Le scorie dentro di noi, 2200 torri Eiffel sopra di noi

La plastica dimostra come l’umanità non sia in grado di gestire il pianeta

di Gabriele Lolli

La prima azione che ho fatto dopo aver letto le prime venti pagine del libro è stata quella di cambiare i pantaloni della tuta che indossavo in casa, che sono al 70 per cento cotone e al 30 per cento di poliestere. Le microplastiche sono particelle dell’ordine di un micron (un millesimo di millimetro, e più piccole ci sono anche le nanoplastiche, nella scala di virus e molecole); in casa, oltre che dai vestiti (di acrilico, nylon, elastan) per sfregamenti e usura, scorie di plastica sono rilasciate da lavatrici, coperte, divani, tappeti, e ci sono quelle volutamente inserite nei prodotti acquistati come dentifricio, detersivi, cosmetici (oltre alle plastiche note a tutti, dalle bottiglie agli imballaggi dei supermercati ecc.). Nel 2022 è arrivato l’annuncio che la plastica è presente nel sangue, sospettata finora, adesso provata con esperimenti che ne hanno rilevato la presenza nell’80 per cento circa dei soggetti esaminati; piccole quantità per ora, ma misurabili, e a ruota scoperte anche nei polmoni, nelle urine, nel latte materno, nel liquido seminale: sono il polietilene tereftalato, il polistirene, il polietilene, altri con quote a scendere. Non si sanno ancora gli effetti, ma incombe il ricordo delle polveri di amianto.

Mal di plastica

Le microplastiche sono introdotte anche con il cibo, perché usate nella produzione agricola, dove si cospargono i campi con piccole pastiglie plastificate a lento rilascio: col tempo i prodotti chimici entrano nel suolo, ma la plastica resta lì; e comunque i vasi linfatici delle piante portano nutrienti ai semi e insieme anche microplastiche assorbite dal terreno; la frutta più che la verdura è inquinata per i tempi più lunghi di maturazione ed elevata vascolarizzazione del frutto. Finora per l’alimentazione l’attenzione era concentrata sui prodotti ittici, molluschi in particolare, ma ora si può affermare che le particelle trasmigrano anche nei muscoli dei pesci; si trovano inoltre in latte, miele, riso, zucchero, birra. E l’esposizione attraverso il cibo è ancora inferiore al consumo di acqua minerale in bottiglia. Siamo arrivati ad avere ogni anno 400 milioni di tonnellate di plastica prodotta, un terzo usato una volta sola: e 19-23 milioni di tonnellate (peso totale di 2200 torri Eiffel) riversate in mari, fiumi, laghi.

Questi dati molto minuziosi e precisi (per esempio per le bottiglie si spiega anche come il pericolo maggiore nell’uso sia il tappo), che non riporto perché potrebbe sembrare una lettura poco affascinante, sono invece intervallati nel libro da informazioni complete su ogni aspetto della questione, anche quelli imprevisti; è un libro denso e scritto da giornaliste che sanno il loro mestiere: informazioni utili per le famiglie (per il riconoscimento e il trattamento di quella che entra ogni giorno in casa), e dati scientifici, storici e politici, tutti documentati e quando necessario verificati di persona.

