Viaggio nelle ragioni del sì vax. Intervista a Tito Boeri

90 minuti per comprendersi

Intervista a Tito Boeri di Massimo Vallerani

Il libro (Tito Boeri e Antonio Spilimbergo Sì vax. Dialogo tra un pragmatico e un non so, pp. 112, € 12, Einaudi, Torino 2021) si compone di quattordici brevi capitoli che corrispondono ad altrettanti problemi posti dalla pandemia, affrontati da due interlocutori immaginari: una giovane donna informata e razionale (Piera), a favore dei vaccini e Riccardo, maturo sessantenne scettico portavoce di molti dubbi del mondo no vax. La prima domanda riguarda proprio la forma scelta, quella del dialogo tra due interlocutori che partono da tesi diverse. A chi si rivolge il vostro saggio? Ai dubbiosi no vax o a coloro che debbono avere strumenti più forti verso i cosiddetti no vax? E collegata a questa è un’altra domanda: visto che la portatrice di razionalità a favore dei vaccini è una giovane donna ben documentata, mentre lo scettico ha una certa età ed è uomo, pensate che le generazioni più giovani siano quelle più aperte al dialogo?

La forma del dialogo è dettata dal fatto che noi riteniamo possibile stabilire un confronto tra due mondi che in questo momento sono nettamente separati. Parliamo con persone che si sono già vaccinate e che spesso dicono che quei sei milioni o più di italiani non ancora vaccinati sono irrecuperabili e irraggiungibili anche se alcune di queste persone sono loro conoscenti, familiari per cui provano sentimenti di affetto. Dall’altro lato ci sono le persone che esitano a vaccinarsi, con le punte estreme dei no vax, che tendono in qualche modo a isolarsi, a cercare di costruire una rete tutta interna in contrapposizione al resto della collettività. Si sentono perseguitati e quando si cerca di instaurare un dialogo – e lo diciamo anche sulla base di esperienze personali, oltre ai colloqui fatti con medici di base che hanno passato gli ultimi mesi a cercare di capire le ragioni dei loro pazienti – sembra che si stia agendo su piani separati, che non ci sia possibilità di discussione. Nel libro proponiamo un tentativo di ripristinare un terreno di confronto in cui le due dimensioni si possano parlare.

Quindi alla sua domanda io risponderei tutti e due, ma ci rivolgiamo sia a quelli che si sono già vaccinati, vogliono capire di più e giustamente hanno dei dubbi che crescono perché non ci sono certezze: siamo di fronte a un fenomeno nuovo per molti aspetti, che ogni settimana presenta delle novità. E poi ci rivolgiamo anche a quelli che invece hanno fin qui evitato di vaccinarsi, vogliono meglio documentarsi per prendere decisioni più oculate e però sono disposti al confronto. Questo deve essere chiaro, soprattutto devono essere disposti a riconoscere il fatto che dietro ad alcune loro scelte ci può essere anche un sentimento umano e comprensibile, la paura, per cui bisogna avere comprensione e rispetto.

Anche i vaccinati hanno paura, solo che la risolvono in un altro modo. Tra i due personaggi immaginari la figura di Riccardo mi pare quella meno “realistica” perché è difficile pensare che esista una tipologia unica di no vax o una razionalità no vax. La logica dei gruppi ostili al vaccino è cumulativa e non lineare: dovendo dire no a tutto, sommano argomenti anche fortemente contraddittori fra di loro. Inoltre, la galassia no vax è formata da tantissime componenti (dall’estrema destra, maggioritaria, da frange anarchiche, scettici anti-medici, intellettuali autoeletti resistenti), animate da sentimenti diversi: individualismo esasperato, anarchismo reazionario, scetticismo antiscientifico ereditato dagli anni settanta ecc. Non trova difficoltà, in qualche modo, a pensare a uno strumento persuasivo avendo davanti interlocutori così eterogenei?

