Benjamin Disraeli: dandy e ciarlatano, ma sicuramente tory

La fortuna britannica e l’oblio italiano

di Daniele Niedda

dal numero di novembre 2015

Benjamin_Disraeli_by_W&D_Downey,_c1878Per Hannah Arendt era il miglior esempio di ebreo eccezionale e Simon Schama lo erge oggi a nume tutelare della sua storia delle storie. Che Benjamin Disraeli sia un’icona di eccellenza nel mondo ebraico lo storico inglese lo ribadisce in The Story of the Jews, quando si augura di emulare le gesta verbali del “potente mago”, il tre volte ministro del Tesoro, due volte premier e leader del partito conservatore, colui che con la sola arte della parola era riuscito a sedurre l’Inghilterra vittoriana. L’attrattiva per questa leggenda non sembra mai svanire nel panorama anglofono, dove mediamente gli viene dedicato un libro all’anno, in curiosa, ma significativa, controtendenza rispetto all’Italia. Le opere qui presentate portano infatti le biografie di Disraeli a sfiorare la tripla cifra, e nonostante le origini emiliane, Disraeli in Italia viene completamente ignorato. Negli ultimi anni poi è entrato nel cono d’ombra del cosiddetto liberalismo popolare studiato da Eugenio Biagini, che ha dedicato a William Gladstone, il suo acerrimo nemico, una biografia di rilievo internazionale. In quella che sembra una damnatio memoriae (il lettore italiano ha a disposizione solo tre monografie risalenti agli anni sessanta) deve aver pesato il fardello ottocentesco dei nazionalismi, responsabile secondo Eric Hobsbawm di aver sprofondato la civiltà occidentale nel buio di due guerre mondiali e nell’orrore dell’Olocausto. Tra i primi a rimarcare il peccato originale di Disraeli, il di lui contemporaneo Ruggiero Bonghi, che ne esecrava la politica anti-italiana e stilava un elenco di difetti (carattere poco nazionale, incoerenza, scarsa visione politica ecc.) che hanno reso fin dall’inizio repellente Disraeli al pubblico italiano. Se lo statista esce malconcio, allo scrittore va anche peggio dopo le critiche di pretenziosità e artificialità riservate alle sue opere da Mario Praz, che sostanzialmente ne hanno segnato la sfortuna nell’ambito dei nostri studi letterari.

Che Disraeli sia un soggetto controverso lo si evince da come la stampa inglese ha accolto gli ultimi due studi, specialmente quello politico (Disraeli or The Two Lives, pp. 372, £ 9.99, Phoenix, Londra 2014) scritto da una delle personalità di punta dell’era thatcheriana, titolare prima degli Interni e poi degli Esteri, Douglas Hurd, insieme all’ex ghost writer di David Cameron, Edward Young. Più di un recensore giura che il dibattito rinfocolato dai due sia destinato a durare. Non meno stimolante si rivela l’opera di tutt’altra natura di Daisy Hay (Mr & Mrs Disraeli. A Strange Romance, pp. 308, £ 20, Chatto & Windus, Londra 2015), pensatrice di nuova generazione secondo il terzo canale radio Bbc di cui è collaboratrice abituale, fine esperta di archivistica e letteratura inglese all’università di Exeter. Tanto la vita parallela della strana coppia Disraeli scritta da quest’ultima, quanto le due vite in una di Hurd e Young, quella mitica e quella storica dello statista, condividono la prerogativa delle biografie, implicitamente nel primo caso, programmaticamente nel secondo. Ossia, arrivare al vero Disraeli, penetrare l’enigmaticità della sfinge e togliere la maschera una volta per tutte, dimenticando quanto tale pretesa sia irrealistica, come già avvertiva Margot Asquith: “Nessuno l’ha mai conosciuto veramente”.

Hay tenta l’impossibile spulciando tra gli archivi della Bodleian Library non solo le carte di lui, ma soprattutto quelle di lei, Mary Anne, la moglie dodici anni più anziana, senza il cui sostegno il celebre Dizzy difficilmente avrebbe scalato il greasy pole (l’albero della cuccagna) della politica, secondo una delle sue tante massime entrate nella lingua inglese. Hay è certamente più sfumata nei suoi giudizi dei biografi maschi, tuttavia anche lei è convinta di carpire il segreto attraverso la lente del rapporto coniugale. Ad esempio, interpretando i carteggi clandestini della coppia. In questo caso Hay crede che Disraeli riveli il suo vero io. Il che, detto di chi non ancora ventenne raccomandava a un corrispondente di conservare bene le lettere ché un giorno gli avrebbero fruttato una fortuna, appare un giudizio apodittico su uno scrittore che persino nell’intimità non tradisce mai l’impressione di recitare un ruolo.

