Eccentrici e insulari: i vittoriani di Chesterton tra libero pensiero e tradizione

Bacchetta e crostino imburrato

di Enrica Villari

dal numero di giugno 2017

Gilbert Keith Chesterton, in uno dei tanti scritti su Dickens, aveva sostenuto che non era vero che lo spirito puritano aveva talmente impregnato di sé gli inglesi nel Seicento da renderli, come si ripete di continuo, “un popolo incurabilmente puritano”. I puritani vinsero sì la guerra civile ma non trasformarono gli inglesi, i quali non furono mai quintessenzialmente tali quanto all’epoca di Shakespeare, ovvero prima della comparsa dei puritani. “Una moralità nuova, fredda e illiberale” iniziò ad affermarsi secondo Chesterton solo “all’epoca della regina Vittoria, non di Elisabetta”, e riteneva dunque molto probabile che la visione degli storici a venire sarebbe stata che “i puritani trionfarono in realtà per la prima volta solo nel ventesimo secolo, e che Dickens fu l’ultima voce dell’Inghilterra allegra”.

Il compromesso vittoriano

Questa visione della cultura inglese dominata dall’Inghilterra “latina” di Chaucer, partecipe dello spirito di un medioevo europeo non ancora turbato dalla riforma, quella “allegra vecchia Inghilterra” che il puritanesimo arrivato dal mondo nordico insidiò per quasi un paio di secoli finché essa rivisse possente nel genio di Dickens, è fondamentale per intendere il libro di Chesterton sui vittoriani, (L’età vittoriana nella letteratura, pp. 211, € 14, Milano 2017). Pubblicato da Adelphi nella bella traduzione di Paolo Dilonardo (che riproduce la verve della maestria stilistica della lingua di Chesterton rendendo così finalmente giustizia a un grande scrittore di lingua inglese del Novecento spesso trascurato se non ignorato dalla grande editoria italiana), è composto di analisi magistrali e spesso folgoranti dell’opera di saggisti, romanzieri e poeti, uomini e donne, grandi e meno grandi dell’Ottocento inglese. Soprattutto guarda a quell’epoca come a un capitolo fondamentale della storia della cultura europea post-illuminista e post-rivoluzionaria.

La caratteristica principale dei vittoriani fu infatti, secondo Chesterton, la versione piuttosto eccentrica e molto insulare che essi diedero della lotta fra la vecchia teoria spirituale e la nuova teoria materialista, ma anche, in un senso più generale, tra la persistenza di un sapere tradizionale, intuitivo, comunitario e l’affermarsi del moderno libero pensiero. L’eccentricità fu appunto il compromesso, quella che Chesterton definisce “una situazione di stallo”. La chiesa cristiana riuscì a difendere le sue cittadelle e il movimento razionalista conquistò sempre più potenti avamposti, ma nessuno dei due ebbe “forza sufficiente per espellere l’altro” finché sul finire del secolo le posizioni si radicalizzarono e iniziò così tutta un’altra storia. Il compromesso vittoriano fu invece una vasta strategia di rifiuto della radicalizzazione del conflitto in tutti gli ambiti. Se politicamente il suo spirito fu inaugurato da Macaulay, “il borghese di Belgravia”, e dal suo “compromesso aristocratico” che spazzò via dall’Inghilterra la democrazia radicale della borghesia francese rivoluzionaria ma anche la tradizione autoctona della democrazia naturale di William Cobbett, dal punto di vista intellettuale si manifestò in una convivenza tra visioni conflittuali non solo nel panorama culturale dell’epoca, ma anche all’interno dei singoli grandi vittoriani. Se da una parte infatti il loro razionalismo fu molto più radicale di quello del secolo dei lumi (perché gli illuministi credevano nella ragione e nella democrazia, mentre i vittoriani, i primi perfetti interpreti dello scetticismo moderno, dubitavano di tutto e non credevano in nulla), e la “filosofia in carica” della loro epoca fu l’utilitarismo di Jeremy Bentham, pure contro quella visione materialista e puramente economica della vita tuonarono le voci possenti dei grandi nemici del compromesso vittoriano, il cattolicesimo bellicoso di Newman, la critica del progresso e il protestantesimo romantico e nordico di Carlyle, la cultura di Arnold, il socialismo e la bellezza celebrati da Ruskin.

Al tempo stesso un gigante e un nano

E se paradossalmente proprio dall’utilitarismo sbocciò “il fiore” di John Stuart Mill, nel quale quanto c’era di rozzo nella filosofia dell’utile fu ingentilito dal culto della libertà e dalla cavalleresca difesa dei diritti e dell’emancipazione delle donne, una qualche forma di contraddizione domina anche invariabilmente ogni grande vittoriano, il quale secondo Chesterton fu sempre e “al tempo stesso un gigante e un nano”. Il pensiero ardito si spingeva a tentare di abbracciare tutto, e non conosceva dunque quel riposo garantito dal mistero del dogma o dall’autorità della tradizione che, aveva scritto Chesterton in Ortodossia, mantiene sano il pensiero dell’uomo comune. Tuttavia “dopo aver percorso il cielo in cerchi di infinita grandezza” il pensiero vittoriano “d’improvviso si rattrappisce in qualcosa di indescrivibilmente piccolo”. Ci sono momenti – scrive Chesterton – “in cui George Eliot si trasforma da profetessa in governante. Ci sono momenti in cui anche Ruskin si trasforma in una governante, senza avere neppure la scusante del sesso”. Ma questo stonato nanismo che rende zoppi i giganti vittoriani e che fu il loro limite, fu anche la loro grandezza, ciò che li salvò dal “greve idealismo teutonico” che aveva indebolito a tratti la chiarezza di visione, da contadino scozzese, di Carlyle.