Innanzitutto se è realistico un personaggio come Riccardo lo è nella misura in cui è realistica anche Piera, due persone che dimostrano di aver studiato a fondo il problema, ma questo normalmente non succede. Io penso che la galassia delle persone che non si sono vaccinate sia estremamente eterogenea. Agli estremi ci sono i rappresentanti del negazionismo più esasperato, quelli che negano addirittura l’esistenza del Covid. Poi ci sono quelli contrari ai vaccini. All’interno di questa frangia abbiamo anche coloro che desiderano, forse in modo un po’ ostinato, informarsi il più possibile. E poi c’è chi si oppone al green pass per ragioni più legate a una posizione che mal sopporta qualsiasi restrizione delle libertà personali: un atteggiamento di rifiuto verso qualsiasi tipo di costrizione. Le due posizioni sono realtà molto diverse tra di loro. Riccardo incarna un po’ la filosofia di quello che è contrario a tutte le restrizioni della libertà. È un ribelle che vive in modo molto negativo le limitazioni senza capire che le libertà personali hanno il loro limite nelle libertà degli altri. Ma si dimostra disposto a discutere di questi temi (e nella mia esperienza persone come Riccardo ne ho conosciute). Che Piera sia una donna giovane è significativo: all’inizio della vaccinazione si accusavano i giovani di non prestare attenzione, di essere irresponsabili, di non curarsi delle persone più fragili. Invece, quando è arrivato anche il loro turno c’è stata un’adesione di massa. È la nostra generazione a essere in ritardo, quindi la scelta di Piera mi sembra giusta.

Il nostro può essere visto come un dialogo socratico anomalo: non è un dialogo che arriva a una verità finale dopo aver distrutto tutte le argomentazioni dell’altro, noi abbiamo semplicemente insinuato dei dubbi nei due campi, per creare un terreno di confronto. È evidente che noi siamo a favore della vaccinazione, crediamo nella vaccinazione di massa, e anzi nel libro c’è anche una parte dedicata al terzo mondo, dove si tenta di mostrare come la nostra salvezza dipenda anche dalla vaccinazione del resto del mondo.

Un’altra domanda riguarda il ruolo dello stato: non le sembra che una cosa che coagula tutte queste differenti spinte contro il vaccino, contro la vaccinazione, contro la limitazione di libertà sia paradossalmente il fatto che questa è una vaccinazione di massa fatta dallo stato? Sottovalutando forse che si tratta di una grande realizzazione di sanità pubblica per una volta universale e non a pagamento?

Beh sì, qui ci sono sicuramente degli aspetti ideologici, anche se esistono componenti che sono semmai contro l’iniziativa privata e più a favore di quella statale e sicuramente c’è un’opposizione a tutte le misure di restrizione delle libertà personali. Ma credo che il meccanismo sia piuttosto complesso: non dobbiamo guardare all’ideologia in sé, ma a tutto il meccanismo con cui si formano questi atteggiamenti di esitazione e di rinvio alla vaccinazione.

Penso che il primo elemento sia la paura, su cui si costruiscono poi giustificazioni “razionali”, per quanto astruse, per andare quindi alla ricerca di conferme. Purtroppo c’è anche chi si presta al gioco, come alcuni colleghi accademici – un’esigua minoranza se consideriamo il fallimentare risultato di firme, sei su mille, riguardo l’appello al “no green pass” – che, per narcisismo, o perché hanno ambizioni politiche, o perché piace loro andare contro corrente, o perché così si sentono tornare a un clima che si respirava negli anni sessanta o settanta, sposano la causa dei no vax e si mettono a confermare le teorie astruse che alcuni si sono costruiti per giustificare le proprie paure. Poi si creano delle reti di rapporti per cui sui social trovano ascolto questi moderni don Ferrante, che un po’ hanno l’atteggiamento del personaggio manzoniano che negava l’evidenza della peste. Costoro, sui social raggiungono un pubblico molto, molto vasto. E le stesse persone che trovano conferme alle loro “teorie razionali” nel don Ferrante, a loro volta sviluppano una rete di contatti sul web. Da qui in poi è molto difficile cambiare, perché chi cambia opinione diventa un traditore, si sente di aver tradito la fiducia altrui e di uscire da un movimento d’opinione in cui poteva ritrovare un’identità proprio nell’atteggiamento collettivo. Quindi si guarda (con ammirazione) alle persone che nonostante soffrano, nonostante siano malate magari rifiutano le cure. E alcune sono anche morte per queste ragioni. L’atteggiamento più giusto che credo si debba avere in questi casi è quello di dire: “Siamo in una situazione in continua evoluzione – questo è l’approccio del libro – in cui stiamo imparando e giorno per giorno ci sono dati di realtà che ci dicono fin d’ora, in modo incontrovertibile, che si corrono meno rischi vaccinandosi”. Quindi, vacciniamoci tutti e al tempo stesso guardiamoci in giro, manifestiamo i nostri dubbi, ma guardiamo avanti, perché quello che abbiamo alle spalle è il passato, quello che abbiamo detto tempo fa non vale più: non è una questione di coerenza, stiamo imparando cose nuove. Noi tutti speravamo che sarebbe durata pochi mesi, sta durando già da due anni e probabilmente andrà avanti ancora per lungo tempo. E vorrei anche ricordare ai matematici e ai filosofi no vax che nei processi di ottimizzazione dinamica non è mai una buona idea quella di guardare al passato, ma è necessario guardare il presente e proiettare lo sguardo al futuro.