È da sempre che si sa che la plastica è eterna, ineliminabile, ma l’homo sapiens ha solo pensato di buttarla nel mare, nei laghi e fiumi; e quando è suonato l’allarme gli eredi dei colonialisti hanno pensato di vendere l’usato ai paesi poveri, guadagnandoci sopra per giunta. Ancora nel 2016 la Cina importava ogni anno 7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, il 56 per cento della produzione mondiale; nel 2017 ha detto basta, un dramma per i paesi “avanzati”. Subentrano però altri acquirenti; di questi viene qui analizzato il caso della Turchia, che nel 2020 ha triplicato l’importazione di rifiuti dall’Europa rispetto alla quantità precedente al divieto cinese. Adesso in pochissimo tempo la Turchia ha i fiumi più inquinati del Mediterraneo perché la plastica prima di essere sminuzzata deve essere lavata e non ci sono gli impianti per intercettare le acque reflue. Molta di quella che arriva (anche dall’Italia) non si può riciclare perché fatta di materiali composti, poliaccoppiati e misti; dovrebbero per contratto essere riciclati ma è costoso; e poi in Turchia hanno già da smaltire la loro plastica, e non ci riescono, perché comprarne ancora, si chiedono gli osservatori? Verrebbe da dire ben gli sta, ma non è Erdogan che soffre. Non sarebbe ammesso importare plastica e mandarla direttamente all’incenerimento, allora è fatta sparire: nella città di Adana visitata dalle autrici ci sono 167 impianti di riciclo; nelle loro vicinanze gli incendi sono stati 120 solo nell’ultimo anno, e quando la plastica brucia è difficile fermarla: diossina e sostanze chimiche tossiche sono rilasciate nell’ambiente, inquinando anche il terreno agricolo; i bambini che vivono nei dintorni hanno tutti l’asma, aumenta il cancro. Il lavoro è fatto da migliaia di siriani immigrati, e i loro bambini, i waste pickers, erano e sono impegnati nella raccolta di rifiuti nelle strade ma da quando arriva quella comprata i prezzi sono scesi e il guadagno è risibile. Un caso simile si ha a Brindisi, dove al petrolchimico si produce plastica e funziona un impianto di cracking (frantumazione delle molecole più pesanti). La Eni Versalis protesta che sono stati rispettati i limiti emissivi autorizzati, ma intanto uno studio sul periodo 2000-2014, non proseguito, ha rilevato nel 2017 un aumento del 7-8 per cento di tumori, eventi coronarici acuti, malattie dell’apparato respiratorio, oltre a un aumento di ricoveri nel primo anno di vita per malformazioni congenite.

Intanto oltre alle vendite ci sono le esportazioni illegali, dove (le nostre hanno verificato a Bari) nei container in partenza c’è di tutto oltre alla plastica, mescolato in modo che non siano separabili, niente è recuperabile, e l’unica soluzione sarà di mandare tutto il contenuto a bruciare; così si cancella anche la provenienza.

La parte più avvincente del libro è quella dedicata agli inganni sulla questione del riciclo, la grande menzogna. Le società petrolifere hanno ingannato, prima colpevolizzando i consumatori, poi promettendo che se l’usato fosse stato raccolto in appositi contenitori avrebbero risolto il problema col riciclo. In effetti gli imballaggi riciclati vengono usati come combustibile secondario nei cementifici, in alternativa al combustibile fossile, però la combustione ha un forte impatto ambientale. Vaschette e pellicole non possono sempre essere riutilizzate; e quando il riciclo funziona, la plastica prodotta ha perso 10 per cento delle sue caratteristiche, come l’elasticità, e se si ripete la perdita si rinnova (fenomeno del downcycling) e dopo un po’ non è più utilizzabile, restando plastica, e finisce il ciclo del riciclo. Alcune società hanno aperto fabbriche dedicate, Danone dichiara che il tasso di riciclo della sua plastica è al 74 per cento, ma si riferisce alla parte riciclabile; Exxon era interessata a riciclare solo il polipropilene. Comunque, pochi anni e chiudono; Union Carbide informa: “Siamo orgogliosi dell’iniziativa (che mostra la creatività del nostro processo). Tuttavia interromperemo le nostre attività a causa di un potenziale guadagno inferiore a quello accettabile”.