Uno dei punti fermi della visione di Chesterton è infatti la difesa dell’uomo comune, della verità della tradizione e delle favole, di un pensiero che non si svolge in isolamento perché “in qualsiasi età un grande uomo deve essere un uomo ordinario, oltre che straordinario. Coloro che sono solo straordinari sono depravati, e seminano pestilenza”. Strettamente connessa a questa difesa della saggezza dell’uomo comune è la sua fede nella democrazia. La democrazia, aveva scritto Chesterton, ci dice “di non trascurare l’opinione di un uomo buono, anche se è il nostro stalliere” e la tradizione “di non trascurare l’opinione di un uomo buono, anche se è nostro padre”.

Charles Dickens e gli altri

Donde la celebrazione del più grande di tutti i vittoriani, Charles Dickens. Il suo fu il più micidiale attacco alla freddezza della filosofia dell’utile, e lo fu perché fu largamente inconsapevole. Si potrebbe dire che Dickens non sapeva che altri conducevano quella battaglia culturale, o che comunque non fu quella la cosa fondamentale. Egli semplicemente vide che la ricchezza di una nazione non era la ricchezza del popolo, e non ebbe bisogno di altro. Dickens è il grande scrittore democratico, capace di una compassione ampia e universale per ogni sorta di vittima di ogni sorta di tiranno. Aveva l’innocenza delle folle che vivono in tempi ingiusti, e in lui rivisse possente lo spirito della democrazia naturale di William Cobbett, e la sua fierezza di “essere un uomo ordinario”. Non aveva la cultura dei suoi grandi contemporanei ma aveva quello che Chesterton chiama un infallibile buon gusto: “Apriva la bocca, chiudeva gli occhi e vedeva ciò che l’Età della Ragione aveva da offrirgli. E, dopo averlo assaggiato, lo sputava”. La folla mirabile dei suoi personaggi furono l’“esercito irreale” che conquistò infine la “cittadella dell’industrialismo ateo”, come prova l’aneddoto di Matthew Arnold che, nel tentativo di spiegare ciò che era sbagliato nell’educazione della borghesia inglese a paragone con più illuminati modelli educativi europei, finì per ricorrere all’aiuto di Dickens, e affermò che la scuola della borghesia inglese era quella di Mr. Creakle, il maestro sadico dell’infanzia di David Copperfield e dei suoi piccoli compagni, con la sua bacchetta e il suo crostino imburrato. È probabile – commenta Chesterton – che, a differenza di Arnold, Dickens non conoscesse altro tipo di scuola, “ma (…) vide la bacchetta e il crostino imburrato, e seppe che ciò era completamente sbagliato. In tal senso Dickens, il grande fabulatore romanzesco, è davvero anche il grande realista. Poiché non aveva astrazioni, non aveva altro che la realtà da cui trarre il romanzesco”, e la sua “è la più squisita delle arti: l’arte di trarre piacere da chiunque”.

E tuttavia, anche se il genio naturale di Dickens e la sua folla di personaggi comici incredibili e indimenticabili furono l’eccezione, ed è invece la serietà ciò che massimamente distingue i vittoriani (“la tendenza a sostituire gli estremi della tragedia e della commedia con una certa serietà più o meno soddisfatta” insieme alla loro “pervasiva atmosfera morale”), pure – ci ricorda Chesterton – i vittoriani furono anche dei grandi umoristi. All’inizio del secolo Byron era riuscito infatti a insegnare agli inglesi quello che Goethe non era mai riuscito a insegnare ai tedeschi, “il dovere di non prenderlo sul serio”. Donde il limite del virgiliano Alfred Tennyson, “l’inglese che si prende sul serio – uno spettacolo tremendo”, a tutto vantaggio – nell’analisi di Chesterton – del disarmonico e dissonante Browning. Perfino in George Eliot (colei che incarna la serietà vittoriana al punto che il suo nome può fungerne da sinonimo), ritroviamo nei romanzi migliori, che erano secondo Chesterton i primi, “vero umorismo, di tipo fresco e spumeggiante”. Ma è soprattutto l’invenzione del nonsense, che il genio di Lewis Carroll e Edward Lear rese immortale nella letteratura per l’infanzia o destinata al mero intrattenimento, il segno sicuro della irriducibile eccentricità vittoriana. In aperta opposizione all’atteggiamento di superiorità assunto spesso dai protagonisti del modernismo nei confronti dei giganti del secolo precedente, Chesterton riteneva che se è innegabile che i vittoriani sbagliarono a credere che il commercio estero avrebbe promosso la pace (promosse invece la guerra) e che il commercio interno avrebbe esteso la ricchezza (estese invece la povertà) dovremmo tuttavia imparare dai loro esperimenti sbagliati. Se non lo faremo “ciò graverà pesantemente sui vivi. E non sarà sui morti che graverà il disonore”. Soprattutto ci mette in guardia contro la facile tentazione di ridere di uno di loro perché limitato, moralista, convenzionalista, opportunista, o formalista. Da vero vittoriano (“sono nato vittoriano e provo non poca simpatia per il serio spirito vittoriano”) ci ricorda che fu anche “un vero umorista, e forse sta ancora ridendo di voi”.

evillari@unive.it

E Villari insegna letteratura inglese all’Università Ca’ Foscari di Venezia