Jean-Paul Fitoussi – La neolingua dell’economia | Primo Piano

Per impedire che le cose siano dette

di Mario Cedrini

Jean-Paul Fitoussi
LA NEOLINGUA DELL’ECONOMIA
Ovvero come dire a un malato che è in buona salute
a cura di Francesca Pierantozzi, pp. 192, € 17,
Einaudi, Torino 2019

Per indagare l’evoluzione della disciplina economica nel tempo, è ormai consolidato l’utilizzo di algoritmi statistici che – nella maggior parte dei casi – rintracciano regolarità, e dunque struttura, nella co-occorrenza delle parole utilizzate negli articoli pubblicati dagli economisti. Le principali difficoltà di interpretazione originano proprio dal fatto che l’analisi ha per oggetto le parole, e non i concetti: e nel “contare”, rozzamente, gli algoritmi non consentono di distinguere i casi in cui, ad esempio, il termine “complexity” è utilizzato per indicare un programma di ricerca (la complexity economics) da quelli nei quali ci si riferisce alla complessità di un problema. Non è solo un problema di polisemia: è che lo stesso termine – tanto più in un’era di frammentazione (in mille programmi di ricerca) come quella che, complice la specializzazione, la disciplina vive – assume connotati radicalmente alternativi a seconda che sia associato a prospettive neoclassico-ortodosse (la complessità è, per continuare con l’esempio, un inutile fardello che una scienza sociale rigorosa come l’economia deve necessariamente eliminare) o ad approcci non dominanti o eterodossi (la complessità è allora l’oggetto d’indagine). L’esatto opposto, insomma, del problema esposto nel libro-intervista a Fitoussi. Qui si presenta il paradosso di un’economia che, invece, rende di fatto inattaccabile la “teoria immaginaria” che la domina (quella appunto dell’ortodossia neoclassica) “inventandosi” un linguaggio che poi utilizziamo “per piegare la realtà ai nostri bisogni, per limitare la comprensione al frammento più improbabile del reale”, come illustrato brillantemente nella recensione qui a fianco.

La neolingua orwelliana dell’economia serve a eliminare la possibilità di dissenso: non c’è alternativa, perché la diffusione della neolingua impedisce di esprimerla, e alla fine anche di pensarla. Occorrerebbe qualche riflessione in più, evidentemente, su come sia stato possibile sviluppare la neolingua, sulle ragioni che hanno creato l’opportunità per farlo. Ma Fitoussi coglie nel segno. Cent’anni fa, John Maynard Keynes accusava i policy-makers non solo, e non tanto, di farsi indebitamente influenzare dall’opinione pubblica, quanto di non saper (o voler) utilizzare le loro capacità di persuasione per orientarla verso la ragionevolezza e ridurre così il divario che la separa dall’opinione informata dell’élite. Al contrario, Fitoussi ricorda oggi che il problema ha una sua dimensione autonoma dalla politica stessa: i policy-makers finiscono per essere essi stessi vittime di un dogmatismo dottrinale che impedisce di pensare persino alle alternative che già esistono (la domanda, l’intervento dello stato, ecc.).

Il 2020 è più triste del 1984. Le riforme sono “strutturali”, e fanno male, ma bisogna sopportarle, sono sacrifici necessari. La disoccupazione è “volontaria”, la fiducia è “dei mercati”, la banca centrale deve essere “indipendente”, perché i governi sono di natura cattivi. Il debito, e solo il debito, è “sovrano”: fa ridere, perché effettivamente si tratta dell’unica associazione consentita con il termine. Abbiamo costruito un linguaggio nuovo: un po’ per scimmiottare il Burgess di A Clockwork Orange, che inventò uno slang giovanile immaginario per evitare che invecchiasse col tempo – la lingua di Arancia Meccanica è il “Nadsat” immaginato nel “planetario” (la testa) di Alex (Drugo) quando parla con i suoi “soma” (compagni) Pete, Georgie e Bamba – e un po’, effettivamente, perché ci si è assurdamente convinti che della teoria, delle alternative, si può fare a meno (il problema della macroeconomia è “risolto”: sic Robert Lucas nel 2003). Di qui il parallelo con la distopia di Orwell e il “bispensiero”, che consente appunto di non fuoriuscire mai dall’alveo ortodosso. Non è un caso che l’economia non sia più “politica”, come osserva efficacemente Fitoussi, e che si provi imbarazzo – rinunciando per un attimo alla neolingua e utilizzando ancora quel termine – a ricordare che in democrazia non possiamo disinteressarci del destino della maggioranza.

