Franco Cordelli – Proprietà perduta

Delegare al corpo la dimensione poetica

recensione di Massimo Castiglioni

dal numero di marzo 2017

Franco Cordelli
PROPRIETÁ PERDUTA
pp. 272, € 24
L’Orma, Roma 2016

Castelporziano, 28-30 giugno 1979. A molti, luogo e data non diranno nulla; ad altri evocheranno una serie di ricordi, poco importa se nitidi o sbiaditi. In quei tre giorni, sulla spiaggia romana di Castelporziano, si tenne il primo Festival internazionale dei poeti (attenzione: dei poeti, non della poesia, e non è una distinzione di poco conto), organizzato da Ulisse Benedetti, Simone Carella e Franco Cordelli, già animatori, l’anno precedente, delle sperimentazioni poetiche del Beat ’72 di Roma. Sul palco costruito per l’occasione si alternarono poeti italiani e stranieri, costantemente in contatto con un pubblico, quello della poesia, decisamente restio a starsene seduto a guardare e ad ascoltare. Più che il desiderio di assistere a una manifestazione senza eguali in Italia, una forte spinta di partecipazione, una volontà di sostituirsi al poeta di turno per prendere il microfono, parlare e non essere più il “pubblico”, giacché “pubblico è chi si raduna per porsi di fronte a qualcosa, che potrà poi essere applaudito o distrutto, esaltato o sconfitto. Non è pubblico duemila persone che si radunano per schierarsi, per sostituire i candidati, per salire in un giorno solo – chi si reputa troppo uguale a se stesso e ad ogni altro”.

La citazione viene dal libro che più di ogni altro rappresenta Castelporziano: Proprietà perduta di Franco Cordelli, originariamente pubblicato da Guanda nel 1983 e ora riproposto, nella collana Fuori Formato, dall’Orma (arricchito da una breve prefazione dell’autore e da una postfazione di Andrea Cortellessa). Proprietà perduta è il terzo capitolo di una particolare storia che lega Cordelli al mondo della poesia. Nel 1975 viene licenziata per Lerici l’antologia, più volte ristampata, Il pubblico della poesia, curata in collaborazione con Alfonso Berardinelli; nel 1978 è la volta del Poeta postumo. Manie pettegolezzi rancori (ancora Lerici), che avvalendosi di un fondamentale apparato fotografico si cala all’interno delle serate del Beat ’72; passano ancora alcuni anni, ed ecco Proprietà perduta, testo al di fuori di ogni etichettatura – diario, memoriale, romanzo, saggio –  diviso in due sezioni distinte e complementari. La prima, Il mare della metafora, si riferisce all’esperienza di Castelporziano; la seconda, Commento al testo, riprende il discorso a partire dal secondo Festival Internazionale dei poeti, tenutosi, questa volta, nella più ordinata cornice romana di piazza di Siena a luglio del 1980.

Il libro, in ciascuna parte, si presenta frammentato in una serie di paragrafi più o meno lunghi, ognuno introdotto da un titolo non sempre coerente con il contenuto. Non una banale cronaca, ma certamente una testimonianza; non un romanzo, ma in questione entra la possibilità del romanzo, il suo esistere o sopravvivere: “In Cordelli la vecchia, centenaria malattia del romanzo, si capisce, non si era assopita del tutto… Al contrario sonnecchiava in lui, come una bestia pronta da un momento all’altro ad artigliare. Si accorgeva, ad esempio, che un luogo continuava ad ossessionarlo, e sapeva benissimo che quello era un sintomo inequivocabile. Che cosa è un romanzo infatti se non l’invenzione di un luogo?”. Il luogo è ovviamente la spiaggia, quella su cui è stato edificato il palco destinato a crollare durante l’ultima sera e su cui si sono alternate esibizioni di ogni tipo. Poeti più che poesia, si diceva all’inizio. La presenza fisica, la spettacolarizzazione e l’azione scenica del poeta prendono il sopravvento: ad unire gli autori, italiani e stranieri (tra i quali si ricordano William Burroughs e Allen Ginsberg), è il fatto di aver delegato al corpo la dimensione poetica. E intanto il palco diventava un terreno di lotta, tra chi avrebbe dovuto leggere e chi, tra la folla, cercava di conquistare e sfruttare lo spazio per puro esibizionismo, nonostante i presentatori facessero di tutto per mantenere l’ordine (un altro ottimo strumento per comprendere quella situazione è Castelporziano. Ostia dei poeti, il film che Andrea Andermann girò per l’occasione, 1980). Una ragazza in particolare, ricordata da Cordelli e immortalata dal film, si aggrappava tenacemente al microfono tanto che era quasi impossibile strapparglielo dalle mani. È stata ribattezzata col nome di “Ragazza Cioè” (così è tuttora ricordata) a causa di quel martellante “cioè” che ripeteva ossessivamente. Cercava di mettersi al centro dell’attenzione formulando frasi sconclusionate, quasi prive di senso, ma da cui emergeva un certo piacere per il luogo, per quella bella gente e una gran voglia di comunicare.