Intanto sfornano nuovi tipi di plastica a basso costo che rendono inconveniente riciclare. L’aumento della plastica derivata dal petrolio nel 2021 è stato 20 volte superiore all’aumento della plastica riciclata: la plastica è prodotta in poche strutture singole, ottimizzando i processi, mentre i costi della raccolta, smistamento e riciclo sono ingenti. Ci sarebbe anche la bioplastica, termine un po’ ambiguo perché vi rientrano o quella derivata da fonti vegetali, o quella biodegradabile o con entrambe le caratteristiche; è complicato, perché ci sono anche prodotti di bioplastica di origine vegetale, come la PlantBottle della Coca-Cola, non riciclabili; ma semplifichiamo. Le bioplastiche degradabili si ottengono da fonti rinnovabili, mais, tapioca, patate, canna da zucchero, oli vegetali, alghe eccetera Dalle pannocchie di mais si ottiene l’acido polilattico (PLA) che con alcuni passaggi si traduce in un poliestere. Il mercato delle bio è in espansione, ma i numeri sono piccoli: 0.5 per cento rispetto ai 400 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno, destinata a crescere al 2-3 per cento entro il 2027, ma non di più perché la plastica ha ancora vantaggi, soprattutto nel costo. Le bioplastiche biodegradabili hanno tempi biblici; non ci mettono secoli solo se hanno anche la dizione “compostabile”, che vuol dire che si trasformano in compost, concime, e allora non devono assolutamente essere messi nella plastica, ma nell’umido (la raccolta dei rifiuti plastici è spiegata tutta nei dettagli). Almeno è a suo favore che la produzione di bioplastica emette meno gas serra. Infatti la produzione e tutto il ciclo di vita della plastica si accompagna a una emissione di gas a effetto serra (il 5 per cento del totale viene dall’industria della plastica). E quest’anno “l’aumento delle emissioni globali di anidride carbonica è il secondo più grande aumento della storia”.

È stato anche denunciato un enorme aumento di emissioni di metano nell’atmosfera in seguito a una nuova tecnica di estrazione, il fracking (fratturazione della roccia, con getti forti di acqua mescolata a sabbia e sostanze chimiche). Il Bacino Permiano, zona El Paso, la più vasta riserva petrolifera USA, sembrava esaurito, finché è arrivata questa nuova tecnologia di trivellazione orizzontale: si trivella in verticale per un’altezza ridotta, poi si va in orizzontale arrivando a riserve a cui non si aveva accesso. Così nel 2019 gli USA hanno superato l’Arabia Saudita come produttori di petrolio e gas (e si prevedono riserve per trent’anni) e inoltre coprono il 40 per cento della produzione petrolchimica a base di etano, fondamentale per la plastica; basso costo e abbondanza di materie prime favoriscono l’aumento della produzione di plastica, pare anche in Europa: i prodotti petrolchimici – plastica, fertilizzanti, imballaggi, abbigliamento, dispositivi digitali, pneumatici, apparecchiature mediche – sono i principali motori della domanda di petrolio (un terzo, e in crescita rispetto a camion e aviazione).

La storia della plastica è l’esempio più lampante di come l’umanità non sia stata e non sia in grado di gestire il pianeta, lasciando la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di un 1 per cento che inquina (dati di novembre 2023) quanto 5 miliardi di persone. Questo non è solo un libro, è un manuale di istruzioni, purtroppo non di sopravvivenza; se non volete che nel 2050 ci sia negli oceani più plastica che pesci e biomassa marina, riducete e fate ridurre l’uso della plastica, evitandola e rifiutandola quando, come s’impara qui, ci sono alternative. L’argomento forse più dettagliato è quello degli imballaggi inutili, come le monoporzioni di frutta e verdura, o succhi da bere, bicchierini. Un giro in un supermercato, in quel di Napoli, accompagnate da un ingegnere di una società di riciclo, è istruttivo. Su ogni confezione si sa che è obbligatoria l’indicazione per il riciclo: il triangolo con frecce sui lati e un numero da 1 a 7 all’interno. Ogni numero indica un polimero, salvo il 7 dedicato a confezioni composite, al momento non riciclabili; 7 anche sulle reti per patate, di materiale troppo composito; 7 anche sulla confezione di carote cotte, su vaschette di affettati con poche fette, o una singola mozzarella, su un pacco di pasta, uno di noci, eccetera. Il 6 indica il polistirolo ma, spiega l’ingegnere accompagnatore, questo è espanso, e per tale polistirolo si sta ancora costruendo il ciclo. Hanno il 6 con la stessa limitazione anche alcuni vasetti di yogurt, il bicchierino di Estathé. Finalmente tra i surgelati si trova il numero 5, il polipropilene: “sarebbe riciclabile, ma lo strato interno, argentato, no”. La mia seconda reazione verso la fine è stata la tentazione di chiedere a L’Indice di pubblicarlo a puntate: leggetelo, leggetelo, leggetelo, non è un libro usa e getta.

gabrielelolli42@gmail.com
G. Lolli ha insegnato filosofia della matematica alla Scuola Normale di Pisa