Elisabetta Carbone – L’uovo sodo

Apro il frigorifero e il viso si illumina di luce bianca. L’uovo sodo, fermo, nel piatto, mi aspetta. È da mangiare in purezza, non ci sono salse o insalate che reggano. Tutto ne inquinerebbe il sapore.

Lo prendo, osservo la superficie opaca, color pelle. Prima ne rompo il guscio con colpi leggeri. Nella spaccatura più netta infilo l’unghia dell’indice. Un pezzo dopo l’altro appare il bianco compatto dell’albume. 

Apro la bocca. Mi sembra già di sentire sotto i denti la polpa esplodere e le guance foderarsi della sua pastosità e la lingua mescolare le briciole di albume e tuorlo, e spargere piacere fra le fessure dei denti, le anse del palato. Allungo la lingua verso l’albume, lo sfioro con la punta, è liscio e freddo. 

Scopro gli incisivi per affondare il morso quando mi accorgo che attraverso la trasparenza della membrana è apparso un filo rosso, che si allunga veloce e isterico. Sotto i miei occhi si dipana in un reticolo di vasi sanguigni. E bagliori improvvisi e viola scoppiano affiorando dall’interno profondo. Il reticolato si avvicina sempre di più alla superficie e la velocità degli scoppi violacei aumenta vertiginosamente. 

Poi diventa una mano, e le dita divaricate steli di fiori dai petali sottili, e i petali ingrossano in corpi di ragni tropicali, e le zampe dei ragni si allungano in rami di alberi. E poi i rami si intrecciano e fra loro compare una ferita, e dalla fessura esplode in fuochi d’artificio, e le scintille si condensano in un’onda increspata e alta. 

Lascio andare l’uovo nel piatto: il suo corpo rimbalza contro il bordo interno di ceramica e scivola rotolando al centro. Porto tutto al tavolo e mi siedo. Lo guardo: sotto la membrana appare un tremolio che la increspa di minuscole vibrazioni. Le scosse aumentano sempre più lunghe, sempre più vicine, mentre le estremità dell’uovo si tingono di rosa. Il rosa si intensifica in arancione mentre le scosse si divaricano in striature e l’arancione le invade e aumenta fino a colorare l’uovo di un rosso fiamma che ne occupa tutto il volume. Subito il rosso trascolora in un prugna denso e poi il prugna si raffredda in viola. 

All’improvviso appare sulla superficie una sagoma nera, gonfia agli estremi, che va allungandosi nel centro e ingrandendosi ai poli, mentre il viola intorno si attenua e si sposta in zone grigie, cupe, bordate di verde. I prolungamenti della forma si affilano e dividono e il verde diventa più brillante e qua e là, poco alla volta, viene attraversato da bagliori gialli. Sull’estremità alta della forma appare un triangolo, mentre il verde si arrotola in piccole volute e i bagliori gialli schiariscono fino al bianco. 

In cucina si alza una brezza e dal frigorifero sembra provenire un vociare femminile, mentre tutto intorno a me si diffonde il suono del mare: nell’uovo la forma allungata diventa il profilo di un bambino e il triangolo di un cappello, le volute di onde e il bianco di gabbiani. Una voce di madre grida vieni qui! e una di vecchia gracchia non andare… All’improvviso la brezza diventa un vento impetuoso: la madre urla, la vecchia geme, il cappello vola dalla testa del bambino mentre le onde si ammassano e i bianchi schizzano rendendo opaco l’uovo che, come immerso in un secchio di vernice, ritorna bianco. 

Le voci si rincorrono nel vento e si moltiplicano fino a diventare uno stridore che rimbalza da una parte all’altra della stanza, mentre l’aria si satura di un odore di erba e terra bagnata. Sul soffitto si addensa una spirale di vento che girando diventa sempre più grande, e un sentore di bruciato si diffonde dal pavimento, trasudando dalle fughe tra le piastrelle di ceramica. Il vento è diventato un ciclone che solleva le quattro sedie intorno al tavolo: i coltelli schizzano dal ceppo e si uniscono alla danza orgiastica sul soffitto, baluginando intorno alla sfera di plastica del lampadario. All’improvviso i fuochi si accendono all’unisono, illuminando l’acciaio del piano cottura di riflessi viola e blu, e all’odore di bruciato si unisce il denso fetore del gas. 