A me sembra che manchi in queste prese di posizioni scettiche degli intellettuali no vax la capacità di formulare una risposta che abbia una minima possibilità di applicazione pratica. Non perché non ci arrivino (almeno alcuni), ma perché non ne hanno la volontà, a meno di non ammettere la quasi totale inutilità delle loro teorie passate e presenti. Quando un grande filosofo televisivo ci dice che il vaccino “non è sicuro” dice una perfetta banalità che è anche una mistificazione della realtà, perché è evidente che nulla è completamente sicuro, mentre è fuorviante lasciare immaginare l’esistenza di una qualche certezza assoluta.

Quello che lei ha detto è di grande interesse. Effettivamente non è un caso che ci siano molti filosofi che hanno il grande vantaggio di non guardare mai ai dati e quindi possono ragionare sulla base di principi generali. Tra l’altro questo è molto fuorviante nella situazione attuale in cui dovremmo essere molto pragmatici. L’atteggiamento di chi si appella ai principi generali e ai valori assoluti o anche ai principi costituzionali in questo momento non è di grande aiuto, per quanto possa avere il suo fascino, la sua attrattiva. Purtroppo dobbiamo essere estremamente concreti e tenere presenti i dati che sono rilevanti. Anche la seconda osservazione è importante: ci sono persone che ritengono si possano fare scelte prive di rischio. Purtroppo niente ha rischio zero, anche la decisione di rimanere chiusi in casa. E quindi bisogna sempre optare per ciò che ci espone a rischi minori: non è mai una scelta tra rischio zero o qualche rischio. Molte persone poi si illudono di poter controllare i rischi, fidandosi unicamente di sé stesse. Insomma, è la stessa filosofia con cui molti per intraprendere un viaggio si mettono in macchina pensando di ridurre il rischio di avere incidenti in aereo, o in treno, perché guidano loro. Sono atteggiamenti profondamente sbagliati, pagati a caro prezzo da chi li assume. La pandemia potrebbe diventare anche un’occasione per disciplinare questi sentimenti “primordiali” e provare a fare un calcolo delle probabilità, valutare rischi diversi. Atteggiamento utile in molti altri ambiti della vita, privata e collettiva.

La seconda parte del libro è dedicata a problemi economici ed etici, fino a che punto le industrie che hanno prodotto il vaccino abbiano il diritto di guadagnare, quanto i brevetti debbano essere “aperti” o rimanere esclusivi. In questa sezione gli argomenti mi sembrano tutti molto equilibrati, sia quelli a favore sia quelli più dubbiosi di Riccardo. Si parla molto delle aziende Big pharma, mentre appare poco il ruolo dello stato. Le chiedo: in questa fase, lo stato è veramente solo un “consumatore finale”, un cliente delle grandi aziende, oppure dovrebbe avere un ruolo maggiore nella ricerca e nelle forme di commercializzazione, ammesso che ci riesca?

