Michela Lazzaroni – La disincarnata

Non siamo una di quelle famiglie con una traccia di stregoneria nel sangue, nessuna nonna veggente o trisavolo guaritore, nessuna capostipite cieca a cui le donne del paese portassero le foto dei figli dispersi in guerra, eppure la prima domenica di febbraio mia madre non ebbe difficoltà a tramutare i confetti in denti.

Dopo il caffè posò i palmi sul tavolo e spinse il corpo pesante oltre il bordo della sedia, come a lasciarsi precipitare sul pavimento. Non pretendeva il mio aiuto, si sarebbe presa i confetti da sola, ma la anticipai per dimostrare che potevo occuparmi di tutto, di lei, della casa, del funerale. 

Mi alzai con la tazzina vuota in mano e aprii la credenza. I confetti erano nella ciotola blu cobalto acquistata a Bellagio che occupava lo stesso ripiano da quando frequentavo la seconda elementare.

Ne presi tre, ne mangiava sempre tre, e glieli posai davanti, attenta a non sfiorarle le dita. 

Mentre lavavo i piatti, il risucchio ritmico della saliva tra lingua e palato suggeriva che li stesse consumando lentamente, ma quando mi voltai erano ancora sul tavolo.

«Mamma, i confetti» dissi.

Lei mi guardò stupita, come accorgendosi solo allora di non sentirne il gusto. «Credevo di averli in bocca».

«Sono lì».

Abbassò gli occhi. 

«Questi? Li avevo presi per i miei denti».

Da quel giorno non mi riuscì più di partecipare a un battesimo, cresima o matrimonio senza pensare a bomboniere di tulle piene di molari e canini glassati.

Mi trasferii a casa sua, decisa a prendermi cura di lei lasciando che si prendesse cura di me. Confidavo che un paio di settimane sarebbero bastate, a riprova delle mie scarse capacità divinatorie.

Sotto la sua direzione stirai e piegai i maglioni di papà impilandoli sul letto, mentre mia madre li infilava come reliquie in buste di plastica mai usate. Scorsi un lampo di sofferenza nel suo sguardo mentre carezzavo la lana usurata sui gomiti e lo imputai a una malcelata gelosia per quegli indumenti che nessun’altra donna aveva toccato in quarant’anni. La sua devozione mi infastidiva.

Cercai di maneggiarli con delicatezza, ma senza santificarli come faceva lei. Quasi per ripicca, il filo di un pullover color muschio si impigliò nella cerniera di un cardigan e sfuggì alla trama in un piccolo cappio. Mia madre sussultò come se le avessi tirato i capelli. Accorse e si riappropriò dei maglioni. 

«Non così. Mi fai male» disse brusca.

Intendeva che lo stavo facendo male, però quella frase mi rimase impressa, come un vaticinio.

«Piuttosto prendi altri sacchetti».

Obbedii per non rispondere. Le buste erano in fondo all’armadio, ben riposte in una scatola oltre il sipario dei suoi vestiti appesi. Con la punta delle dita sfogliai una schiera d’abiti che conoscevo da una vita e non avevo mai ritenuto belli; nascosta fra questi c’era una gonna gialla plissettata con ancora il cartellino attaccato.

«È nuova?» chiesi.

Si voltò appena. «Saranno vent’anni che ce l’ho».

«Non te l’ho mai vista addosso».

«A tuo padre non piaceva».

Un fastidio familiare mi strisciò in pancia, il biasimo verso una donna che aveva scelto di non esistere e con cui non riuscivo a simpatizzare nemmeno adesso che era diventata vedova. Accarezzai la stoffa intonsa per scacciare quel sentimento. «È molto bella».

Mia madre continuò a imbustare il guardaroba. «Se ti piace prendila. Ma lasci qui le mie gambe».

Sorrisi pensando a una battuta, ma smisi subito perché mi parve di vederle, le gambe di mia madre che penzolavano oltre l’orlo della gonna come quelle di un impiccato. 

Tre sere dopo la sorpresi a tagliare le unghie a una pantofola. Era accucciata sul bidet, la gamba ripiegata contro il petto in un contorsionismo del quale non la credevo capace, con indosso solo l’accappatoio e le ciabatte amaranto che le avevo regalato a Natale. Con una forbicina per la pedicure accorciava la pelliccia sulla punta della pantofola destra, seminando le piastrelle beige di pulviscolo rosso.

Ero troppo sconvolta per esigere spiegazioni, scattai in avanti e le strappai la ciabatta di dosso. Il piede nudo era pallido e gonfio come una salsiccia viennese. 

«Sei impazzita?» chiese con aria offesa.

«Tu sei impazzita» strillai.

Lei aggrottò la fronte e tese la mano col palmo rivolto in alto, un gesto che le restituì d’un colpo autorità e giovinezza, rievocando le infinite volte in cui, in quella stessa casa, aveva preteso le riconsegnassi un giocattolo, o un dolcetto rubato.

«Ridammi il piede» disse.

Guardai la cosa che avevo in mano. 

Detesto le pantofole pelose, sembrano roditori imbalsamati dai colori sgargianti, ma quella mi fece un’impressione diversa. Aveva la consistenza, il peso e persino la trama morbida ed elastica del piede mozzato di mia madre. 

La lasciai cadere sulla stuoia, disgustata dalla mia fantasia. Aggredii la saponetta e lavai le mani a lungo, fregando la schiuma celeste sulle braccia fino ai gomiti, mentre mia madre raccoglieva la pantofola, la infilava e ricominciava a tagliarsi le unghie.

A primavera aveva perso la cognizione del proprio corpo. Non sapeva dove mettere gli occhiali perché non trovava il naso. Riusciva a mangiare solo davanti allo specchio, scrutando con diffidenza il buco mobile che le pareva la bocca di qualcun altro. Una volta chiese se avevo visto in giro i suoi mignoli.