Gli strilli che riempiono la cucina poco alla volta diventano versi di uccelli rapaci; il vortice sul soffitto rallenta e si colora di polvere grigia, spessa, odorosa di ferro.

Sento gli occhi seccarsi nelle orbite, le palpebre irrigidirsi e incapaci di piegarsi. Un velo di sudore sulla schiena mi fa rabbrividire, il busto tenta un movimento. Un grido vorrebbe erompere dalla gola, ma il fiato non muove niente e implode nei polmoni, lasciando uscire soltanto un soffio debole, a forma di vocale. In alto i coltelli puntano verso la mia testa e le loro lame brillano roteando intorno al lampadario. La polvere spessa fa piovere schegge di metallo, le sento impigliarsi fra i capelli. 

Mi alzo dalla sedia e mi butto in corridoio: alle mie spalle la ciancia degli uccelli è ormai un frastuono enorme. Tento di correre, ma le gambe sono zavorrate alle caviglie, così legate da non articolare i piedi. All’orecchio una voce mi sussurra sei arrivata settantaduesima su settantadue! Complimenti! e una risata leggera si dissolve nel rumore del vento. Mi appiattisco contro la parete: le mani scivolano e le unghie si rompono mentre cerco di scavarla per trovare un’intercapedine a cui appigliarmi. Di nuovo la voce, ma questa volta sopra la mia testa, sibila ti sei lavata in mezzo alle dita dei piedi? e poi grida un in orgasmo, e gli uccelli emettono un unico gemito lungo e cavernoso. Un boato mescola i fiati riempiendo l’aria e io non riesco più a respirare, mentre il cuore perde un colpo su due e gli occhi bruciano.

Poi il vento si zittisce, sul pavimento della cucina piomba un frastuono colossale e poi, secco, un silenzio assoluto.

Mi appiattisco contro il muro spostandomi lungo la parete. Sento i muscoli gonfiarsi, l’udito assottigliarsi e l’olfatto dilatarsi per capire cosa fare. Arrivo allo stipite della porta della cucina: riesco a vedere le sedie e i coltelli ammucchiati sul pavimento. Sul soffitto il lampadario è fermo, perpendicolare alla catasta del legno e del metallo di sedute e manici, gambe e lame. 

Mi alzo in piedi e rimango in corridoio, nel varco della soglia, ruotando il capo intorno a me: l’aria è ferma e chiara e sa dei vapori del vano lavanderia – la roba sporca, la roba pulita pronta da stirare, la roba delicata per il lavasecco. E i croccantini di cane e gatti, e il deoambiente che spruzza dalla presa della luce e la begonia che devo rinvasare. E a terra gli specchietti delle gocce d’acqua che stamattina ho perso dalle mani mentre stendevo il bucato a mano prima di uscire. Tutto in divenire, come al solito, mescolato nella maniera che conosco. La mia energia abnorme e terrorizzata a poco a poco rientra, il flusso sanguigno e il respiro rallentano, i sensi ritornano in sede.

Avanzo un passo in cucina, afferro una sedia per le gambe e la rimetto in piedi, poi la seconda, la terza e la quarta, e le allineo sul lato lungo del tavolo. E ficco i coltelli di nuovo nel ceppo, tutti, dal più grande al più piccolo. 

E l’uovo sodo è lì, liscio, intonso, al centro del piatto. La luce del lampadario si riflette debolmente sull’albume. Mi aspetta. Solo e innocente nel vuoto di ceramica. Il pezzo forte del pranzo, a cui penso da ieri con gioia silenziosa e privata. È da conquistare, l’uovo sodo: simula robustezza, resistenza, ma la polpa in realtà è cedevole, e docile, e morbida. E generosa, quando si dà. 

Alzo gli occhi, li muovo intorno, in alto e in basso. Tutto in ordine, in silenzio. 

Prendo l’uovo tra il pollice e l’indice: una patina umida tende a farlo scivolare. Sotto la pelle sento una vibrazione come un battito d’ali. Poso l’uovo nel piatto, con delicatezza.

