Augustine Sedgewick – Coffeeland

Un film d’avventura del capitalismo globale

di Ferdinando Fasce

Augustine Sedgewick
Coffeeland
Storia di un impero che domina il mondo
ed. orig. 2000, trad. dall’inglese di Daria Cavallini,
pp. 475, € 35,
Einaudi, Torino 2021

Coffeeland, Augustine Sedgewick. Giulio Einaudi Editore - La BibliotecaDifficile dire quante volte al giorno la domanda “ci facciamo un caffè?” echeggia sotto qualsiasi latitudine. Di sicuro se ne consumano circa 2 miliardi e mezzo di tazzine quotidianamente. E, dice lo storico statunitense Augustine Sedgewick (dottorato a Harvard, oggi docente al College University of New York) in questo affascinante libro, “caffè” è forse la parola più diffusa sul pianeta. Eppure quattrocento anni fa era una misteriosa usanza ottomana, basata su una pianta originaria dell’Etiopia e segnalata per la prima volta in un locale di Costantinopoli a metà Cinquecento, senza neppure ancora un termine per definirla in inglese. Per capire come la bevanda oggi più consumata al mondo (37 kg all’anno in una famiglia italiana media) sia diventata tale occorre lasciar fare all’obiettivo di Sedgewick, che si muove curioso da un continente all’altro, seguendo da vicino per oltre un secolo, da fine Ottocento a fine Novecento, le peripezie di un magnate del settore, l’inglese James Hill, e dei suoi discendenti. Siamo così immersi in un turbinio di figure da romanzo o da film d’avventura e di colpi di scena incessanti, attraverso i quali si può leggere la storia del capitalismo globale dell’ultimo secolo e mezzo. È una storia, va ribadito, basata su una straordinaria ricerca dell’autore, fra archivi personali e d’impresa, carte governative, innumerevoli fonti a stampa oscure e dimenticate, distribuite fra l’Europa, gli Stati Uniti e l’America Latina, in una logica d’indagine senza confini territoriali, simile a quella di Sven Beckert (L’impero del cotone. Una storia globale, Einaudi, 2016), uno dei tutors di Sedgewick a Harvard. È una storia di crescenti connessioni e intrecci territoriali, lungo la filiera che unisce la produzione e il consumo di caffè, ma anche di non meno profonde divisioni sociali ed economiche, fra aree del mondo che lo producono e aree che lo consumano.

Lo sguardo del libro si concentra progressivamente sull’emisfero occidentale, riguarda cioè il rapporto fra l’America Latina, e in particolare il piccolo stato del Salvador, che presto ne diventa, con le sue piantagioni e torrefazioni a capitale locale e britannico, la terra produttiva di elezione, e gli Stati Uniti, e in particolare San Francisco, che a inizio Novecento è un terminale distributivo in crescita costante, grazie all’intuizione dei suoi torrefattori, che inventano l’assaggio in tazza, la rigorosa procedura per la selezione del caffè a opera di esperti che presto si afferma in tutto il mondo. Ma in verità la storia comincia a Manchester, la Cottonopolis dell’impero britannico, da dove a fine Ottocento un diciottenne James Hill, figlio di un modesto dipendente ferroviario, dopo un periodo trascorso a Londra da commesso di una bottega di tessuti, decide di tuffarsi nell’enorme corrente commerciale di esportazione di manufatti ai ceti medio-alti dell’America Latina. Ed emigra in Salvador, a cercar fortuna come commesso viaggiatore di prodotti tessili.

Destino vuole che proprio in questi anni la concomitante soppressione della schiavitù in Brasile e la diffusione di un terribile fungo dannoso, la ruggine del caffè, a Giava metta temporaneamente fuori combattimento i due principali concorrenti dei produttori salvadoregni, i cui preziosi chicchi costituivano già a fine Ottocento i tre quarti delle esportazioni nazionali. Sposatosi con l’erede di un piantatore salvadoregno, Hill accende un prestito con una banca inglese per costruire uno stabilimento di torrefazione capace di sfruttare il potenziale della domanda statunitense. Che nel frattempo, assorbendo la forte cultura del caffè che arriva con le nuove ondate migratorie dall’Europa centrale, meridionale e orientale, crea il primo mercato veramente di massa della bevanda, con un consumo doppio di quello dei tedeschi e dei francesi e dieci volte quello italiano e inglese. Sfruttando senza ritegno la manodopera salvadoregna, trasformando l’intero territorio dello stato nella monocultura più intensiva della storia moderna, all’ombra di governi locali favorevoli a lui e ai suoi colleghi e sotto l’egida politica ed economica yankee, Hill e i suoi eredi costruiscono un impero. Che non va immune da duri conflitti sociali a opera dei lavoratori durante la Grande depressione, ma sopravvive e prospera sino al secondo dopoguerra, mentre la “pausa caffè” diventa l’“istituzione nazionale degli impiegati”, statunitensi e non. Ma lasciando al lettore il piacere di scoprire i tanti risvolti sociali ed economici che stanno dentro una tazzina, è auspicabile di vedere presto una ricostruzione a tutto campo del ruolo svolto dal nostro paese in questa storia dal lato della produzione, del consumo e della diffusione del made in Italy.

ferdinando.fasce@unige.it

F. Fasce insegna storia contemporanea all’Università di Genova