Castelporziano, un’avanguardia per le masse

Il tentativo di Castelporziano di mettere in scena una forma d’avanguardia per le masse (con il rischio, nella successiva edizione di piazza di Siena, di doversi difendere dalla massificazione del festival) ha contribuito a rivelare nuove presenze, lontane dalla cultura e dagli ambienti intellettuali ma decise a occupare un’area e a impossessarsi del microfono come fosse un oggetto di potere, nella convinzione di poter essere uguali ai poeti sul palco. Del resto, come già accennato, anche il pubblico faceva parte dello spettacolo (sebbene determinate situazioni non fossero certo previste); e se il pubblico di Castelporziano ha avuto la pretesa di diventare lui stesso protagonista del festival è stato perché utilizzava lo stesso strumento espressivo dei poeti. A un concerto di musica rock gli spettatori non si mettono in testa di saltare sul palco per annullare la distanza con i musicisti e sostituirsi a loro, perché il linguaggio musicale è ignorato da tutti e a nessuno verrebbe in mente di suonare la chitarra dopo averla strappata di mano al chitarrista. La distanza rimane solida e accettata. Cordelli si rende conto di tutto questo, della particolare condizione che lega il pubblico della poesia ai poeti, e a tal proposito, nella seconda parte, scrive alcune interessanti considerazioni: “L’enorme successo di pubblico si basa su un meccanismo di identificazione non mitico ma plausibile: io posso veramente fare come lui (Giudici, Lolini, Bettarini o Baraka) e lo posso fare qui e ora perché io parlo come lui. I ‘minestrones’ di Castelporziano, non vedendo la differenza del testo, credevano che la differenza consistesse solo nel possesso del microfono, cioè credevano che fosse solo una questione di potere. Ma non basta un microfono per fare un poeta, così come non basta il possesso di una macchina da scrivere o di una stilografica (…). Perché, paradossalmente forse, ma il pubblico della poesia ha ragione: è vero che c’è meno differenza tra un ragazzo che parla più o meno correttamente l’italiano e Valentino Zeichen che non tra il medesimo ragazzo e uno qualsiasi dei Pink Floyd. Ma la differenza c’è, anche se non si vede. Si tratta di renderla evidente, di non cadere in due eccessi opposti: né snobistica chiusura nel testo, né mignottesca apertura alla musica”.

La seconda edizione del Festival rende particolarmente evidente questa differenza, e la gente, approvando o dissentendo, si è limitata ad ascoltare i poeti. Una vera ripetizione di Castelporziano era impossibile e ogni tentativo poteva soltanto contribuire a rendere ancor più marcato quel senso di perdita che si avverte subito dopo aver vissuto qualcosa. La proprietà perduta del titolo, dunque, non si spiega soltanto con il riferimento a La vera vita di Sebastian Knight di Vladimir Nabokov (come sottolinea l’esergo della prima sezione), ma chiamando in causa un’esperienza (quella del festival e della poesia) ormai scomparsa per sempre e irripetibile, anche e soprattutto in virtù del libro che ad essa è dedicata.

massimo1812@gmail.com

M Castiglioni è critico letterario