Oliver Jens Schmitt – I Balcani nel Novecento

Un percorso lungo e doloroso

di Eric Gobetti

Oliver Jens Schmitt
I Balcani nel Novecento
Una storia postimperiale (1912-2000)
ed. orig. 2019, trad. dal tedesco di Francesca D’Alberto
pp. 408, € 30,
il Mulino, Bologna 2021

I Balcani nel Novecento. Una storia postimperiale (1912-2000) - Oliver Jens  Schmitt - Libro - Il Mulino - Le vie della civiltà | IBSQuesto corposo volume dello studioso svizzero Oliver Jens Schmitt, docente di storia dell’Europa sudorientale all’Università di Vienna, rappresenta certamente un tassello fondamentale negli studi sui Balcani nel Novecento. Con oltre 400 pagine, esso non è solo un dettagliato resoconto dei principali avvenimenti intercorsi nella regione nel corso di un secolo; è soprattutto un tentativo di analizzarli sulla base di un modello interpretativo innovativo e convincente: quello di spazio “postimperiale”. È noto che gran parte degli stati moderni sorgono in quest’area tra Ottocento e Novecento emancipandosi dai grandi imperi multinazionali ottomano, russo e austroungarico, un fenomeno comune al resto dell’Europa centro-orientale. Tuttavia l’area che solitamente associamo al termine Balcani (essenzialmente dalla Bosnia alla Romania e dalla Serbia alla Grecia) è stata soggetta a un dominio imperiale multiculturale in maniera quasi continuativa per due millenni: dall’impero romano a quello bizantino, e infine ottomano. Questa esperienza storica bimillenaria, secondo l’autore, ha lasciato un’eredità culturale che, nonostante gli sforzi compiuti dalle élite amministrative dei nuovi stati nazionali, persiste di fatto ancora oggi. All’interno dell’ormai classica periodizzazione del secolo breve, Schmitt identifica in quest’area quattro distinte fasi. La prima è rappresentata dalla Grande guerra (che nei Balcani comincia nel 1912 e termina con il conflitto greco-turco nel 1922), un’immensa carneficina che porta con sé un cambiamento epocale: la scomparsa degli imperi e la creazione o l’ingrandimento di paesi modellati dall’ideologia politica dello stato-nazione. Si tratta di un passaggio fondamentale, in cui domina una violenza (parcellizzata, interetnica, ma anche organizzata dallo stato o addirittura da più stati sottoforma di scambi di popolazioni) che colpisce milioni di persone, dal nuovo confine orientale italiano fino alla periferia di Istanbul. Nella seconda fase l’autore sottolinea gli sforzi delle nuove élite verso l’omogenizzazione nazionale, ma anche importanti elementi di continuità con il passato imperiale, soprattutto per quanto riguarda la mentalità, i rapporti sociali, le prassi amministrative, al di là dei modelli di governo o dell’autorappresentazione delle classi dominanti. Nel ventennio del primo dopoguerra i sistemi parlamentari centralizzati (quasi tutti ispirati al modello francese) si rivelano fragili e disfunzionali, e tutti i paesi della regione finiscono, prima o dopo, per adottare un sistema autoritario: dittature regali o regimi parafascisti. È vero che si tratta di un fallimento comune a quasi tutta l’Europa dell’epoca, ma nei Balcani esso sembra originato da uno specifico corto circuito esistente fra struttura sociale e identità nazionale. I nuovi stati-nazione rappresentano quasi ovunque popolazioni contadine arretrate culturalmente ed economicamente, mentre l’esile classe media e le élite urbane sono rappresentate da individui con identità multiple, oppure estranee alle identità nazionali che si sarebbero volute dominanti (ebrei, tedeschi, ungheresi, musulmani). In Romania, ad esempio, in nessuna città i rumeni etnici rappresentano la maggioranza assoluta tra le due guerre, tantomeno nella capitale. Il modello nazionalista radicale portato avanti dalle leadership di ogni paese è dunque destinato a entrare in contraddizione con una base economica e sociale spesso estranea a quello stesso modello. È significativo che proprio alcuni dei monarchi che impongono una loro dittatura “nazionale” non abbiano origini autoctone, come avviene per le dinastie tedesche di Grecia, Bulgaria e Romania.

