì, o meglio: si addensò, assunse consistenza di corpo che, per effetto della frizione contro altri corpi – l’acciottolato, le facciate, le aiuole delle piante grasse addossate ai muri – generava un suono gentile e vibrato, che solo a tratti si inaspriva, tanto che ci fu chi pensò alle campane tibetane, chi al cigolìo delle barche ormeggiate, ma dalla vicina piazza dell’Olivella, che ospitava la festa della birra a caduta, Stevie Wonder impedì di distinguere le voci che il cilindro d’aria divenuto corpo liberava, Dio dei lunotti, dei cofani, dei tergicristalli, Dio dei viali, degli scooter, ricordati di noi, isn’t she lovely?, isn’t she wonderful?, Dio che ci avevi dato una forma, Dio che ce l’hai tolta, but isn’t she lovely made from love?, isn’t she pretty?, ascoltaci, Signore, riconsegnaci a noi stessi, ancora piume e ali e ancora e ancora, o pelle, elitre o corazza, ma una forma, Signore, noi siamo i morti per distrazione, un gesto mancato, un passo di troppo, fu un attimo, isn’t she lovely?, life and love are the same, non fu rifiuto, il nostro, Padre nostro dei distratti, fummo del mondo e nel mondo vivi, nè bene, nè male. 

Precipitò il mese, l’alta pressione teneva. Genova era ormai, nei fatti, la capitale calcistica d’Italia. I primi infortunati vennero sollecitamente presi in carico da una squadra di veterinari volontari e i  pulcini del 2021 erano molto promettenti. La città, almeno nelle ore diurne, viveva gomiti puntati ai muretti del lungofiume, mentre le formiche avevano preso possesso delle edicole votive del centro storico, anche se, a ben vedere, le modalità dell’invasione non erano identiche ovunque: in piazza del Carmine, ad esempio, la grande edicola della Vergine, fresca di restauro, presentava un grado di occupazione modesto, infatti si potevano distinguere ancora il fondale azzurro, il bambino e Maria, che però dalla vita in giù brulicava di nero, mentre di San Simone Stock, in ginocchio al suo cospetto, restavano liberi solamente la punta della barba e un lembo della veste. In altri casi non c’era più niente da vedere, le formiche saturavano le nicchie e, sconfinando sui muri dei palazzi, le cingevano di un nastro nero, continuo, che scorreva senza tregua.

Venne giugno e il caldo torrido e un mattino il tanfo dei cefali morti si fece insostenibile: non solo intorno al porto antico, ma anche nei quartieri collinari ogni luogo e persona e oggetto ne era impregnato, compresa la biancheria ben ripiegata dentro i cassetti. La notte e il giorno precedenti il morbillo non aveva mietuto più vittime del solito, infatti il numero di pesci adagiati su un fianco a bocca aperta, in quieto galleggiamento tra chiazze oleose e molliche di pane gonfie, gettate in mare dai visitatori dell’acquario, non era più consistente del solito. Non era quello. Era come se ad aria si fosse aggiunta aria, se dal vento tiepido e umido che sembrava formarsi lungo la linea di costa germinasse altro vento, che esercitava il proprio effetto più in alto rispetto al primo: se il primo insisteva sulla città tenendola inchiodata alla terra, il secondo sollevava, disperdeva e, in buona sostanza, orientava al cielo. Fu quel secondo vento a convogliare l’odore su su, oltre il parco urbano dei forti. 

Erano gli angeli, che si erano materializzati, intorno al solstizio, nei luoghi in cui la città mostrava le sue suture, come un abito rovesciato: l’area delle demolizioni dei condomini popolari, sulla collina di Begato; l’immenso cantiere del waterfront di Levante; il bacino delle riparazioni navali, dove il relitto della Costa Concordia era stato smontato pezzo dopo pezzo; i duecentoventi metri di cadavere del silos granario Hennebique; il nuovo ponte; le ex acciaierie. Su questi e su altri luoghi gli angeli apposero un sigillo, poi si incrociarono in volo, per giorni, in un batter d’ali insensato, sconnesso, che alzava terra e odori. Nessuno li vide, forse per effetto della foschia che, con l’afa, fasciava la città, e come erano venuti provarono ad andarsene, ma l’aria opponeva resistenza, così ammattirono, e con loro i cani, i gatti, i rettili dentro i terrari. Non i cinghiali, che perfezionavano la tecnica e di lì a poco sarebbero stati pronti per la prima amichevole contro gli umani. 

Luglio fu tramontana, caldo secco e moderato, serate fresche, fine dell’epidemia di morbillo ittico. La combinazione persistenza dell’alta pressione-minimo tasso di umidità rese l’aria un cristallo, le linee angolari che dalla primavera la tramavano andarono definendosi sempre più e sempre meglio, nei giorni e forse addirittura nelle ore, al punto che intorno alla metà del mese cominciarono ad apparire per quel che erano: ali, che via via acquisivano dettagli e sfumature di colore. Chi camminava per la città, semplicemente guardando davanti a sé, coglieva innanzitutto il verde, organizzato in gradazioni. Poi un movimento, trattenuto, impedito, come di chioma d’albero folta, foltissima, che il vento faticasse a scomporre. Poi, con tutta chiarezza, remiganti, copritrici, scapolari. Chi avesse provato ad allungare una mano, niente. Certe mattine l’aria lasciava cadere  briciole di preghiera, Padre dei distratti, Dio delle circonvallazioni e dei tubi, mentre Genova ritrovava l’incanto a ogni risveglio, Signore delle forme, e adesso?, cinta e infiltrata da un verde che era luce. 

L’aria si lasciava tagliare dagli angeli, ma fino a un certo punto, oltre il quale li respingeva, schiacciandoli contro il mondo. La fine dell’estate vide sforzi, tentativi organizzati, voli in formazioni sempre più complesse, dopodichè la follia divenne manifesta nell’incongruità dei gesti, nella crudeltà. Un esemplare femmina arrivò a ghermire un nuovo nato dei cinghiali e a farne brandelli, davanti al pubblico assiepato per la finalissima della prima Boar Summer Cup. 

Non restava che aprire la caccia.