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Eppure Hay ha pagine molto belle sulle identità costruite di Benjamin e Mary Anne Disraeli e sul loro innamoramento. Entrambi outsider in una società classista, sono spinti a crearsi come personaggi per potersi affermare. Lei si rappresenta come la povera ma bellissima orfana sottratta a un destino di miseria dal primo marito, il ricco industriale gallese Wyndham Lewis. Sotto l’influsso byronico, lui si autopromuove genio e ostenta modi e mise da dandy. Già immensamente indebitato, scrive romanzi alla moda per vivere, ma spesso è costretto a nascondersi per sfuggire all’arresto. Qualche relazione con donne sposate prelude all’incontro coi Lewis in una fase in cui non ha ancora deciso se scendere in politica. Una di queste, Lady Henrietta Sykes, lo introduce in ambienti conservatori, ma fino all’incontro con Mary Anne nulla accade sul fronte politico. Tenta per quattro volte, ben figurando in campagna elettorale, ma le porte di Westminster restano chiuse. È solo grazie all’intervento della sua lettrice ideale che finalmente viene eletto nel 1838. Hay è acuta nel cogliere il mirabile incastro tra il giovane scrittore, impiegato dall’editore d’assalto Henry Colburn a soddisfare la richiesta di una crescente massa di lettrici borghesi affamate di bel mondo, e la ricca e annoiata Mary Anne, “non ancora entrata nei circoli esclusivi della società londinese, ma fortemente determinata a farlo”, e proprio per questo incarnazione perfetta della lettrice a cui si rivolgevano i romanzi alla moda. Hay suggerisce che il loro innamoramento sia prima di tutto letterario, nato sulle pagine del primo romanzo di Disraeli, Vivian Grey, ricopiate di pugno sul suo diario da Mary Anne, convinta di sposare un genio, ancor più degno di ammirazione per aver sacrificato l’arte sull’altare della politica. Era esattamente ciò di cui Disraeli aveva bisogno: una figura materna sostitutiva, felice di assecondarne il narcisismo. La madre vera, per quel che se ne sa, era invece scarsa di complimenti, incline alla moderazione, per non dire alla demitizzazione del figlio.

Di smitizzazione pianificata è lecito parlare nel caso di Hurd e Young: tale è la loro risposta alla fortuna trasversale che nell’ultima campagna elettorale ha arriso all’icona Disraeli, citato con pari ammirazione da Cameron e Miliband. Per loro il Disraeli storico era in realtà “un ciarlatano senza scrupoli”; “un avventuriero senza principi”; uno strano scrittore di romanzi, eccentrico nel modo di vestire, indebitato fino al collo e innamorato della sua voce”. E le riforme (le leggi su sindacato, sanità, edilizia e agricoltura del secondo governo) pura giocoleria politica dettata dal momento. Ciononostante, i due autori reputano comunque conveniente tenere il ciarlatano nell’alveo conservatore e bollare come stupidaggini i tentativi di appropriazione perpetrati dall’ex leader laburista. Disraeli è un tory a pieno titolo ma va ridimensionato specialmente quando sull’altro piatto della bilancia c’è Robert Peel, il campione di Hurd, che gli ha dedicato un’acclamata biografia qualche anno fa. Ai conservatori di oggi, che esaltano Disraeli come “compassionate Conservative leader”, Hurd rammenta che in realtà fu Peel (non Disraeli) ad aver a cuore le masse e affermare l’idea che chi governa è tenuto ad assumersi la responsabilità dei più bisognosi. Tutt’al più Disraeli tradusse il programma di Peel nel mercato della politica di massa. Senza Peel e la sua svolta antiprotezionista (l’abolizione delle leggi sul grano) il partito non sarebbe sopravvissuto alla prima riforma elettorale (1832); senza Disraeli non sarebbe diventato forza dominante della politica britannica del XX secolo. Il merito di quest’ultimo fu quello di aver intuito l’avanzata inarrestabile della democrazia e aver conseguentemente attrezzato il partito a vincere la sfida. Peel aveva un programma e una visione, cosa che invece manca a Disraeli, come dimostra, secondo gli autori, l’incapacità di costruire trame ben fatte per i romanzi. Disraeli sarebbe piuttosto un mestierante della politica, pronto ad abbracciare le idee dell’avversario che ha appena eliminato politicamente. Che è, guarda caso, proprio ciò che fa Disraeli con Peel, ridicolizzato e affossato ai Comuni prima, e depredato del programma poi quando i Peelites, guidati da Gladstone ormai in minoranza, abbandonano il Partito. Insomma, siamo alla riproposizione di quella che Michael Foot definiva la detronizzazione del good tory, compiuta dall’allora storico di punta del conservatorismo britannico, lord Robert Blake.

A ben vedere Hurd e Young reiterano parecchie critiche di Blake, che arrivava a declassare Disraeli, un riconosciuto imperialista, a Little Englander. Allora ciò che potrebbe sembrare una resa dei conti interna ai conservatori inglesi tra sostenitori del laissez-faire e moderati, nei termini di Hurd e Young tra fan della “disciplina più moderna del monetarismo” e fan di “interventismo statale e spesa pubblica”, rivela qualcosa di più; ovvero, la grande inclusività che da sempre contraddistingue la lingua-cultura inglese, in grado di assorbire e valorizzare il diverso.

Si potrebbe ulteriormente riflettere sulla natura del pensiero liberale per capire se aveva ragione François Guizot a vederne celebrato il trionfo nella vita di Disraeli, oppure se aveva torto, come sostengono Hurd e Young, che leggono quella vicenda umana all’insegna dell’eccezionalismo. Secondo gli autori, il lascito più grande di Disraeli è aver ravvivato il linguaggio della politica con la fantasia. L’erede più promettente in un’era “forte in analisi e debole d’immaginazione” sarebbe l’attuale sindaco di Londra, Boris Johnson, a patto che non si lasci consumare dalle sue battute. Se Johnson prenderà a modello Disraeli, specialmente nell’impeccabile self-control, e, come Hurd e Young sembrano auspicare, s’insedierà a Downing Street, sarà interessante vedere la reazione della tory mind alla prova di un nuovo talento comico alla guida del paese.

daniele.niedda@unint.eu

D Niedda insegna letteratura inglese all’Unint (Università degli studi internazionali di Roma)