Una demenza così circoscritta mi avrebbe non dico fatto piacere, ma almeno tranquillizzata. Invece mia madre iniziò a colonizzare la casa.

Aveva l’abitudine di pettinarsi presto, prima che mio padre si alzasse, dando forma ai boccoli grigi con la spazzola tonda. Smise di farlo, almeno su se stessa. Una mattina la trovai a districare nodi polverosi tra le fibre del tappeto damascato. Glielo impedii, e il giorno dopo li scoprii tutti e tre nascosti in bagno, lei, la spazzola e il tappeto. 

Massaggiò con burro di karité il divano in ecopelle, insaponò la mobilia antiquata col guanto di muffola, lucidò i confetti con lo spazzolino da denti – c’era da aspettarselo.

La neurologa convenne che seguiva una certa logica. «Sta trasferendo la sua coscienza altrove» disse, come fosse perfettamente normale, come se i postumi della menopausa includessero vampate, aumento di peso e trasferimento della coscienza. 

Ho sempre avuto la propensione a sceneggiare i miei dispiaceri per adattarli alla trama della mia vita. Una madre pazza era un personaggio formidabile per impormi una crescita personale che, ero sicura, alla fine sarebbe arrivata. Eppure nemmeno allora provai compassione, perché neanche per un secondo dubitai che lo facesse apposta. Mia madre stava volutamente sgocciolando fuori dal suo corpo per incarnarsi in tutto quello che toccava. 

Egoista come sono, me ne sarei preoccupata il giusto, se solo non avesse contaminato anche me.

«È appeso nel pensile a destra» suggerì dal divano, oltre la parete della cucina che io e mio padre avevamo fatto rimodernare nonostante lei fosse contraria, e dove adesso mi rifugiavo per evitare il suo corpo tentacolare.

Rimestai il brodo di ossobuco e abbassai la fiamma con un brivido, la manopola del gas sembrava un capezzolo turgido.

«A destra» ripeté. 

Non poteva vedermi – non con gli occhi di prima, almeno – eppure sapeva che cercavo il mestolo grande, presentiva i miei movimenti e i miei pensieri come se abitassi ancora il suo ventre. 

«Perché lo fai?» chiesi.

Il brodo sobbolliva aliti saturi di bile. Distolsi lo sguardo, nauseata, ma ovunque lo posassi vedevo lei. Le orecchie nelle presine appese, la scapola nella curva del tostapane, l’iride azzurra nei calici della cristalleria. Piegavo asciugamani in rettangoli di pelle scuoiata. Mi sedevo sui sanitari come su ginocchia di porcellana. L’intera casa era un bozzolo pulsante di carne di madre.

«Fare cosa?»

«Trasformarti in tutto».

Il pensile a destra, che avevo ignorato di proposito, era spalancato adesso. L’antina lucida rifletteva la mia sagoma stinta, l’unica cosa lì dentro a non essere ancora lei. Presi il mestolo che era una tibia e composi i piatti.

«Perché lo fai?» chiesi di nuovo.

«Perché esisto» rispose la pentola.

Una domenica mattina non si alzò dal letto e gliene fui grata. 

«Guarda» bisbigliò.

Lo sentivo, stava per rivelare una di quelle epifanie gloriose che colmano la narratrice di verità e perdono, ripagandola infine dell’essere mai stata figlia. Mesi di pena cristallizzati in un unico, limpido istante perfetto che avrei potuto ricordare in eterno, con nostalgia, e dimenticare di aver mai abitato dentro di lei.

Mi avvicinai al materasso, commossa e speranzosa.

«Guarda» ripeté.

Desideravo esaudirla, notare qualunque cosa voleva che notassi, stringerle la mano e dire «Ho visto, ho capito», ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a vederla, anzi, non l’avevo mai vista. Da sempre percepivo mia madre atomizzata in diapositive, le mani che lavano i piatti, i lobi delle orecchie vuoti, le caviglie gonfie, gli occhi severi, o arrendevoli, o assenti. Non l’avevo mai considerata tutta intera. 

La luce dell’alba colorava di giallo i muri ricoperti di pori, le chiazze di sudore negli angoli, le tende d’organza sottili come capelli, la trapunta che respirava appena. Una singola lacrima gocciolava dal rubinetto.

«Guarda. Sono bellissima».

In seguito dissero che era morta, che il dolore per la perdita di mio padre l’aveva consumata, ma io sapevo con quanta ostinazione si fosse divincolata da un corpo del quale era stata soltanto inquilina. Di tutte le storie in cui aveva abitato, aveva scelto la propria.

Vorrei raccontarmi migliore di come sono, dire che ho imparato ad amare mia madre, che mi sono trasferita con lei, dentro di lei. Invece iniziai subito a sbrigare le pratiche per vendere la casa. Non potevo perdonarla prima, per essere stata solo moglie e madre, e non potevo perdonarla adesso che aveva deciso di non esserlo più.

Mi amava, e io l’avevo tradita. Ma non lo facciamo tutti?

Dopo la veglia funebre e il frettoloso saluto di lontani parenti per niente magici, dormii in lei un’ultima notte, con la sua esuvia nella stanza accanto.

La federa era tesa, vibrante, faceva impressione e tenerezza come un gattino appena nato. Mi raggomitolai su un fianco, avvolta nelle lenzuola profumate di ginestra, e posai il viso sul cuscino tiepido, sprofondando lo zigomo nei fiocchi di ovatta. La stoffa rispose con un fremito affettuoso, quasi un sospiro, e baciò la mia guancia con labbra di cotone. 

Restammo così, pelle contro pelle, finché non mi addormentai.