Alla fine tutti cadiamo nella trappola: “accettiamo di limitare il vocabolario ai termini che non disturbano chi governa”. Ha ragione, Fitoussi: parlare sempre di riforme “strutturali” significa concepire esclusivamente quelle. Si prenda un esempio a caso, la Press release 19/257 (28 giugno 2019) nella quale il Fondo monetario internazionale brinda ai risultati ottenuti dall’Ecuador, cliente a volte ribelle (e come si vedrà, la ribellione nulla ha modificato, nei termini – le parole! – degli accordi con il Fondo) ma in fondo fedele: disciplina fiscale, razionalizzazione delle spese pubbliche, debito sostenibile. Discrezione nelle politiche? Reduced! E il mercato del lavoro? Riformato, per alimentare competitività prima e crescita poi, con provvedimenti (traduciamo) “che facilitano le assunzioni e riducono le rigidità”. Neolingua, naturalmente, quella dell’immaginario neoliberista. Che significa, si noti en passant, che nulla è in realtà discusso (“la neolingua serve per impedire che le cose siano dette. E i procedimenti per impedirlo rasentano a volte l’intimidazione”, ricorda Fitoussi). “Efforts to increase transparency and governance will also help safeguard public resources and promote a business environment supportive of growth and job creation”. Giusto: cioè? Ma intanto diciamo: giusto. Il cioè sarà illustrato a cose fatte.

È questo il senso dell’illuminante studio sull’evoluzione linguistica dei rapporti della Banca Mondiale nel tempo condotto dall’inventore del distant reading Franco Moretti (l’idea di guardare a grandi corpora di documenti, per tornare agli algoritmi, evitando di privilegiare l’unicità dello specifico documento e anzi focalizzando l’attenzione su ciò che vi è di comune – le regolarità, appunto, i pattern – in molti dei documenti dell’archivio). Intitolato Bankspeak, guarda caso – come la Newspeak di Orwell – l’articolo scritto da Moretti con Dominique Pestre (pubblicato sulla “New Left Review”, 92, marzo/aprile 2015) dimostra che la neolingua non è neutrale. Cosa fa la Banca mondiale? 1955: “Con il finanziamento della Banca per lo sviluppo, è stato portato a termine un moderno impianto di torrefazione nei pressi di Jimma, centro di una importante zona di produzione per il caffè”. Ancora: “Ad Addis Abeba e a Gondar sono stati installati centralini telefonici automatici, e manuali in altre città”. E così via: si descrivono risultati (i verbi al passato). Concreti. Localizzati. Che si possono verificare. 2008: “Ci sono paesi della regione che stanno emergendo come attori chiave su temi di interesse globale, e il ruolo della Banca è stato di sostenerne gli sforzi  collaborando attraverso piattaforme innovative in vista di un dialogo aperto e dell’azione sul terreno”. Giusto: cioè? La banca non finanzia più. Diventa partner. Dialoga. E si perde precisione, concretezza. Gli aggettivi descrivono una banca “buona”; l’enfasi è sul processo, i risultati svaniscono. Si passa alla paratassi, a un presente non storico. Viene meno, in altri termini, il significato: potenza della neolingua.

“Se i disoccupati sono dei fannulloni – come si dice – non bisogna concedere sussidi. Nessun sussidio di disoccupazione, nessun disoccupato. Ed ecco risolto il problema della disoccupazione”. Sembra cabaret, quello di Fitoussi. Ma ad accorgersi dell’inghippo saranno pochi “soma”, ancora capaci di riconoscere, al di là delle “mottate” della neolingua dell’economia, il cinismo dell’Europa.

mario.cedrini@unito.it

M. Cedrini insegna economia politica all’Università di Torino