Dispacci da Cannes #3

Indagini famigliari nei film italiani della 74esima edizione

Si è già detto molto sulla presenza italiana alla 74esima edizione del Festival di Cannes: pochi i film, e quindi poche le occasioni per promuovere le recenti produzioni di casa nostra. Eppure questo non ha significato meno attenzione e meno qualità. Perché il concorso principale ha ospitato il nuovo film di Nanni Moretti Tre piani, pronto da un anno e rimasto fermo per la pandemia, la Quinzaine des Realisateurs il terzo film di Jonas Carpignano A Chiara (ottenendo il premio Europa Cinema Label) e la nuova sezione Cannes Premiere ha visto passare lo splendido Marx può aspettare di Marco Bellocchio, a cui è stata consegnata la Palma d’Onore per l’intera sua opera (in Italia è in sala da alcuni giorni). Quello del regista piacentino è una sorta di diario che contiene le riflessioni di tutti i membri della famiglia Bellocchio ancora in vita (Letizia, Pier Giorgio, Maria Luisa, Alberto e con loro i figli e i nipoti), riuniti per un pranzo destinato a diventare il punto di partenza di un lungo viaggio. Il nodo da sciogliere qui è il suicidio del fratello gemello del regista, Camillo, morto nel 1968 a soli 29 anni. La vita scorre in questo documentario e Camillo, l’angelo bello e allegro, lentamente si spegne. I film di famiglia, però, ritraggono un giovane spensierato, che punta lo sguardo direttamente nell’obiettivo senza tradire mai il suo logorio interiore. Accano alla sua storia, materiali d’archivio ci propongono il controcampo dell’Italia, la Guerra, Mussolini, il referendum per la Repubblica, il ’68. In controluce immagini enigmatiche di film a noi famigliari: I pugni in tasca, Gli occhi, la bocca, La Cina è vicina, L’ora di religione. Continui sconfinamenti a cavallo tra la realtà e la sua trasfigurazione sullo schermo, traslata, o meglio, accresciuta dalla distanza della rielaborazione intellettuale e militante, in anni in cui il cinema la letteratura e la politica ti salvavano la vita.

Marx può aspettare. La recensione del film di Marco Bellocchio

Sul piano dei sentimenti si pone anche Nanni Moretti, che sceglie la strada della sobrietà e sposta a Roma, da Israele, l’ambientazione originaria del romanzo di omonimo di Eshkol Nevo (in Italia pubblicato da Neri Pozza). Tre piani condensa in un microcosmo ristretto la visione metaforica del mondo e della nostra società di individui chiusi, assuefatti alla solitudine di giornate trascorse ciascuno nel vuoto dei propri ruoli. In una palazzina di tre piani, in un quartiere tranquillo e borghese, vivono quattro famiglie apparentemente normali nella loro infelicità compassata. Monica sta per partorire e se ne va in ospedale tutta sola proprio mentre  si consuma un grave incidente in cui è coinvolto un suo vicino di casa. Si tratta di Andrea, ribelle figlio di Vittorio e Dora, entrambi giudici del tribunale, che, ubriaco, investe in pieno una donna e finisce rovinosamente contro la vetrata del piano terreno, in casa di  Lucio, Elena e della loro figlia Francesca. Le storie iniziano ad intrecciarsi, ma tanto più il montaggio ne incrocia i fili, tanto più i personaggi restano impassibili e i loro corpi, i gesti, le parole denotano una sorta di inerzia. Nessuno urla, nessuno sembra disperarsi per gli imprevisti di questa notte, né di tutti i giorni successivi, sui quali cadranno le conseguenze di cose fatte o non fatte. Si tratta di metter in evidenza la nota stonata tra padri e figli, l’immobilità spaventata dell’oggi, le linee che non si incontrano fino a quando non vengano meno quelle barriere di cui si diceva e i nodi si sciolgono finalmente, lasciando, però, un scia di gesti e parole come buchi, fratture, interruzioni lungo la strada che è stata percorsa.

Grazia Paganelli