La terza fase di questo faticoso (e spesso tremendamente doloroso) percorso, quella della seconda guerra mondiale, sembra offrire a molti soggetti l’opportunità di chiudere i conti con il passato imperiale una volta per tutte e di creare regioni etnicamente pure attraverso una nuova ondata di violenze. Più ancora che nella Grande guerra, il ruolo delle grandi potenze (in particolare della Germania nazista) è cruciale nello stabilire i confini fra i territori assegnati ad ogni singola nazionalità. Schmitt tuttavia sottolinea anche, giustamente, le logiche interne alla regione balcanica e gli obiettivi perseguiti dalle leadership nazionali dei diversi paesi nel corso del conflitto. Questo secondo decennio di violenze (che si chiude di nuovo in Grecia, con la fine della guerra civile nel 1949) si conclude con una ulteriore “semplificazione” etnica dei territori balcanici, se pensiamo agli spostamenti di popolazione che riguardano ad esempio i confini tra Romania e Unione Sovietica o tra Italia e Jugoslavia. Tuttavia è la scomparsa quasi totale delle comunità ebraiche e poi di quelle tedesche a rappresentare un cambiamento epocale. Nel concreto ciò comporta lo svuotamento di intere regioni e l’impoverimento del ceto medio di molte città: da Salonicco a Iasi, da Zagabria a Bitola. Ciononostante anche la Seconda guerra mondiale, che pure termina con la ricostituzione degli stessi stati dell’anteguerra, pur se governati da una nuova élite comunista (con l’eccezione della Grecia), non porta con sé la scomparsa totale della straordinaria varietà sociale, culturale, linguistica, religiosa e nazionale che caratterizza questa parte d’Europa.

Saranno paradossalmente i nuovi regimi comunisti, in teoria animati da una logica internazionalista, a portare avanti il processo di omogenizzazione delle società balcaniche. I nuovi governanti sono infatti animati dall’ossessione per l’uniformità tipica del modello statale stalinista e largamente propensi alla violenza “di stato”. La collettivizzazione e la lotta contro le tradizionali comunità contadine, l’industrializzazione e l’urbanizzazione rapida, la volontà di controllo totale sulla vita degli individui, promuovono un modello di società di massa amorfa e uniforme, nella quale le differenze identitarie finiscono per essere appianate. Nei confronti dei sistemi comunisti l’approccio di Schmitt appare molto critico, ma per certi versi eccessivamente sbrigativo. A fronte di un’attenta disanima dei meccanismi di potere delle élite conservatrici nei decenni precedenti, molto minimo è l’interesse per le forze progressiste e rivoluzionarie. I movimenti comunisti sono genericamente liquidati come del tutto marginali e anche la guida delle forze di resistenza in Grecia e Jugoslavia è ridotta alle politiche del terrore applicate nei territori liberati, attribuendo a pure strategie propagandistiche le promesse di rinnovamento economico e sociale. Così anche l’analisi dei meccanismi di consenso che, bene o male, caratterizzano le società balcaniche comuniste negli anni della guerra fredda non appare del tutto convincente. Certo il terrore e il controllo capillare sulla società mediante le organizzazioni di massa del partito hanno un ruolo importante, ma non si può sottovalutare che molti dei cambiamenti intervenuti nelle società balcaniche in quegli anni (scolarizzazione di massa, urbanizzazione) siano stati orgogliosamente percepiti dalla maggioranza della popolazione come sinonimo di progresso.

In questa seconda parte del volume l’autore cerca, in maniera non sempre convincente, di tenere insieme le dinamiche di sviluppo di tutti i paesi dell’area, incluse la Grecia atlantista e la Jugoslavia di Tito. In questo modo però non emerge a sufficienza la peculiarità del caso jugoslavo, caratterizzato da una significativa apertura economica e culturale, pur in mancanza di libertà politiche. Inoltre in Jugoslavia il modello di stato nazione non si era mai realmente imposto, nemmeno fra le due guerre, nonostante il breve e fallimentare tentativo di “jugoslavismo integrale” (una sorta di nazionalismo jugoslavo) condotto dal re Alessandro. Anche nell’epoca di Tito la Jugoslavia resta un vero stato “postimperiale”, una sorta di impero in miniatura, con una nazione-leader (i serbi fino al 1941), ma numerose minoranze nazionali a cui vengono concessi significativi spazi di rappresentanza anche politica (ad esempio i macedoni e i musulmani slavi). Durante la crisi del sistema negli ultimi decenni del secolo il nazionalismo riemerge come strumento eversivo contro l’unità dello stato, mentre altrove nei Balcani le élite comuniste si erano da tempo legittimate come forze nazionali.

Cosa rimane oggi, si chiede in chiusura l’autore, dell’eredità imperiale, di fronte alle sfide della globalizzazione, alle pressioni geostrategiche, alla collocazione dei Balcani lungo la rotta dei profughi che sono il frutto di un disfacimento postimperiale simile a quello vissuto da questa stessa regione nel secolo scorso? Certamente permangono alcuni elementi comuni quali la scarsa fiducia nelle istituzioni statali e la diffidenza verso le minoranze nazionali: fenomeni culturali di lungo periodo coi quali tutti i paesi della regione dovranno continuare a confrontarsi. In chiusura vanno segnalate due pecche: le non infrequenti ripetizioni concettuali e i numerosi errori di traduzione, veramente inspiegabili per una casa editrice di alto livello come Il Mulino.

eric.gobetti@gmail.com

E. Gobetti è uno storico freelance