Lucido e brillante, l’uovo comincia a tremare come scosso da un terremoto interno. Bolle sempre più grandi dilatano l’albume e poi rientrano, facendone fermentare la superficie. Prima puntiforme, poi a gocce, dalla profondità dell’uovo stilla un avana chiaro, che sembra depositarsi a pelo dell’albume e diventare man mano più pieno. Una goccia dopo l’altra, il bianco viene invaso da un marrone freddo, cupo. Il marrone si sgrana nel manto di un leopardo, poi ogni macchia si allarga e diventa la pezzatura di un cavallo, poi i crini del cavallo si allungano e diventano la chioma castana di una ragazza di spalle. Io mi alzo dalla sedia allontanandomi dal tavolo mentre la ragazza si volta, mostrandomi il profilo: ha un naso delizioso, tiene le labbra socchiuse. Comincia a pettinarsi e i capelli ondeggiano ad ogni colpo e diventano sempre più chiari, fino a farsi biondo cenere. Al mio orecchio una voce di bambino bisbiglia come sei bella e svanisce sospirando, mentre la ragazza, con un’eco da microfono, risponde grazie. Poi smette di pettinarsi e il profilo sparisce e i capelli si condensano in una macchia chiara attraversata da solchi di terra cosparsi di semi su cui plana un nugolo di uccellini. Il display del forno si accende e i gradi salgono in velocità, un numero dopo l’altro: lo sportello diventa incandescente e lascia traspirare sbuffi di fumo bianco sempre più densi, spinti a una pressione sempre maggiore. 

In un attimo la cucina è invasa da una luce accecante e gli uccellini stridono ed esplode il rombo di un motore e la voce della ragazza che si pettina dice io sono appassionata solo di te e si dilegua. Il frigorifero si spalanca mentre le piastrelle si staccano dal pavimento come se fosse minato e una voce dolce, baritonale, con la erre moscia sovrasta il frastuono dicendo Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente e lascia andare una risata che sembra un singhiozzo. 

L’uovo comincia a ribollire nel piatto: la sua superficie si copre di cifre che si muovono da un’estremità all’altra avvicendandosi in sequenza. All’improvviso i numeri deragliano dal loro solco, si scontrano e si tramutano in caratteri misteriosi, che si combinano avvicinandosi e allontanandosi convulsamente. I caratteri si illuminano di luce rossa e si proiettano sulla parete, mentre la voce dolce continua a ridere e singhiozzare.

Sul soffitto appare una macchia di pini marittimi, le chiome ondeggianti a una brezza leggera. La voce degrada lenta fino a sfumare ed è sempre più netto il brusio delle foglie nel vento. Ovunque si diffonde la luce sinistra di un tramonto offuscato da nuvole grigie, enormi, che piano investono gli alberi e li fagocitano. 

Indietreggio fino a quando con le mani sento la superficie del muro e mi ci schiaccio con le spalle: le nuvole scendono dalle cime degli alberi sulla mia testa, i tuoni sempre più vicini. Chiudo gli occhi mentre aspetto che la tempesta si abbatta su di me e i fulmini mi attraversino la schiena. Prendimi, sono pronta! Uccidimi!

L’uovo scoppia in una polla di sangue schizzando tutto intorno, mentre i tuoni mi rimbombano nella gola. Una goccia mi tocca la pelle scivolando dalla fronte alla guancia. Poi un’altra e un’altra ancora. Un sapore vischioso, di ferro, mi penetra le labbra mescolandosi al freddo pungente della pioggia. 

Dal davanzale della finestra della cucina il mio gatto mi guarda: nei suoi occhi a fessura si riflettono gli schizzi rossi e le gocce trasparenti.

Il gatto si gira, salta in strada e la attraversa: oltre il fosso, dall’altra sponda, un rospo saltella fra l’erba alta, tentando di sfuggire all’inevitabile incontro con la morte. Il gatto raggiunge il fosso e con un balzo arriva al rospo: lo blocca con la zampa e lo uccide con un solo morso, fondo e fulmineo. Mentre si allontana con il cadavere del rospo stretto in bocca, alza la testa e annusa nell’aria un vento umido e crescente. 

Sarà meglio ripararsi per mangiare, fra poco pioverà.