Barbara Distefano – Sciascia maestro di scuola

Almeno i campi cominciano a verdicare

di Andrea Casalegno

Barbara Distefano
Sciascia maestro di scuola
Lo scrittore insegnante, i registri di classe e l’impegno pedagogico
pp. 170, € 19,
Carocci, Roma 2019

Dal 1949 al 1957, per otto anni scolastici (ma nell’ultimo è quasi integralmente sostituito da un supplente), Leonardo Sciascia (1921-1989) insegna in una scuola elementare del suo paese natale, Racalmuto. A questa esperienza non viene data, di solito, soverchia importanza; un piccolo indizio è, tra l’altro, che essa viene ignorata almeno al momento dalla ampia voce che gli dedica WikipediaEppure lo scrittore amò spesso definirsi, con una certa civetteria, “maestro di scuola”, e come tale si presentò a Danilo Dolci il 15 aprile 1965, quando aveva già pubblicato il fortunatissimo Il giorno della civetta: “Sono un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri”. Anche se aveva già scritto poesie, Sciascia diventa noto in ambito nazionale con le Cronache scolastiche apparse sul numero 12 (gennaio-febbraio 1955) della rivista “Nuovi Argomenti”, e poi con il volume Laterza Le parrocchie di Regalpetra (1956), che riprende le “Cronache”. Regalpetra è Racalmuto; e nella seconda edizione (1963) il libro include l’importante racconto La neve, il Natale, che è una continuazione delle Cronache.

Una forte impronta pedagogica caratterizza tutta l’opera di Sciascia, che ancora nel 1980-82, quando è deputato radicale, dedica il suo impegno, insieme a due coautori, a un’antologia per la scuola media: L’età e le età (Palumbo editore). A questa impronta, all’impegno pedagogico e al rapporto tra esperienza scolastica e trasposizione letteraria dedica un bel libro Barbara Distefano, importante per approfondire la nostra conoscenza di Sciascia. Dal documento scolastico al testo letterario è, per l’appunto, la terza parte di questo studio, dopo le prime due dedicate all’importanza dell’esperienza di maestro nell’opera complessiva di Sciascia (Una letteratura da maestro di scuola) e a un tentativo di ricostruzione della sua qualità di didatta (Come insegnava Sciascia). L’indagine è completata dalla trascrizione integrale delle note scolastiche, conservate alla Fondazione Sciascia, che, nella breve colonna dedicata ogni mese alle “cronache” dell’attività svolta in classe, sono il documento di una missione didattica che incontra una difficoltà insormontabile: la povertà.

La trasposizione letteraria ne è l’interpretazione autentica. Il maestro di Regalpetra legge una poesia in classe. “Ma basta che li guardi, nitidamente lontani come in fondo a un binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e di rancore, e mi si rompe dentro l’eco luminosa della poesia”. E più avanti: “Mi pagano per insegnare cose che a loro non servono”. Il maestro, davanti a questi poveri, rappresenta lo stato: “mangia il pane dello stato”, né più né meno del maresciallo dei Carabinieri. Il registro di classe, che pure è l’incunabolo di questa amarezza, non può arrivare a tanto. Ma non resta molto indietro. Come osserva Distefano, il maestro Sciascia nulla concede al linguaggio burocratico, e mette soprattutto in luce quello che non va.

Il primo anno, 1949-50, Sciascia insegna a una quarta elementare. Per prima cosa vuol conoscere i suoi allievi e il loro ambiente, li fa parlare, insiste sull’“ascolto”. Poi tira le somme: “Educare è una cosa impossibile quando l’ambiente resiste”I ragazzi se la cavano in matematica, perché fanno piccoli lavori e sono attentissimi alla loro sia pur infima remunerazione. Ma la lingua è uno scoglio insormontabile, la storia e la geografia sono qualcosa di astratto e quindi incomprensibile. “Non hanno curiosità scientifiche ma soltanto umane”. Ciò che importa nella scuola è la refezione gratuita, che tocca ai pochi considerati indigenti; per averla tutti si accapigliano. Di questo scrive Sciascia sul registro, e non solo dello svolgimento dei programmi. Quando gli allievi hanno freddo, come nel durissimo inverno del 1955, il latte caldo annacquato si riduce a “un’elemosina”: il registro di classe ospita questa severa parola. In quinta va meglio. Un allievo ha scritto: “I campi cominciano a verdicare”. Il maestro, ammirato, si domanda da dove gli sia arrivato quel verbo: è una sua invenzione, tratta dall’esperienza diretta! La rivoluzione americana suscita qualche interesse: è l’idea di libertà.

Arrivano le pagelle, ma per le famiglie la scuola non conta. Nessuno a casa è seguito. Le vacanze sono un disastro: si dimentica tutto e si ricomincia da capo. Anche l’orario pomeridiano ha conseguenze disastrose: la concentrazione è impossibile. Ed ecco una nota interessante di psicologia: quando c’è un’ispezione: “I migliori della classe si confondono, balbettano, sbagliano, i peggiori se la cavano con una certa prontezza”. La dura scuola dell’arrangiarsi fa valere i suoi effetti anche in classe. Chi può prende lezioni private per prepararsi all’esame di ammissione alla scuola media. Ma, nota Sciascia, spesso sono i peggiori che possono permetterselo: meglio sarebbe abolire l’esame. In questa scuola maestro e allievi sono dunque predestinati a non incontrarsi? Forse. Eppure un legame si crea. Alla fine di una quinta il maestro annota sul registro la gioia per la fine dell’anno scolastico. Poi aggiunge: “Non so se sia venata da una certa malinconia”.

casalegno.salvatorelli@gmail.com

A. Casalegno è giornalista