È una domanda molto importante e lei notava giustamente che, su questo terreno, c’è una qualche convergenza tra Riccardo e Piera. Bisogna guardare a fondo la realtà delle case farmaceutiche e se esista o meno vera concorrenza. Lo stato ha avuto un ruolo fondamentale nella scoperta di questi vaccini: se non ci fosse stato un impegno massiccio di risorse da parte dei governi, la campagna di sperimentazione non sarebbe partita così rapidamente. Normalmente le case farmaceutiche, che non fanno i loro affari sulla vendita dei vaccini, hanno delle grosse resistenze a lanciarsi nella sperimentazione perché il rischio di fallimento è molto elevato. Su venti progetti solo uno passa e l’iter è molto costoso. Questa volta però, trattandosi di una pandemia, il settore pubblico garantiva che le ricerche sarebbero state finanziate e quindi la sperimentazione è partita prima ed è stata fatta nel modo più rigoroso, non in fretta e male. La sperimentazione avviene attraverso un gruppo di volontari e solo una parte di essi lo riceve. Agli altri volontari, invece, viene somministrato un trattamento all’acqua o con sostanze che non hanno effetti. Queste persone non sanno chi è stato vaccinato e chi no, e dopo la vaccinazione si comportano normalmente, ma viene monitorato in modo costante il loro stato di salute. I protocolli prevedono che quando si raggiunge un certo numero di contagi, la sperimentazione termina e si va a guardare la presenza di persone contagiate nel gruppo che era stato vaccinato e nel gruppo che, inconsapevolmente, non era stato vaccinato. Se la percentuale di coloro che sono stati contagiati tra i vaccinati è nettamente inferiore a quella dei non vaccinati, allora il vaccino è efficace. Se invece la percentuale è la stessa vuol dire che il vaccino non serve a nulla. I tempi della sperimentazione sono legati al raggiungimento di questa soglia critica di persone contagiate: fin quando non si arriva a quel livello la sperimentazione deve andare avanti. In questo caso, la diffusione del virus è stata talmente rapida che il numero di persone contagiate è stato raggiunto molto velocemente.

L’ultima domanda riguarda un problema più ampio di natura politica (inevitabilmente assente nel discorso no vax, che si mostra indifferente alle condizioni dei paesi più svantaggiati): la distribuzione totalmente diseguale dei vaccini nel mondo. Quali sono i motivi di questa differenza ormai abissale, al di là delle spiegazioni culturaliste (come l’incredulità delle popolazioni locali verso il vaccino)? Quanto conta, sul piano politico ed economico, la scelta dei paesi occidentali di creare enormi riserve di vaccini, riducendo le scorte per il resto del mondo?

Anche su questo terreno c’è una convergenza tra Riccardo e Piera. Sicuramente è stato un errore gravissimo quello di non aver garantito i vaccini ai paesi in via di sviluppo e di farli pagare a costi elevati. Se i governi dei paesi avanzati avessero donato i vaccini ai paesi africani e asiatici, avremmo evitato lo sviluppo di nuove varianti che si diffndono proprio in ampie popolazioni non vaccinate. Non è un caso che la variante Omicron sia nata in Sudafrica. Questo non soltanto dal punto di vista umanitario, ma anche sul piano strettamente economico sarebbe stato vantaggioso: secondo le stime del Fmi, lo sviluppo di ogni nuova variante ha un costo per l’economia mondiale di circa 4 trilioni e mezzo, mentre l’acquisto di vaccini per tutta la popolazione mondiale non ancora vaccinata ha costi che, andando per estremi, non superano i 500 miliardi. Siamo su ordini di grandezza nettamente diversi. Perché ci sono stati questi ritardi? Primo, molti paesi avanzati, invece di donare i vaccini, hanno deciso di stoccarli, anche sotto pressione dell’opinione pubblica nazionale, il che ci porterà a buttare via quantitativi importanti di vaccini inutilizzati e con una data di scadenza. Nelle campagne di vaccinazione ci sono vari stadi: la produzione, l’approvvigionamento, la distribuzione e infine la somministrazione. In alcuni di questi paesi c’è un atteggiamento di ostilità nei confronti della vaccinazione, si pensa che sia in qualche modo legata all’uomo bianco, che sia una forzatura, un’imposizione. Ma si tratta di aspetti secondari, il più importante è che i vaccini non sono arrivati in quantità sufficiente. Si dice che dovremmo permettere a questi paesi di produrli: non è così facile come sembra. Qualora dovessimo liberalizzare i brevetti, servirebbero comunque conoscenze approfondite per portare a termine la produzione. C’è anche il problema che molti “ingredienti” necessari potrebbero mancare, perché i paesi avanzati, in alcuni casi, hanno stoccato non soltanto i vaccini ma anche i reagenti fondamentali alla produzione. Quindi, anche se i paesi africani avessero avuto i brevetti, probabilmente non sarebbero riusciti comunque a produrre autonomamente i vaccini. I problemi essenziali in questi paesi sono l’approvvigionamento e la distribuzione. Nonostante le numerose difficoltà (come la temperatura di conservazione e trasporto) volendo, si potrebbe davvero raggiungere la popolazione di tutto il mondo con i vaccini. Questo deve essere l’obiettivo: le ragioni umanitarie stanno al primo posto ma, anche ragionando in modo egoistico, è chiaro che fino a quando non avremo vaccinato tutta quella parte molto consistente di popolazione mondiale non saremo al riparo.

 

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